Marina Abramović
The Cleaner
Firenze Palazzo Strozzi
21 settembre 2018 – 20 gennaio 2019
Recensione a cura di
Maddalena Pinucci
Basta affacciarsi nel chiostro di Palazzo Strozzi per scorgere il furgoncino nero opaco in lamiera ondulata Citroën che ospitò e condusse in giro per il mondo Marina Abramović, il suo compagno d’arte e di vita Ulay e la loro canina Alba. Insieme dal 1977 portarono in giro la loro arte per tre anni, durante quello che loro chiamavano l’Art Vital / Detour il cui manifesto era:
Nessuna dimora stabile.
Movimento permanente.
Contatto diretto.
Relazione locale.
Autoselezione.
Superare i limiti.
Correre rischi.
Energia mobile.
Nessuna prova.
Nessun finale prestabilito.
Nessuna replica.
Vulnerabilità estesa.
Esposizione al caso.
Reazioni primarie.
The Cleaner è metafora del passato, simboleggia il bisogno dell’artista di fare pulizia dopo 50 anni di carriera, una pulizia dell’animo che si esprime attraverso questa retrospettiva partita nel 2016 da Stoccolma e oggi a Firenze, dove Palazzo Strozzi ospita per la prima volta – speriamo non l’ultima – un’artista donna.
La mostra, che parte dalla ‘Strozzina’ per poi passare al Piano Nobile, ripercorre l’arte di Marina Abramović dagli anni Sessanta a oggi attraverso opere pittoriche dei tempi dell’Accademia di Belgrado, filmati, fotografie e ri-esecuzioni dal vivo di alcune celebri performances. Palazzo Strozzi si trasforma in un sorprendente organismo vivente grazie a giovani artisti che, guidati dal Marina Abramović Method, rendono possibile assistere nuovamente a Cleaning the Mirror (1995), in cui l’artista è intenta a sfregare energeticamente per un’ora uno scheletro tenuto in grembo, come a voler creare un rapporto di quotidianità con la morte, e accettazione di essa, come parte integrante ed elemento imprescindibile della nostra vita; o Imponderabilia (1977), che accoglie i visitatori nella prima sala del Piano Nobile dove un uomo e una donna, nudi, l’uno di fronte all’altra, fungono da varco per accedere al resto della mostra rendendo evidente che la nudità era un tabù allora, quando gli interpreti erano Marina e Ulay, e lo è ancora oggi.
Marina Abramović riesce a creare, lungo tutto il percorso di The Cleaner, un intimo dialogo con il visitatore, un dialogo muto e privo di parole ma ricco di significati in cui spicca il desiderio di entrare in contatto con il pubblico e interagire con esso attraverso un incessante scambio di energia: le sue performances sono un’esperienza, e non un evento cui il visitatore assiste passivamente limitandosi a osservare. Quella che Marina Abramović offre è una nudità molto più profonda di quella fisica, che richiede molto coraggio e una certa sicurezza di sé, laddove per sicurezza non s’intende il ritenersi perfetti ma prendere coscienza dei propri limiti tentando sempre di oltrepassarli senza paura di sbagliare.
«Vi chiedo solo di mettere una mano sulla spalla delle persone che avete vicino e di chiudere gli occhi per tre minuti e di sentire l’energia» ci dice Marina verso la fine del talk tenutosi il 22 settembre al Teatro dell’Opera di Firenze. L’ora e mezza trascorre in un clima piacevole e assolutamente umano, Marina Abramović elimina ogni barriera con il pubblico e si racconta nel suo lato tragico, emotivo, umoristico e provocatorio. Infine chiede che l’intero teatro si stringa in un abbraccio collettivo, nessuno si tira indietro e il silenzio cala. Eccola l’energia, unisce tutti ma allo stesso tempo rende ciascuno solo con se stesso.
Il tempo è un altro elemento fondamentale dell’arte di Marina Abramović, più una performance è lunga più diventa reale, parte della vita, realtà che scorre. A fine novembre, precisamente a partire dal 28, Palazzo Strozzi diverrà il terzo spazio al mondo, primo in Italia, che ospiterà la re-performance The House with the Ocean View (2002), la più lunga performance mai eseguita dall’artista senza alcuna interruzione: per dodici giorni un performer preparato vivrà in una struttura sovra elevata, composta da tre stanze comunicanti e prive di una parete, collocata in una delle sale del Piano Nobile. In completo silenzio e digiuno, l’artista sarà sempre davanti agli occhi del pubblico che assisterà a ogni suo minimo gesto e azione di disciplina quotidiana, una sorta di rito di purificazione.
L’energia e la forza che The Cleaner scaturisce sono ben percepibili anche nella sala del cinema Odeon dove l’artista stessa, il 20 settembre scorso, ha presentato la mostra.
Marina Abramović appare come una donna alta, possente, ma dotata di grande leggerezza e mi è difficile non rimanere incantata nel sentirla parlare; non prende subito la parola, anzi è l’ultima a farlo dopo Arturo Galansino, il curatore della mostra, e la coreografa e sua collaboratrice Lynsey Peisinger. Ci parla della sua arte, delle difficoltà incontrate nel far accettare opere immateriali e di come sia stata tra le poche artiste a portare avanti l’arte performativa anche dopo i primi anni Settanta:
« All’inizio degli anni Settanta c’erano poche persone nella famiglia degli artisti performativi, molti hanno smesso di fare performance, io invece no. Non l’ho mai abbandonata. Sono rimasta fedele al mio strumento per cinquant’anni. Andando avanti a fare performance mi sono resa conto che avevo bisogno di sempre di meno, che lo scambio avviene grazie all’energia che è pura e che non si deve necessariamente basare su degli oggetti fra artista e pubblico. Che cos’è l’arte dunque? Come si fa a sapere quando un’opera d’arte è una buona opera d’arte? Secondo me l’arte ha più strati e più strati ha più a lungo può esistere. Se ha solo interesse politico è come un giornale: uno lo legge e poi lo butta via, il giorno dopo non serve più. Se l’arte ha delle implicazioni sociali, spirituali, politiche, se ha un elemento di pericolo e se sa anticipare il futuro allora è arte. E soprattutto un compito dell’arte è quello di elevare lo spirito umano. L’arte non può cambiare il mondo ma può aiutare a comprenderlo. (…) “The Cleaner” è un po’ una metafora di quello che ho fatto: ho guardato il mio passato, le mie emozioni, i miei ricordi e ho cercato di individuare quello che volevo farvi vedere e lasciare di questi cinquant’anni di lavoro.»
Il suo grande senso dell’umorismo è probabilmente ciò che più colpisce di lei, forse perché davanti alle sue performance più che una donna auto-ironica ci immaginiamo una donna dall’animo tragico e di rigida disciplina, un’idea che non si discosta poi tanto da ciò che ha caratterizzato la sua infanzia: figlia di genitori comunisti, eroi della Jugoslavia postbellica, Marina nasce e cresce a Belgrado sotto il regime di Tito. La madre, maggiore dell’esercito, mette in pratica in casa e con i figli regole militari facendoli crescere senza alcuna dimostrazione di affetto, lontani dai loro coetanei e con regole inflessibili che se infrante procuravano loro punizioni corporali. Eppure, nonostante la sua tragica gioventù – o forse proprio in risposta ad essa – Marina Abramović sviluppa una stupefacente apertura verso il mondo, si lascia guidare dalla curiosità e dalla voglia di creare legami con la gente senza però mai dimenticare le sue origini e fa della disciplina appresa dai genitori il suo metodo.
Uno dei primi esercizi appartenenti al Marina Abramović Method si chiama Counting the Rice, consiste nel prendere alcune manciate di riso bianco e lenticchie nere e poi contarli separatamente, per ore. L’esercizio, che è possibile eseguire aiutati da cuffie insonorizzate nell’ultima sala della mostra di Palazzo Strozzi, ha la funzione di creare una situazione di calma e concentrazione per entrare in connessione con noi stessi e riflettere sul presente, perché «se non sai contare il riso, non puoi fare niente di buono nella vita.» (cit. Marina Abramović)
Maddalena Pinucci è laureata alla Triennale di Arti Visive – Pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze e frequenta ora il Biennio di Metodologie della Pittura