Cultura e Società
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Un film figlio del suo tempo. Rossella Vaccaro

Un film figlio del suo tempo

Diario di una schizofrenica di Nelo Risi (1968)

Rossella Vaccaro

“Ero caduta al di là del pensiero e non ero più che vuoto e desolazione. Solo coloro che hanno perduto la realtà ed hanno vissuto nel paese inumano e crudele della Luce, possono veramente apprezzare la gioia della vita e comprendere il valore inestimabile della comunicazione umana”.  Renée (Anna)

Il film di Nelo Risi, Diario di una schizofrenica, è indubbiamente figlio del suo tempo: siamo infatti nel 1968, anno in cui in Italia esplode il movimento sociale e politico che ha portato profondi cambiamenti in tutti gli ambiti della società italiana. Tra questi, quello della concezione della salute mentale è stato un cambiamento di grande portata. Già dal 1962 lo psichiatra Franco Basaglia aveva avviato, nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, le prime esperienze ‘anti-istituzionali’, innovative e rivoluzionarie, nell’ambito della cura delle malattie mentali, l’inizio del trasferimento del modello di comunità all’interno dell’ospedale psichiatrico. Sempre del 1968 è anche la pubblicazione del suo libro L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (Einaudi, Torino), testo che ebbe un grande successo editoriale e che ha sancito l’inizio della diffusione dell’‘antipsichiatria’: la negazione della disumanizzazione del malato e l’etica del dialogo in sostituzione dell’etica della coercizione, dal modello custodialistico a quello riabilitativo. Il movimento culminerà nel 1978 con l’approvazione della legge 180, tuttora in vigore, con cui viene decretata la chiusura dei manicomi non più identificati come luoghi adeguati di cura delle persone affette da malattie mentali. Al ruolo di assistenza e di custodia, troppo spesso repressiva, di un infermiere psichiatrico non dotato di strumenti perché privo di un percorso formativo specifico, la rivoluzione basagliana ha sostituito la figura di un infermiere psichiatrico concepito come professionista sanitario con specifiche competenze. 

Alla luce di questa breve, e pertanto assai incompleta, sintesi dell’inarrestabile cammino di riforma della concezione della malattia mentale e delle sue cure, il libro della psicoanalista svizzera Margherite Andrée Sechehaye, Journal d’une schizophrène, pubblicato nel 1950 (Presses Universitaires de France), si rivela in tutta la sua straordinaria modernità, anticipatrice di un cambiamento epocale. 

 Il libro esce in Italia per la prima volta nel 1955, col titolo Diario di una schizofrenica, pubblicato da Giunti (una seconda edizione uscirà nel 2006), corredato da un’esauriente ed efficace presentazione di Cesare Musatti, che non esita a definirlo: “Un documento scientifico, d’inestimabile interesse per gli psichiatri, gli psicoanalisti e gli psicologi, giacché è la descrizione di una grave malattia mentale: l’apparizione progressiva dei successivi sintomi, le fasi di parziale remissione, le tappe della faticosa normalizzazione, raggiunta attraverso un procedimento psicoterapeutico originale di grande importanza sia teorica che pratica” (pag VII). Si tratta, spiega Musatti, di “uno straordinario documento umano, un’opera d’arte” che con il suo linguaggio riesce a recuperare e rivelare un patrimonio di esperienze altrimenti ignorate. 

Renée (Anna) con una “notevole acutezza introspettiva sullo stato della sua vita interiore durante la malattia” (pag.107), racconta la propria dolorosa esperienza come una vicenda spirituale. Nella presentazione del diario Musatti parla del giovane regista italiano, decano dei film italiani a tema psichiatrico, che, innamoratosi di questo libro, aveva chiesto alla signora Sechehaye di farne un film: di tentare di riprodurre, con il proprio linguaggio cinematografico, questa che già di per sé aveva definito un’opera artistica. Nelo Risi, non a caso medico psichiatra e soprattutto poeta d’impegno etico e civile, incontrò molte difficoltà per realizzare il suo progetto. Madame Sechehaye, seppure attratta dalla cosa, si mostrò perplessa e accordava il suo consenso solo per un film di esclusivo interesse medico. Nelo Risi riesce ad avviare il suo progetto: scrive la sceneggiatura con Fabio Carpi e chiede la consulenza scientifica del professor Franco Fornari, allievo di Cesare Musatti, psicoanalista milanese della Società Psicoanalitica Italiana. Nella trasposizione cinematografica del libro, il regista, riesce a rendere l’atmosfera del drammatico succedersi di miglioramenti e ricadute da cui Anna-Renée può progressivamente affrancarsi attraverso la costruzione della relazione terapeutica tra l’analista e la paziente, tra la cura e la malattia.

   La ventottenne Renée del caso autentico diventa nel film una ragazza italiana di 17 anni, Anna, primogenita di due sorelle, figlie di una ricca coppia borghese. La giovane ha sperimentato i primi sentimenti d’irrealtà a 5 anni: 

“ (…) Mi fermai per ascoltare e fu in quell’istante che un sentimento bizzarro si fece strada in me, un sentimento difficile da analizzare, ma che assomigliava a tutti quelli che dovevo provare più tardi: l’irrealtà. Mi sembrava di non riconoscere più la scuola; (…) In quel momento scorsi un campo di grano di cui non vedevo i limiti; e questa immensità dorata, luminosa (la Luce) sotto il sole, legata al canto dei bimbi-prigionieri nella scuola-caserma di pietra liscia mi diede una tale angoscia che scoppiai in singhiozzi” (pag. 9). 

In seguito, Renée-Anna è costretta a interrompere gli studi alla terza media e da quel momento si succedono ripetuti ricoveri in casa di cura fino a un tentativo di suicidio. Le consuete cure non producono nessun miglioramento e, oramai in un grave stato regressivo, Anna viene ricoverata in una clinica svizzera dove c’è Bianca, Madame Secheaye, che cura ‘senza le medicine’. Anna soffre molto: un universo minaccioso, il sistema di idee deliranti, di terrori autopunitivi e di allucinazioni uditive paralizzano il suo sviluppo psichico e intellettuale. 

   Le prime sedute sono disperanti, Anna è chiusa nel silenzio e il suo comportamento è incomprensibile. La cura è lenta e la famiglia sfiduciata. Quando la situazione sembra però chiarirsi, una drammatica ricaduta provoca un nuovo grave tentativo di suicidio. Anna precipita nuovamente in uno stato regressivo profondo e irraggiungibile, e Bianca decide di portarla a casa sua dove solo la morfina riesce a placare le sue sofferenze. A poco a poco Anna riemerge, occorrono diciotto mesi (otto anni, nella realtà narrata nel libro) perché possa ricostruirsi attraverso l’assoluta dedizione di Bianca e la sua tecnica terapeutica, la tecnica della ‘realizzazione simbolica’, così elaborata e definita dalla stessa Madame Secheaye nel ‘Diario’ e fondamentalmente costruita sopra il caso di Renée-Anna. Una tecnica che utilizza i simboli per rendere reale qualcosa che prima non lo era, che attraverso l’uso di simboli permette alla giovane paziente di iniziare lentamente pensare le sue esperienze. La psicoanalista afferma di aver ideato la sua tecnica grazie a un modello suggerito dalla paziente stessa: è Anna che, procacciandosi furtivamente delle mele e mostrandosi molto attratta dal seno della dottoressa Secheaye, esprime il suo desiderio di nutrimento affettivo, indicando in tal modo la natura dei suoi bisogni e il mezzo per soddisfarli simbolicamente. Il suo desiderio è però un desiderio proibito, pericoloso e quindi non può essere soddisfatto non solo per un’impossibilità reale (la paziente non è più una poppante e l’analista non è una nutrice) ma anche perché Anna è schiacciata dai sensi di colpa. Occorreva, ci spiega la Secheaye, soddisfare questo bisogno profondo in forma puramente allusiva e la forma simbolica lo poteva consentire. La realizzazione simbolica (attraverso l’uso di oggetti-simbolo come la tigre giocattolo, una bambola e una culla) di situazioni non direttamente affrontabili, consente ad Anna un progressivo adattamento alle esigenze di quella realtà sentita come insopportabile. Un lento e difficile processo terapeutico che si colloca tra l’avventura scientifica e quella umana. 

Fin dalle prime immagini del film la malattia di Anna viene presentata con chiarezza e semplicità, la sua scheda clinica viene letta dalla calda e solida voce di Bianca (Lilla Brignone) che descrive la gravità della sofferenza mentale in cui la giovane paziente si trova. Allo spettatore solo poche concessioni estetiche ai fini dello spettacolo, la materia è insidiosa e la scelta è di raccontarla con distaccata limpidezza, guardarla con occhio asciutto; gli ambienti sono pochi e sempre gli stessi, rari gli esterni, predominano il bianco e i colori freddi, gli effetti ‘flou’ per i ricordi di Anna. 

Una regia rigorosa che adotta un linguaggio semplice ma per questo efficace, una struttura narrativa in cui le protagoniste, Bianca e Anna, sono lo ‘spettacolo’ da osservare con partecipazione, condividendo il loro dramma intimo e personale che Risi ha rappresentato con straordinaria umanità e attraverso cui il film si lascia perdonare qualche ingenuità e schematizzazione. 

Per la difficile interpretazione delle due protagoniste, il regista, scelse una toccante Margarita Lozano nella parte di Madame Blanche e Ghislaine D’Orsay, all’epoca esordiente di soli diciassette anni e candidata come migliore attrice nel ruolo di Anna. 

Il film, presentato alla XXIX Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia(1968) e al 61° Festival (2008) nella sezione Ici & Ailleurs,  fu applauditissimo e accolto con grande favore della critica più progressista, che ne apprezzò il coraggio e il rigore con cui approfondisce, senza cadere nello spettacolare, la sofferenza psichica. Due Nastri d’Argento, 9 International Awards  e la candidatura all’Oscar nel 1969 comprovarono il successo del film. 

Un successo documentato anche dalla quantità di elogi che riempì la critica dell’epoca:  “Anche se si possono, nel film, riscontrare intenti didattici e scientifici nella descrizione della cura di un caso di schizofrenia, il regista è riuscito con uno stile asciutto e vigoroso insieme a ricreare un dramma intimo sotto il profilo umano e a suscitare una viva partecipazione nello spettatore. Di rilievo l’interpretazione”. (Segnalazioni cinematografiche, vol. 66, 1969). “Un film scommessa che Nelo Risi vince d’un lampo, grazie a un’intelligenza nel vedere e una penetrazione nel sentire, tanto più rare quanto più gravi sono i rischi che il cinema corre quando corteggia la psicoanalisi” (Giovanni Grazzini, Il Corriere della Sera, 7 settembre 1968). “Anche se si possono, nel film, riscontrare intenti didattici e scientifici nella descrizione della cura di un caso di schizofrenia, il regista è riuscito con uno stile asciutto e vigoroso insieme a ricreare un dramma intimo sotto il profilo umano e a suscitare una viva partecipazione nello spettatore. Di rilievo l’interpretazione”. (Segnalazioni cinematografiche, vol. 66, 1969).

Il processo terapeutico narrato nel film e dunque la sua qualità da un punto di vista psicoanalitico lascia certo qualche riserva, prima fra tutte l’idealizzazione dell’analista che in soli 18 mesi compie una sorta di salvifico miracolo. Non va però dimenticato che lo scopo di Nelo Risi è la rappresentazione di un metodo volto a entrare nel mondo della paziente attraverso un attento ascolto empatico da parte della psicoanalista. Lo spostamento della diagnosi sulla persona, anziché sulla malattia, al fine di umanizzare e non stigmatizzare è quello che il regista si prefigge, con successo, per tutta la durata del film. 

 L’argomento è quindi complesso, ma ritengo che in ogni caso dobbiamo a questo libro e a questo film un’importante precisazione. Freud nel 1932 (Nuova serie delle Lezioni introduttive alla psicoanalisi, lezione XXXIV) parla di “totale inaccessibilità della psicosi da parte della terapia psicoanalitica”. E, un po’ più avanti, sempre a proposito delle psicosi, dice: “Noi le comprendiamo al punto che sapremmo benissimo dove inserire le leve, ma queste non sarebbero in grado di smuovere il peso”. Renée, all’inizio della sua malattia,  fu inviata a Madame Secheaye non per essere sottoposta alla psicoanalisi  ma per essere aiutata a trovare un modo per comunicare la sua sofferenza psichica. A rigore, dunque, Madame Blanche non conduce una psicoanalisi di una schizofrenica, giacché la tecnica e il setting psicoanalitico sono del tutto alterati o addirittura assenti, bensì usa la propria formazione di psicoanalista  e un modello teorico relativo alla schizofrenia per costruire un setting e una tecnica specifici. È, insomma, una psicoanalista che cura una schizofrenica allo scopo di aiutarla a recuperare quanto più possibile della sua vita, da cui i sintomi della malattia l’avevano estraniata, e non una psicoanalista che sottopone ad analisi una schizofrenica: “Il concetto di guarigione non è un concetto metafisico, ma un concetto pratico” (C. Musatti, in Diario di una schizofrenica, pag. XIII). 

Il film, attualmente introvabile sia in vhs che in dvd, è visibile in:

https://www.youtube.com

 

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