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Saraò G. (2021) Ascolto e pensiero clinico: incontro tra psicoanalisi e salute mentale

Introduzione

La parola ascolto fa pensare alla musica, il canale sonoro come fonte di conoscenza privilegiata; stare nel suono è un’esperienza primordiale, è un patrimonio di ogni essere umano, pensiamo ai primi vagiti, allo scambio sonoro con chi ci ha accudito e ancora prima all’universo sonoro di un feto dentro la placenta. E’ una fenomenologia complessa che ci accompagna nella nostra vita, è un nostro modo di stare nel mondo che ci caratterizza continuamente, è un’impronta irrepetibile che parla di noi e della nostra storia personale.

L’udire però è diverso dall’ascoltare, c’è bisogno di un buon udito per poter distinguere i materiali sonori, i rumori di sottofondo, i disturbi connessi all’atto dell’ascoltare: l’udire è soltanto il presupposto dell’ascoltare. Può capitarci nella vita quotidiana di parlare e non sentirci ascoltati. parlare non è sempre sufficiente e talvolta si parla ed usiamo la voce per occupare lo spazio di interazione con l’altro e noi sappiamo che questa è un’esperienza che ci mette in contatto con uno spiacevole sentimento di rifiuto e di sostanziale infelicità. Quindi l’atto di ascoltare è un atto complesso che riguarda tutta la nostra persona, la nostra storia personale, la nostra disposizione ad accogliere qualcosa che non è sempre prevedibile. La verità è che dobbiamo sopportare, nell’atto dell’ascoltare una buona dose di ambiguità, intesa come apertura verso qualcosa che non è completamente conosciuta; non sempre parlare equivale a farci capire, pensiamo al tema della verità e della bugia che si ripropone con l’altro e soprattutto con noi stessi. Eppure l’altro non è solo un inciampo ma anche una grande opportunità perché ci costringe a svelarci, a venir fuori, a chiarire ad esempio qualcosa che è informe dentro di noi: pensiamo al colloquio tra vecchi amici in cui possiamo scoprirci senza rischiare troppo, mettendo a repentaglio la nostra autostima.

Possiamo ascoltare più volte un brano di musica classica e sapere leggere la musica, ad esempio, ma ogni volta potremo scoprire nuove variazioni che dipendono non solo da chi esegue ed interpreta lo spartito ma anche dallo stato d’animo di chi ascolta in quel preciso momento: non sarà mai la stessa musica.

Petrella (2018) dice: “per ascoltare e d essere ascoltati occorre prendersi cura dell’ascolto stesso e dell’interlocutore” (p. 27).

Nella cultura medica l’ascolto è finalizzato, nella semiotica medica l’ascolto va nella direzione di scoprire-configurare ciò che non è visibile e tangibile immediatamente. Il sintomo va interrogato in attesa di capire e sciogliere l’enigma del sintomo, spesso in attesa di esami strumentali che confermino o no un’ipotesi diagnostica, una possibilità di comprensione che possa favorire un rimedio, una probabile cura. Qui la vista diventa protagonista. Gli occhi, con l’osservazione dei fenomeni clinici assumono grande rilevanza, il tatto e toccare il paziente (la visita medica), fornisce preziose informazioni; lo stesso annusare i materiali organici da parte dei vecchi medici, diventava una risorsa di fronte ad un quadro clinico che non si faceva facilmente ridurre. Spesso c’è bisogno di un tempo di attesa per trovare una via rispetto ad un quid misterioso che porta il paziente.

Per ascoltare, anche in medicina, spesso bisogna sospendere l’azione, quando è possibile, e privilegiare un assetto osservativo che non prevede eccessivo coinvolgimento emotivo. Chi deve ascoltare si trova in una posizione non sempre comoda, che prevede una sospensione di giudizio, in cui nascono dubbi ed incertezze, in attesa di una configurazione possibile, una dimensione che necessita la possibilità di tollerare di non sapere e di non saturare quello che ancora non si conosce, una sorta di crepuscolo della coscienza, un dormi-veglia che mette l’osservatore in una condizione esistenziale di precarietà, un sentimento di parziale depersonalizzazione e restringimento della coscienza.

Per ascoltare e osservare un paziente è necessario costruire un setting in cui dare rilevanza a quanto accade; il setting esterno può variare (ambulatorio, ospedale, domicilio del paziente, comunità terapeutica…). Ma rimane centrale l’assetto mentale che l’operatore deve assumere, un setting interno, un assetto di lavoro che esplora e pensa al fenomeno clinico in base all’esperienza e alle teorie cliniche della propria formazione.

La psicoanalisi si è sempre interrogata su come ascoltare il paziente, su come il terapeuta possa sintonizzare il proprio inconscio avvicinandosi all’altro, per esplorare qualcosa che non è conosciuto e che appartiene al paziente. Una lingua misteriosa, spesso frammentaria che va, nel tempo della cura, valorizzata e scoperta attraverso i sintomi, i sogni, i lapsus, gli atti mancati…ricostruendo la storia familiare e personale del paziente. Uno stare accanto in un setting di ascolto e di presenza ben lontano dalla anamnesi medica classica che è invece finalizzata ad ordinare dei fatti clinici, a trovare rapidamente una soluzione ad un sintomo-malattia. Nel tempo varie teorie si sono succedute ed adesso è fondamentale per lo psicoanalista, soprattutto nei casi difficili, non solo scoprire qualcosa di non conosciuto ma anche costruire nella relazione terapeutica una nuova lingua che appartiene alla coppia al lavoro, un linguaggio verbale e non verbale irrepetibile che arricchisce il paziente ed apre nuove conoscenze al terapeuta.

Nel lavoro clinico diventa centrale l’incontro o lo scontro tra la parola pronunciata e la sua musica-rumore, perché è da questo incrocio che assume rilevanza il senso della comunicazione con il paziente. Dati sensoriali che si sommano alla presenza dei corpi e alla gestualità che li accompagna, alle posture del paziente ma anche al nostro modo di stare nel setting di ascolto e al nostro modo di tacere o parlare. Inoltre, questo è specifico del lavoro psicoterapico, c’è una risonanza di quanto sta accadendo dentro la nostra mente-corpo che si traducono in segnalazioni molto importanti che spesso possono aiutarci od ostacolarci. Sto affermando che c’è uno scambio continuo tra proiezioni transferali del paziente e i vissuti contro transferali dell’operatore che come una cassa armonica risuona e questo rappresenta un grande strumento di conoscenza. Pensiamo a quando il paziente ci fa spaventare o ci fa annoiare, o quando diventa prolisso e ci viene la voglia di andar via con la mente da un’altra parte e ci rifugiamo in lontane fantasticherie.

Qui mi sto avvicinando al secondo tema: la necessità, per ogni operatore, di avere un pensiero clinico; non solo l’utilità di possedere delle teorie sul funzionamento della propria mente ma anche una profonda conoscenza degli esseri umani: un continuo allenamento a ricercare saperi e condivisioni con altri colleghi che hanno avuto esperienze simili. Ognuno di noi fa continuamente ipotesi su come avvengono i fenomeni umani, i pensieri ci vengono continuamente a trovare, abbiamo necessità spesso di dare senso e non solo alla nostra vita. Il fisico Carlo Rovelli (2014) ci ricorda che persino nella fisica dei quanti l’osservatore influenza i fenomeni e che questi non sono mai oggettivi, anche il ricercatore in un laboratorio sperimentale influenza in qualche modo quello che accade. Il punto di osservazione fa parte dell’esperimento e i dati conclusivi di questo vanno considerati alla luce dello sguardo di chi ha promosso ed osservato l’esperimento.

Tutto questo ci riguarda molto come operatori della salute mentale e ci fa interrogare sulle nostre teorie implicite che ci condizionano continuamente nell’osservazione dei fatti clinici e ci pone di fronte a un dilemma irrisolvibile: come far dialogare, nella nostra mente, la cultura umanistica con quella scientifica?

Una cultura scientifica aperta il più possibile ai contesti sociali e sanitari, dalla parte di chi ha meno potere, ovvero i pazienti cosiddetti difficili che hanno bisogno di un intervento multiprofessionale e di una rete di servizi che funzioni per contrastare lo stigma e la riproposizione di un’istituzione che reprime ed isola. E’ notorio che il dolore mentale e la sofferenza psichica producono naturalmente fenomeni che rischiano di ridurre il soggetto ad un sintomo o ad una diagnosi e di conseguenza in tale scenario, se non c’è costantemente un lavoro di decodifica del bisogno psicologico, prevalgano interventi basati prevalentemente sull’emergenza (Burti, 2017). Da questo punto di vista sono anni difficili per i servizi di salute mentale; ormai da diversi decenni hanno un loro riconoscimento come parte integrante del servizio sanitario, senza essere confinati in un’enclave manicomiale. Sappiamo anche che si trovano ad affrontare una crescente richiesta d’intervento socio-sanitario (Riefolo, 2001) che satura la possibilità di ascolto e d’intervento, una richiesta che ci fa interrogare sul malessere sociale (Kaes, 2012), ma che non può trasformarsi in medicalizzazione brutale. Pensiamo ai grandi cambiamenti di psicopatologia che i più anziani di noi nel tempo hanno osservato: psicosi schizofreniche e gravi depressioni melancoliche in cui spesso prevalevano la catatonia e la sindrome di Cotard o sintomi in cui era difficile entrare in contatto con una sofferenza primitiva ed inaccessibile. Adesso invece ci troviamo di fronte a scenari psicopatologici in cui dominano le sindromi narcisistiche e borderline, con quadri che impegnano spesso il corpo attraverso l’enorme gamma di disturbi alimentari e somatoformi, che rimandano ad una impossibilità a definirsi come soggetti, una dimensione adolescenziale della mente che non riesce ad andare avanti e ritorna continuamente ad una nostalgica fantasia di onnipotenza e immortalità. Ci troviamo in un’epoca in cui c’è una grande possibilità di scambi (pensiamo alle reti virtuali e alla rivoluzione dei computer) ma in cui la sofferenza psichica è diventata diffusa e l’infelicità genera un consumo senza piacere, uno stordimento che allontana dal pensare e dal sentire.

L’operatore della salute mentale si ritrova in una sfida senza uguali che comporta necessità di formazione continua e confronto con altri saperi.

La diagnosi, i farmaci, la funzione psichiatrica rappresentano forme di conoscenza e contenimento, nei pazienti difficili, e si trasformano in alcuni passaggi strumenti fondamentali di lavoro. Ma se ci troviamo d’accordo sul fatto che la salute mentale cura attraverso la costruzione di un’affidabile relazione terapeutica (individuale e allargata), come integrare le competenze professionali con la persona dell’operatore e, infine, come tutto questo può realizzarsi in un gioco di squadra, un lavoro di comunità con interventi complessi, senza perdere di vista il progetto terapeutico con il paziente?

Pensiamo al valore dei setting multipli e allargati che si sviluppano durante il percorso terapeutico di un paziente (spdc, comunità, domicilio, centro di salute mentale…). Tutto questo comporta lavorare in connessione e costringe gli operatori che si occupano del caso ad interrogarsi su quale faticosa integrazione funzionale bisogna costruire nel tempo. Inoltre, per evitare interventi caotici e confusivi (per il paziente e il suo contesto), va spesso definita e valorizzata la presenza di un terapeuta di riferimento che, come persona e attraverso la sua presenza, caratterizza lo stile del lavoro terapeutico (Saraò-Tessari, 2018). Ci troviamo nella necessità di personalizzare l’incontro tra la richiesta (il disagio mentale dell’individuo e del suo contesto), e il servizio inteso come un sistema di cure predisposto ad accogliere e ridefinire una domanda di aiuto spesso difficile da decodificare (Perini, 2007).

Lavorare in un servizio di comunità significa, per gli operatori, confrontarsi continuamente con il tema del contesto in cui si esprime la sofferenza mentale. Sappiamo come psicoanalisti che molto dello psichico individuale, soprattutto nei casi difficili, si esplicita nel contesto familiare e nello spazio relazionale con gli altri: pensiamo a tutti i meccanismi proiettivi e di dislocamento nella realtà a cui il soggetto ricorre per lenire il proprio dolore mentale (Nicolò, 2000). Ne consegue l’opportunità di un ascolto e di un’osservazione attenta a tutto quello che bussa e cerca di entrare nella stanza dell’incontro terapeutico, necessità di valorizzare tutti fenomeni che chiedono udienza che spesso si presentano come disturbi e che invece quasi sempre portano informazioni importanti anche sulla psicopatologia dell’individuo.

Da un lato è fondamentale considerare il versante soggettivo di un evento, ma al tempo stesso, occorre pensare al corrispettivo gruppale e collettivo dell’evento stesso; tutto questo tutelando sempre e comunque la specificità della relazione con il paziente. In definiva bisogna considerare che tanta parte della realtà psichica del paziente è situata in aree diverse da quelle dell’incontro terapeutico. In tutta questa complessità vanno considerate, e non sono per niente marginali, le dinamiche del gruppo di lavoro e dell’istituzione sanitaria. Il sistema di cure ha una storia, uno sviluppo, delle vicissitudini che richiedono una pensabilità per potere essere valorizzate, perché rappresentano uno strumento di lavoro indispensabile (pensiamo solo alla storia della leadership in quel servizio, a come si è costituita nel tempo la cultura del servizio, su quali modelli teorici prevalenti funzionano gli operatori) (Correale, 2006).

Come psicoanalisti facciamo parte di una lunga e gloriosa storia piena di grandi competenze teoriche e cliniche che si sono sviluppate sulla relazione terapeutica con variegati modelli che nel tempo si sono avvicendati; una continua ricerca, una passione al servizio della cura e della ricerca che si è aperta sempre di più ai contesti sociali, senza avere più la preoccupazione di perdere e frammentare il nocciolo della sua scienza. Infatti da tempo c’è un interesse crescente verso i gruppi, le coppie, le famiglie, in poche parole verso setting diversi rispetto a quello classico duale; non c’è più il sospetto che tutto questo possa inquinare la purezza analitica, anzi queste ricerche sul confine hanno portato linfa vitale, hanno rinvigorito la falda psicoanalitica, creando una polifonia e favorendo la nascita di nuovi modelli di funzionamento mentale. In questa direzione basta pensare agli sviluppi di conoscenza delle neuroscienze o alla ricerca di nuovi modelli teorici, come il prevalere del filone della psicoanalisi relazionale, o le proposte di Kaes (2007, 2010) sui processi di soggettivazione e la conseguente proposta di una “terza topica” che possa contenere i fenomeni gruppali e contestuali.

Si può affermare che l’intrapsichico ha bisogno, sempre di più, di un rapporto con la dimensione interpersonale dell’incontro e questo apre un grande confronto con la salute mentale di comunità (Boccara, 2020), su basi più paritarie che fa diventare laboratorio di ricerca i servizi e nello stesso tempo permette di immettere aria nuova nel campo psicoanalitico.

 

 

 

Bibliografia

– Boccara P.:  Relazione XIX Congresso SPI, 4-7 febbraio. Panel “ Inconscio e istituzioni”, 2020.

– Burti L. (2017). Attualità di Goffman: quanto contribuisce alla carriera morale di malato mentale la psichiatria di comunità italiana contemporanea? Psicoterapia e scienze umane, 51,2: 211-246. DOI: 10.3280/PU2017-00- 2003.

– Correale A.: Area traumatica e campo istituzionale. Borla, 2006.

– Kaes R. (2007): Un singolare plurale, quali aspetti dell’approccio psicoanalitico dei gruppi riguardano gli psicoanalisti?  Borla.

– Kaes R. (2010):  Il lavoro dell’inconscio in tre spazi della realtà psichica. Un modello della complessità. Rivista di Psicoanalisi, 56: 671-685.

– Nicolò A. M. (2000). La famiglia e la psicosi. Un punto di vista psicoanalitico sulle patologie transpersonali. In “Quale psicoanalisi per la famiglia”. F. Angeli, 2005

– Perini M.: L’organizzazione nascosta, dinamiche inconsce e zone d’ombra nelle moderne organizzazioni. F. Angeli, 2007.

– Petrella F.: L’ascolto e l’ostacolo, psicoanalisi e musica. Jaca Book, 2018.

– Riefolo G.: Psichiatria prossima. La psichiatria territoriale in una epoca di crisi. Bollati- Boringhieri, 2001.

– Rovelli C.: Sette brevi lezioni di fisica. Adelphi, 2014.

– Saraò G.; Tessari G. (2018). Oltre le colonne d’Ercole, i gruppi e la gruppalità nei sistemi di cura. Introduzione Rivista Interazioni, 1-2018/47.

 

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