Commento alla relazione del Dott. Civitarese dal titolo: “Il corpo che brucia: percezioni delle qualità psichiche ed ipocondria”
Per introdurre l’ipocondria partirò dalla sua definizione in psichiatria, secondo il DSM IV l’ipocondria è classificata all’interno dei Disturbi Somatoformi (insieme al disturbo di somatizzazione, al disturbo algico ed al disturbo del dimorfismo corporeo) definiti per “ la presenza di sintomi fisici che fanno pensare ad una condizione medica generale, ma che non sono invece giustificati dalla condizione medica generale”. Una serie di criteri definiscono l’ipocondri riporto il primo “Criterio A: la caratteristica essenziale dell’ipocondria è la preoccupazione legata alla paura di avere, oppure alla convinzione di avere, una grave malattia, basata sulla errata interpretazione di uno o più segni o sintomi fisici”. Nell’elenco successivo delle caratteristiche dell’ipocondria, due in particolare hanno attirato la mia attenzione, la prima è la sottolineatura del deterioramento del rapporto medico- paziente, i pazienti ipocondriaci ritengono di non essere capiti e di non ricevere cure appropriate. Generalmente il primo livello di intervento per il medico è rappresentato da rassicurazioni sullo stato di salute del paziente, seguite o rinforzate nella maggioranza dei casi, da varie indagini medico-diagnostiche. Nella nostra pratica clinica come psicoterapeuti o psicoanalisti, spesso ritroviamo questi pazienti delusi da quella che ritengono una non comprensione che accompagna la loro storia.
La seconda cosa curiosa, che ha attirato la mia attenzione, è la richiesta di specificare la presenza dello “scarso insight”, cioè se “per la maggior parte della durata dell’episodio l’individuo non è in grado di riconoscere che la preoccupazione di avere una malattia è eccessiva o irragionevole “, una sorta di “micro-delirio” considerato fattore sfavorevole della prognosi.
Il dott. Civitarese all’inizio della sua relazione si richiama al rapporto tra corpo e mente ed osserva: “ il corpo come entità parla sempre e comunque una lingua …..le sensazioni non sono pure emanazioni del corpo….nè si oppongono al corpo bensì hanno a che fare con esso e articolano, fondendoli in un tutt’uno, pulsionale e culturale” .
Il corpo ha certamente attraversato con la sua presenza la psicoanalisi. Un bel lavoro scritto da una collega del Centro Psicoanalitico di Firenze, la Dott.ssa Vassallo Torrigiani, si sofferma in modo molto chiaro ed appropriato su questo tema, partendo dagli esordi della storia psicoanalitica, dal corpo isterico fino ad arrivare ai giorni nostri con il corpo anoressico o il corpo bulimico. Tanti corpi hanno parlato il loro linguaggio all’interno della stanza d’analisi ( M.G. Vassallo Torrigiani: Quali corpi sul lettino della psicoanalisi. In: I cicli della vita. Cinque conferenze psicoanalitiche. AA. VV. FAG Ed.).
Il problema della distinzione tra mente e corpo e quindi anche dei loro rapporti non esiste in modo scontato, ma è una costruzione , che se inserita in altre culture può perdere di senso, ma è senz’altro uno dei temi più importanti che condividiamo all’interno della nostra matrice culturale. Le prime formulazioni sul rapporto mente corpo sono state poste in termini dualistici, a cominciare da Platone, fino a Cartesio. In epoche diverse questa posizione ha avuto anche una connotazione metafisico-religiosa, al concetto di mente si sovrapponeva quello di anima. Diversi sono stati i tentativi di ricondurre mente e corpo ad una unità, che però hanno fatto perdere spesso proprio alla mente la sua specificità ( per un approfondimento su questi temi: L. Solano: Tra mente e corpo. Cortina Ed.). Molte posizioni su questo tema restano riduttive ed estreme, anche quando dal ‘700 in poi la mente non è più considerata un fenomeno metafisico, ma un fenomeno indagabile con gli strumenti della ragione scientifica.
Nel 1895 partendo dalle conoscenze dell’epoca, Freud tenta una traduzione in termini anatomo-fisiologici di quei fenomeni che aveva già visto clinicamente e sui quali già aveva fatto ipotesi psicologiche è il “Progetto per una psicologia”. Questo lavoro suscitò in lui molte perplessità e non arrivò mai a pubblicarlo. Oggi il nostro bagaglio di conoscenze nel campo delle neuroscienze è enormemente aumentato e ci consente di progettare una nuova possibilità di spiegazione biologica delle funzioni mentali, soprattutto attraverso l’idea di una integrazione delle due facce, ma qualcosa continua a suscitarci la stessa perplessità.
Fin dall’inizio della psicoanalisi l’elemento nuovo è stato pensare che il funzionamento mentale non è e non può essere riconducibile soltanto all’individuo isolato, ma si sviluppa e può essere osservato solo all’interno di una relazione. Da Winnicott, alla Klein, a Bion, fino alle più recenti correnti intersoggettiviste nord americane, o al concetto di campo, ed alle teorizzazioni sul funzionamento mentale transpersonale. Una definizione della mente che si incarna nel corpo’ ma non coincide con questo: lo sviluppo della mente è all’interno di una serie di relazioni.
Questo punto fondamentale è stato pienamente colto nel lavoro del Dott. Civitarese.
Ancora in tema con questo vorrei ricordare un bellissimo lavoro della Dott.ssa Guerrini Degl’Innocenti, presentato al Centro Psicoanalitico di Firenze, dal titolo “Il Sé alieno”. Qui l’ attenzione era concentrata sull’autoriflessività, come: “la capacità di esperire, osservare e riflettere su se stessi, sia come oggetti che come soggetti…… corpo e funzione riflessiva della mente si coniugano tra loro nel corso dello sviluppo, ma quando le cose non vanno nel verso giusto, l’esperienza del corpo perde il suo valore simbolico e la sua dimensione strutturante ed organizzante…….. diventando contenitore di esperienze non mentalizzate o dissociate”. Naturalmente il lavoro sviluppava poi questo concetto in forma più ampia ed articolata. Mi è sembrato comunque interessante che anche se da altra angolazione, ritroviamo gli stessi termini di congiunzione, l’ autoriflessività emerge attraverso l’intersoggettività, il corpo ha un ruolo nel funzionamento autoriflessivo ed è ugualmente coinvolto quando questa funzione fallisce. C’è un punto nella relazione del Dott. Civitarese che si lega a questo, quando ci dice: “ nell’ipocondria il percorso della soggettivazione sarebbe un cammino a ritroso per tentare un auto contenimento sensoriale, il testo-corpo si è fatto oscuro, non c’è più subordinazione all’ordine simbolico….” quando qualcosa non funziona “ le sensazioni del discorso ipocondriaco traducono un sentimento di spaesamento….” . Il perturbante di freudiana memoria. L’ipocondria come regressione, come “crisi della matrice intersoggettiva che genera e mantiene il processo di costruzione dell’identità” dunque quando questo percorso si inceppa o fallisce abbiamo “una perdita di familiarità con il proprio corpo, di perdita della lingua in comune”. Questa condizione è paragonata all’esilio, una fuga per sottrarsi ad un devastante conflitto, dove fa la sua comparsa la nostalgia.
Termini estremamente evocativi: esilio, nostalgia, forse anche solitudine. Esiliati, estraniati, la sensazione di essere tagliati fuori. Quella stessa sensazione, quell’esperienza che lo psicoanalista e lo psicoterapeuta conoscono bene, che possono provare controtransferalmente, sentirsi estraniati, tagliati fuori dalla relazione. Quell’esperienza di solitudine percepita nell’ipocondria proprio attraverso il rompersi del legame mente corpo, che può tradursi in una incomprensibilità nel rapporto con l’altro. Quello che all’inizio nella classificazione psichiatrica era una caratteristica specifica: il deterioramento del rapporto medico-paziente. L’esilio , l’ estraneità vissuti anche nella relazione, perdita della lingua comune.
Ecco che allora, come sottolinea il Dott. Civitarese, ma soprattutto come ci fa vedere nei casi clinici, diventa fondamentale “la qualità dell’ascolto”, perchè se il discorso sull’ipocondria è un “argine” che il paziente mette al grande magma delle emozioni, allora la richiesta più urgente è quella di essere accolti ed aiutati a far tenere questo argine, diminuendo la pressione. “Stare al gioco” di ciò che il paziente dice per poter poi suggerire, avendolo in mente a tempo debito, un’altra prospettiva.
E poi ….la nostalgia…quella che tutti conosciamo o pensiamo di conoscere, il desiderio di far ritorno ad un passato idealizzato, con quella sensazione agro dolce di piacere, Il dolore del non ritorno….la sofferenza per il desiderio inappagato di ritornare. Poeti e scrittori ci hanno di gran lunga superato nell’analisi di questo sentimento. Pagine bellissime da Omero a Kundera. Nei passaggi del termine nostalgia nelle varie lingue ci sono sempre sfumature diverse di significato. In spagnolo il significato della sofferenza è più legato all’ignoranza, cioè al non sapere cosa accade là. In tedesco sta più ad indicare il desiderio di ciò che è assente, sia per ciò che già è stato sia per ciò che non è mai stato, facendo quindi mancare un pezzo della radice greca, il senso del ritorno a casa.
Un paziente che si trovi in una condizione di recupero nostalgico dei ricordi, di ciò che è perduto o di ciò che non è mai stato, chiuso in suo guscio, quasi alienato rispetto all’esperienza psicoanalitica, può far sentire l’analista estraniato, esiliato rispetto alla situazione in cui si trova.
Tutti siamo esposti al desiderio di far ritorno dove già si è stati in passato, ma come riassume un detto di incerta attribuzione, forse un proverbio: “Solo i ladri e gli zingari sanno che non bisogna mai tornare dove già si è stati”.