Ricordando Sandra Filippini
a cura di Rossella Vaccaro
8 marzo 2014
La Giornata Internazionale della Donna nasce dalla grande protesta di migliaia di operaie newyorkesi che il 22 novembre 1908, per rivendicare i propri diritti, misero in atto una protesta che durò circa tre mesi. In seguito, negli USA, il 27 febbraio fu celebrato il “Woman’s day”, successivamente spostata all’8 Marzo, data in cui un esercito popolare guidato da donne portò nelle Piazze di San Pietroburgo un’imponente manifestazione per far terminare la guerra.
In Italia la celebrazione arrivò qualche anno dopo, nel 1922, per volontà del Partito Comunista.
L’8 di Marzo, è diventata una ricorrenza internazionale celebrata in quasi tutto il mondo occidentale per ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne. Soprattutto un giorno in cui riaffermare quanto ancora occorre fare e pensare per le donne vittime di violenza fisica e psicologica, una violenza che vuole soffocarne la voce e cancellarne il volto, l’identità.
Il Centro Psicoanalitico di Firenze coglie l’occasione per ricordare, con immutato affetto e costante nostalgia, Sandra Filippini, amatissima persona e insostituibile collega, prematuramente scomparsa nel 2007.
Il suo sguardo attento alla condizione delle donne, al tema della violenza subita nelle sue varie forme, morale, fisica e culturale, ha enormemente arricchito il dibattito psicoanalitico, teorico e clinico, senza mai perdere di vista la matrice sociale del drammatico fenomeno: la violenza sulle donne rappresenta una violazione dei diritti contro l’umanità e costituisce una discriminazione fondata sul genere.
Nel 2006 Sandra ha pubblicato un libro “Relazioni perverse. La violenza psicologica nella coppia” (F.Angeli, Roma), punto di riferimento per tutti coloro che lavorano nell’ambito dell’argomento trattato e per le ancora tante, troppe, donne che chiedono di poter leggere qualcosa che le aiuti. A suo tempo furono molte quelle che scrissero personalmente a Sandra per ringraziarla di averle aiutate “a uscire dalla nebbia”, a trasformare il dolore in forza. Tre recensioni al libro sono inserite nel dossier sul “Femminicidio” pubblicato sul sito della Società Psicoanalitica Italiana l’8 marzo 2013.
Nel 2008 il Centro Psicoanalitico di Firenze ha dedicato a Sandra una giornata di studio “Dialogando con Sandra” (v. le relazioni di Bruno, Guerrini Degl’Innocenti, Maestro e Ponsi).
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Oggi, 8 marzo 2014, il modo migliore per ricordare Sandra ci è parso quello di proporre un testo che coniuga le sue più grandi passioni: la Psicoanalisi, il suo impegno contro la violenza sulle donne e il Cinema.
Giangaetano Bartolomei, suo grande amico e collega, ci ha messo a disposizione il testo scaturito da uno scambio con Sandra a proposito di un film di David Cronenberg – “A History of Violence” (2005).
Fra le mie dita tenevo un gioiello quando mi addormentai
La giornata era calda, era tedioso il vento
e dissi “durerà” Sgridai al risveglio le dita incolpevoli, la gemma era sparita
Fra le mie dita tenevo un gioiello
quando mi addormentai
La giornata era calda, era tedioso il vento
e dissi “durerà”
Sgridai al risveglio le dita incolpevoli,
la gemma era sparita
Emily Dickinson
Sandra Filippini
Psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana, ha lavorato a lungo come psichiatra nei Servizi Psichiatrici di Arezzo e Firenze. Ha insegnato Psicologia presso la Scuola di Specializzazione in Terapia Fisica e Riabilitazione della Facoltà di Medicina di Firenze. E’ stata Segretario Scientifico del Centro Psicoanalitico di Firenze, sezione Toscana della SPI, e per dieci anni è stata consulente dell’Associazione Artemisia per l’assistenza a donne e minori vittime della violenza. Questo impegno – che ha mantenuto fino alla sua prematura scomparsa – ha costituito sia l’approdo di un interesse per il femminile coltivato fin dagli anni ’80 sia la fonte di una coraggiosa riflessione sulla psicodinamica del maltrattamento. Un tema quest’ultimo che ha suscitato vivo interesse anche nel pubblico non specialistico, come testimoniato dalla sempre folta e vivace partecipazione alle diverse presentazioni del suo libro Relazioni perverse. La violenza psicologica nella coppia (Franco Angeli, Roma 2006).Ha scritto inoltre su argomenti di teoria psicoanalitica e sui temi dell’identità femminile.
Giangaetano Bartolomei
Giangaetano Bartolomei (Napoli, 1940) è stato per più di trent’anni professore di “Sociologia della conoscenza” nell’Università di Pisa ed ha insegnato “Psicologia dinamica” nella Scuola Superiore di Servizio Sociale di tale università. Come membro associato della SPI ha lavorato a lungo come psicoanalista ed è stato redattore della “Rivista di Psicoanalisi”. Ha pubblicato Esperienze di crisi. L’orchestrazione sociale del conflitto psichico (1984), Latenze nella teoria sociologica (1992), Come scegliersi lo psicoanalista (2000 e 2012), A clandestine identity: pathways of contemporary femininity (con E.Piccioli)(2003) ed altri volumi e saggi sull’uso della psicoanalisi nelle scienze sociali, sul concetto di ‘devianza’, sull’immagine della donna nella teoria freudiana e su temi di mitologia. Vive a Firenze.
Sandra Filippini è stata l’amica più cara che io abbia avuto. La sua morte crudelmente prematura, nell’agosto del 2007, dopo tre anni di lotta coraggiosa contro il male che l’aveva colpita, ha privato noi tutti che l’amavamo di una splendida persona e la psicoanalisi italiana di un’analista straordinariamente intelligente, colta e dotata della rara capacità di riunire la finezza dell’osservazione clinica con il rigore dell’elaborazione teorica. Nei suoi ultimi anni di vita, consapevole di non avere molte speranze di guarigione, Sandra si impegnò a fondo per riunire in un volume il frutto di molti anni di indagini e di riflessioni sul tema delle perversioni relazionali e, in particolare, della violenza psicologica nella coppia. Nacque così Relazioni perverse (2005, Franco Angeli Editore).
Con Sandra condividevamo anche la passione per il cinema e, naturalmente, lei pre-diligeva i film nei quali fossero portate sulla scena le relazioni di coppia ‘malate’. Insieme avevamo preparato, nel novembre del 2005, una sorta di commento psicoanalitico da far seguire alla proiezione del film spagnolo Ti do i miei occhi, di Iciar Bollain, presso l’Istituto Stensen di Firenze, nel quadro di un programma,“Buio in sala”, promosso dal Centro Psicoanalitico fiorentino e che prevedeva una serie di pellicole particolarmente inte-ressanti dal punto di vista psicoanalitico.
Nel novembre del 2006 andammo entrambi a vedere A History of Violence di David Cronenberg. Qualche giorno dopo, Sandra mi mandò, per e-mail, le sue osservazioni sul film. Le risposi proponendole la mia interpretazione della vicenda, in alcuni punti diversa e divergente dalla sua. Pensammo di farne una recensione a quattro mani, nella quale emergessero le nostre differenze interpretative. E così, abbozzammo un testo in forma dialogica. Poi Sandra fu presa da altri impegni (ne aveva sempre molti e, nonostante le sue cattive condizioni di salute, non si arrendeva) e la nostra recensione finì nei recessi dei nostri rispettivi computers, e presto fu dimenticata, sia da lei che da me.
Qualche giorno fa (febbraio 2014) l’ho ritrovata, per caso, fuori posto, in una delle tante ‘cartelle’ che ingombrano il mio desktop e che non aprivo da anni. Ho pensato che forse potesse essere pubblicata, nonostante sia allo stato di semplice abbozzo, perché alcune osservazioni di Sandra mi paiono molto acute e meritevoli di essere conosciute da chi è interessato al tema delle relazioni di coppia. E’ anche un modo per ritrovarla, in un dialogo immaginario, che attenui per un momento il dolore incancellabile per la sua assenza.
Giangaetano Bartolomei
S.FILIPPINI – G.BARTOLOMEI (*)
A History of Violence: due punti di vista divergenti
Come e perché una moglie, anzi un’intera famiglia si stringano intorno ad un uomo sebbene ne conoscono il lato violento, ed anzi lo accettino e lo proteggano, è descritto e spiegato nel film, bello e angoscioso, di David Cronenberg. Il film mostra infatti una famiglia americana apparentemente normale, anzi, una bella famiglia; la madre è avvocato, il padre gestisce una tavola calda, il figlio maschio è adolescente e c’è poi una bimba piccola.
Non si stringono intorno a un uomo violento, giacché, fino al momento della rapina, nulla fa intendere, nei suoi comportamenti, che egli sia un violento: anzi, sembra un uomo pacifico e dolce. Inoltre, io distinguerei – per bizzarro che possa sembrarti – uomo violento da ex-gangster. Non tutti gli uomini violenti sono o potrebbero diventare dei gangster e (udite, udite!) non tutti i gangster sono uomini violenti, sebbene professionalmente possano praticare la violenza.
A me sembra che il farci scoprire che in passato Tom era stato un gangster sia un espediente per mostrarne i diversi aspetti della personalità – distinti mediante una scissione temporale (prima Joey poi Tom…avrebbe potuto essere, e in parte lo è, una scissione nello spazio: qua Joey, là Tom…).
Io riserverei l’etichetta di “uomo violento” a colui che, senza un interesse personale o fuori dell’esercizio delle sue ‘funzioni professionali’ (come quella di gangster o di poliziotto), mette in atto comportamenti violenti coi familiari o con gli estranei (oppure con partners ‘scelti’,e solo con loro), come effetto della sua psicopatologia (vedi il film Ti do i miei occhi).
Quella di gangster mi sembra un tipo di “professione” alla quale si rivolgono, spesso, tipi di personalità particolari, borderline, antisociali, narcisismo maligno ecc… in cui i meccanismi della scissione o della dissociazione post-traumatica hanno un ruolo preminente.
Prima ancora di introdurre la famiglia, però, il film si apre su una serie di immagini di brutale violenza, descritta in modo piano, senza toni alti, quasi a volerne suggerire una specie di “normalità”. Due banditi, dall’aspetto “normale”, anzi dall’aria annoiata, uccidono tre persone, tra cui una bambina. Il regista non si preoccupa di fare comprendere allo spettatore la causa di questi crimini: si limita ad indicarne l’insensatezza, la banalità e la ferocia.
Non mi pare insensata: la bambina viene uccisa perché è un testimone.
Al terrore della bambina che viene uccisa dai due personaggi “tutto-male” si collega, nella scena seguente, il terrore di un’altra bimba, Sarah, figlia di Edie e Tom Stall – una famiglia, questa, che viene presentata, all’opposto, all’inizio del film, come “tutto-bene”. Sarah ha un incubo e si sveglia urlando. Accorrono prima il padre, poi il fratello e infine la mamma. Tutti la consolano e cercano di tranquillizzarla. In particolare il fratello maggiore, Jack, le suggerisce che per mettere in fuga i mostri che la terrorizzano nel sogno basta accendere la luce: così facendo scompariranno.
Si preannuncia, un po’ platealmente, il tema dei mostri che sono dentro ciascuno di noi, ma che sembrano scomparire alla prova di realtà del quotidiano (accendere la luce).
Scorrono poi alcune scene della vita quotidiana di una famiglia felice e “normale”, ma ben presto il “male”, cioè la violenza e la distruttività, irrompono all’improvviso attraverso la ricomparsa dei due criminali presentati all’inizio del film, che entrano, con intenzioni a dir poco pessime, nella tavola calda di Tom all’ora della chiusura. Stanno per stuprare la cameriera e forse per fare una strage, quando Tom, il buon Tom, reagisce e, in modo tanto rapido quanto deciso, uccide i due banditi salvando così la vita dei suoi dipendenti e degli avventori del locale. Inutile dire che egli si trasforma così nell’eroe locale e viene festeggiato e intervistato da varie reti televisive.
Da questo episodio si sviluppano conseguenze di vario genere: sul piano psicologico, Cronenberg indica come la violenza si trasmetta da una generazione all’altra, di padre in figlio. Così Jack, il figlio dell’ “eroe”, un ragazzo fino a questo momento anche troppo sottomesso e mite – per questo umiliato da due bulli della sua scuola – trova il coraggio di reagire – reagisce anzi in modo eccessivo, prendendo a pugni i due bulli e riducendoli assai male.
Jack, galvanizzato dall’esempio del padre (che fino ad allora lo aveva educato a sopportare i soprusi), trova finalmente la forza di reagire. E’ una vittima che reagisce, ma non diventa né un violento né un carnefice (“Guàrdati dall’ira dell’agnello!”, Isaia). La sua reazione sembra eccessiva, ma è una reazione che compendia tutte le sue precedenti ‘reazioni-mancate’. Più tardi, avendo ormai superato la sua inibizione a usare la forza per difendersi, ucciderà il criminale che sta per uccidere suo padre, sparandogli nella schiena. Non diventerà un violento, ma un uomo capace di reagire alla violenza.
Da un certo momento in poi la violenza ha fatto irruzione nella sua vita. Stiamo parlando di violenza, non di aggressività. Quest’ultima è necessaria, adattativa, ma una sua cattiva regolazione – che la trasforma in violenza – diventa disadattativa e, si può dire, patologica. (Nello stesso modo in cui un eccesso di passività viene considerato come un sintomo – nelle depressioni, nelle personalità dipendenti ecc…).
Sul piano della storia, del plot, l’episodio permette di mettere in scena, si potrebbe dire, il “ritorno del rimosso”. Una misteriosa auto nera fa la sua apparizione – e lo spettatore avverte subito un senso di minaccia e di paura. Da questo momento, infatti, la vita della famiglia viene sconvolta: dall’auto escono personaggi poco raccomandabili – risulterà in seguito che si tratta di criminali di grosso calibro. Essi si rivolgono a Tom come se lo conoscessero, chiamandolo però con un altro nome: Joey. Dopo il primo momento di smarrimento, confusione e stupore, la famiglia Stall e lo spettatore devono affrontare il fatto che probabilmente, molto probabilmente, anzi di sicuro, Joey è esistito davvero, forse esiste tuttora, (come una “personalità seconda”) nella persona stessa di Tom. Cronenberg ricorre insomma all’espediente della personalità multipla per raccontarci la coesistenza “scissa” di male e bene, altruismo e distruttività violenta, all’interno della stessa persona. Tale coesistenza è scissa, o, per dire meglio, dissociata, perché i due aspetti non possono coesistere nello stesso momento, per cui la parte “tutto-bene” e quella “tutto-male” fanno la loro comparsa in momenti diversi: o c’è l’una o c’è l’altra. Non c’è la possibilità, infatti, che esse si contemperino, perché questo richiederebbe un lavoro psichico e uno sviluppo della personalità incompatibili con i livelli di violenza espressi nel film.
Una “personalità seconda” che non si manifesta nei comportamenti. Ben diverso è il caso di chi ha una sorta di “doppia personalità”, e ciascuna delle due entra in scena ed opera, volta a volta oppure occasionalmente.
Sì, qui non è chiaro, perché fa pensare allo ‘stato secondo’ della trance isterica. Volevo dire una personalità dissociata, con riferimento alle personalità multiple, oppure, come dici tu, una doppia personalità.
Io credo che tu debba contemplare la possibilità, psicodinamicamente poco studiata e poco elaborata, di una conversione (per usare un linguaggio religioso, in mancanza di meglio). I casi abbondano, ma stranamente c’è poca letteratura sull’argomento, che io sappia. Tom è tirato per i capelli dai suoi persecutori a ritornare ed essere Joey; e proprio perché si rifiuta di farlo è oggetto di violenza e di un tentativo di assassinio. Tom uccide tutti proprio perché non vuol ritornare ad essere Joey. Naturalmente di questa vicenda si può dare una lettura simbolica che porti nell’interno della psiche di Tom quello che il film rappresenta nell’esterno delle sue relazioni con gli ex compagni di delinquenza. (Prima aveva semplicemente denegato e occultato o rimosso il proprio passato, ora gli permette di riemergere, lo riconosce e lo uccide).. Comunque, bisogna ricordarsi che “i cattivi” lo cercano non per indurlo a riprendere insieme a loro la vita da gangster, ma per consegnarlo a suo fratello e fargli subire il castigo (la morte) per lo ‘sgarro’ da lui compiuto.
Tom ammette, parlando con la moglie, di essere stato Joey, ma di avere sperato che questo personaggio non ricomparisse più, di essersene liberato. Mi sembra da sottolineare il fatto che Tom collega tale trasformazione – da cattivo a buono, da Joey a Tom – al rapporto con la moglie Edie: soltanto la sua presenza gli permette di essere Tom e di tenere lontano Joey. Vediamo all’opera uno dei meccanismi che legano le donne ad un rapporto con uomini che le fanno soffrire con il loro carattere violento: “Non lasciarmi perché solo tu mi puoi salvare”, dice lui, e “Non posso lasciarlo perché ha bisogno di me” pensano loro. E’ lo stile del perpetratore: responsabilizzare la vittima, ricattarla facendole sentire che l’interrompere il gioco costituirebbe una colpa e così tenerla avvinta.
Di fatto, se n’è liberato per sempre. Dopo aver sgominato i suoi persecutori, usando la violenza (ma, più che altro, le ‘tecniche di lotta’ apprese nella sua precedente ‘professione’), giacché non c’era altro mezzo per farlo, Tom-Joey richiude di nuovo e per sempre il libro della violenza.
Che lo richiuda per sempre non lo sappiamo. Sappiamo solo che viene accettato dalla famiglia nonostante il suo passato o la sua doppia personalità. Inoltre non ti pare che, alla professione di gangster, fosse singolarmente ‘portato’?
La sua ‘violenza’ rimarrà confinata nella relazione erotica con sua moglie: con la donna da lui scelta e che lo ha scelto. Ma non è una relazione nella quale egli agisca la parte del sadico, e, cosa di non poco conto, si capisce dal film che egli continuerà ad essere un marito fedele e a condividere solo con la moglie questo eros acceso di aggressività (ma non di violenza).
Il film ci mostra che anche la vita sessuale della coppia è infiltrata dalla aggressività – anzi che l’aggressività viene erotizzata. Roberto Escobar, nel suo commento al film apparso sul Domenicale del Sole-24 Ore di domenica 8 gennaio 2006, afferma che la violenza di Tom “Non è crudeltà e non è paura. Si direbbe una questione chimica, una questione che si decide da sé nella profondità del corpo. […] Non si tratta solo di violenza distruttiva e omicida, ma di una “verità” più ampia e decisiva. E’ la stessa verità che esplode fra Tom e Edie, fra i loro corpi. Proprio mentre si affrontano e si fanno del male, all’improvviso l’aggressione reciproca diventa reciproco desiderio e piacere…”.
Una “verità del corpo” dunque, una sorta di mistero che affonda le sue radici nel corpo…
A me sembra invece possibile un’altra lettura. Attraverso l’espediente della personalità multipla la sceneggiatura di Josh Oltson – da un racconto di John Wagner e Vince Locke – mostra la commistione di aspetti buoni e cattivi – “tutto-bene” e “tutto-male” – nella stessa persona. Coesistenza dissociata, come si diceva, ma non per questo meno presente e vera, per cui Tom sembra all’inizio non sapere nulla di Joey, poi sembra esserne lui stesso vittima – lui, almeno, dice così. Per quanto riguarda il rapporto sessuale che i due coniugi hanno dopo che si è cominciato a capire che Joey esiste davvero, vediamo che Edie dapprima si rifiuta, poi, dopo essere stata presa con la forza, si eccita e partecipa al rapporto, che è soddisfacente anche per lei. Quando poi il rapporto è concluso, la donna recupera la distanza e l’atteggiamento critico verso il marito.
Ma perché il rapporto funziona? La spiegazione più semplice è che Edie trova piacere nella sottomissione masochistica. Però, se guardiamo bene, questa è una semplificazione fuorviante, è un modo di non dire niente con parole dotte o almeno gergali. Edie si sottomette nel rapporto sessuale e prova piacere? Ciò significa che trova piacere nella sottomissione, cioè che è masochista. Nominalismi. Certo, se abbandoniamo le spiegazioni facili, dobbiamo trovarne di più difficili, meno a portata di mano; dobbiamo procedere per tentativi ed errori.
A me sembra che nell’atto sessuale “perpetrato”, per così dire, da Joey che la prende con la violenza, Edie cerchi di trovare o ritrovare il rapporto con Tom, di trovare, diremmo noi psicoanalisti, l’oggetto buono, il buon rapporto, che in altri momenti le era sembrato di avere. Ma si può escludere che la donna abbia trovato, nella violenza del rapporto, un elemento eccitante? Sappiamo che donne traumatizzate in passato, in modo particolare donne che hanno subito in modo continuativo durante l’infanzia situazioni di maltrattamento o abuso, tendono ad erotizzare situazioni in cui subiscono violenza, come se avessero bisogno di sensazioni forti per potere provare qualcosa. Come se la loro soglia percettivo-sensoriale si fosse innalzata e loro facessero fatica a “sentire” in assenza di stimoli forti – fortemente dolorosi. E’ stata maltrattata Edie nell’infanzia? Non lo sappiamo, Cronenberg non lo dice, per cui questa non può essere che un’ipotesi accennata e lasciata da parte.
Ma si vede, prima, una scena erotica in cui Edie sembra raggiungere il pieno soddisfacimento sessuale senza alcun bisogno di aggressività e di violenza, anzi, attraverso un gioco ritualizzato, talmente dolce da risultare melenso. E poi, la scena dell’amore ‘violento’ è l’inaugurazione di un ‘nuovo corso’ nel loro modo di fare l’amore oppure è un evento isolato e connesso al sovraccarico di tensione cui è stato sottoposto Tom-Joey (giacché il rapporto sessuale avviene subito dopo lo scontro con i nemici)?
C’è di sicuro il fatto che la donna è stata colta alla sprovvista dall’irruzione di Joey, della parte violenta della personalità del marito, ed è spiazzata e confusa. Inizia da questo momento il suo percorso per affrontare la mutata situazione, e sappiamo che lei metterà in atto le sue coping strategies per affrontarla. Tra queste, quella di “familiarizzare con il nemico”, meglio conosciuta come “sindrome di Stoccolma”, non è la meno importante.
Tom non è un nemico di Edie, non è mai stato una minaccia per lei, e si capisce che non lo sarà mai. Edie è la donna ‘scelta’ da Tom per essere colei che lo aiuta a garantirsi di non ritornare mai più ad essere Joey. E’ la sua complice-salvatrice: senza di lei non sarebbe riuscito a ‘convertirsi’ al bene: al ‘fare bene’, rimanendo – beninteso – con la sua personalità, come Sant’Ignazio di Loyola. No, l’idea della ‘conversione’ non mi va. Mi sembra, al contrario, che semmai questa sia la giustificazione di Tom, il suo modo per legare di nuovo a sé la moglie (“Solo tu mi puoi salvare”).
Nella parte finale del film, Tom affronta il proprio fratello maggiore, o, meglio, il fratello maggiore di Joey, boss di una banda criminale, che è il mandante dei criminali dell’auto nera. Nel loro incontro doppiezza e tradimento la fanno da padroni, e si capisce subito che le cose finiranno male. Una cosa che lo spettatore coglie è che, mentre la violenza criminale del fratello maggiore è funzionale a mantenere il potere nella banda, quella di Joey è più afinalistica, immotivata, folle, e perciò fa ancora più paura. In breve, Richie, il fratello maggiore, tenta di fare eliminare Joey, ma ancora una volta quest’ultimo ha la meglio e si salva facendo una carneficina – uccidendo, inutile dirlo, il fratello oltre che i suoi scherani. E poi torna a casa – come Tom, naturalmente.
Il fratello maggiore ha convocato Joey con lo scopo preciso di farlo uccidere per poter essere perdonato dal Super-boss al quale Joey aveva fatto un grosso sgarbo. A me non pare che la violenza di Joey sia, nella circostanza, “afinalistica, immotivata, folle”: intanto non è violenza, ma tecnica di combattimento e poi…ha come fine quello di salvargli la vita.
E qui c’è un grande finale: la sua famiglia, infatti, pur dolente e impaurita, lo accoglie. La bimba mette in tavola il suo piatto (lui arriva mentre loro sono a cena) e la moglie gli lancia un lungo sguardo che esprime paura, preoccupazione ma anche accettazione. E’ per questa ragione che ho letto il film come una storia di violenza nella coppia e nella famiglia. Ce ne sono gli elementi. L’uomo, infatti, come accade spesso in queste situazioni, si rivela violento da un certo momento in poi. O meglio è soltanto da un certo momento che cade il velo di Maia e non si può più non vedere la sua violenza. Una violenza che la moglie non conosceva. (Ma è davvero possibile che non sapesse? O possiamo, come dice Bollas, supporre che si trattasse di una consapevolezza conosciuta ma non pensata, non pensabile?).
La famiglia è sconvolta perché lui è scomparso senza avvertire nessuno e tutti temono il peggio. Quando torna, capiscono che ce l’ha fatta a far fuori i cattivi che lo volevano morto; e capiscono anche che, per farcela, ha dovuto ‘tirar fuori’ Joey-il-gangster: ma sanno anche che Joey-il-gangster non sarà mai usato contro di loro.
La moglie, comunque, viene colta alla sprovvista e rimane, dapprincipio, confusa. Le ci vuole tempo per riflettere sul fatto che, se Tom è stato così bravo a uccidere sull’istante due pericolosi criminali, forse la violenza non doveva essergli così estranea e sconosciuta. La donna abbozza un tentativo di rifiutarlo, di allontanarlo da sé, ma viene sottomessa, in particolare sessualmente. E’ nella sessualità, infatti, che la donna cerca di ritrovare, al di là di quelle cattive, le parti buone di lui, il suo “lato buono”, come dicono molte donne maltrattate dai loro compagni.
Ma lei non era mai stata maltrattata da Tom! Al contrario, lui era (e tornerà ad essere) un marito dolce, premuroso, affettuoso. Tutta la famiglia concorderà tacitamente che quella parentesi di violenza si è richiusa per sempre: come un conto in sospeso che è stato finalmente saldato.
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( * ) Le parti in tondo sono dovute a Sandra Filippini, quelle in corsivo a Giangaetano Bartolomei.