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Recensione di Sandra Maestro a “Per un sapere dei sensi. Immagine ed estetica psicoanalitica”

Domenico Chianese e Andreina Fontana (a cura di), Per un sapere dei sensi. Immagine ed estetica psicoanalitica. Roma, Edizioni Alpes Italia, 2012.

Recensione di Sandra Maestro

Questo libro nasce come una raccolta degli sviluppi germinativi di “Immaginando”, libro edito da D.Chianese e A.Fontana nel 2010. Il libro è in parte composto dagli elaborati approfonditi e rivisitati delle presentazioni di “Immaginando”, in parte da elaborazioni nuove e originali sul tema proposto nel titolo: “Per un sapere dei sensi. Immagine ed estetica psicoanalitica”.

La prevalenza dei contributi è di psicoanalisti, ma ci sono anche artisti e molti autori con doppio statuto professionale/identitario: psicoterapeuti e artisti, filosofi e psicoterapeuti, artisti e filologi, che si confrontano sull’intreccio tra l’immagine, l’immaginare e lo sviluppo del pensiero. Essi propongono differenti prospettive che da quella storico-filosofica arriva a quella artistica fino, ovviamente, a quella psicoanalitica nelle sue varie declinazioni, la psicoanalisi degli adulti e la psicoanalisi dell’infanzia. La lettura del testo offre anche un percorso molto originale per mostrare/di-mostrare, in contesti vari ed eterogenei, nella stanza di analisi come durante un viaggio in treno o nella visita di un museo , il ruolo che hanno i sensi nella costruzione del pensiero, quella che Andreina Borutti definisce come il recupero della radice “sensibile” del pensiero. Tale recupero è una delle possibili vie per riscattare il “corpo”, la “ carne”, per usare un termine caro a Maurice Merleau-Ponty (filosofo del Novecento molto caro agli autori), grembo del possibile, fonte perenne di senso. Un recupero che, in termini più attuali, permette di superare rischiose dicotomie tra mente e corpo, tra percezione e pensiero, tra brain and mind. La struttura molto eterogenea dei contributi presentati nel libro, 36 per l’esattezza, non consente tuttavia di rintracciare un filo conduttore unitario; le brevi osservazioni che riporterò sono pertanto scaturite da una spinta “liberamente associativa” sollecitata dalla lettura piuttosto che da una aderente ricostruzione dei singoli contenuti .

Gli psicoanalisti e le immagini

Da sempre la psicoanalisi si confronta con il tema dell’immagine e dell’immaginare. Senza ricorrere necessariamente alla psicoanalisi dei bambini, allo scarabocchio di Winnicott, o alle magistrali interpretazioni dei disegni di Richard da parte di Melanie Klein, direi che l’intero movimento psicoanalitico, in tutti i suoi sviluppi è fortemente attraversato dal tema dell’immagine, della rappresentazione, della raffigurabilità del pensiero iconico, immaginifico, sia come prodotto della mente del paziente, il sogno, sia come prodotto della mente dell’analista mentre è a lavoro. L’attività immaginifica dell’analista mentre ascolta un paziente è fondamentale. Gli analisti al lavoro visualizzano dentro la propria mente gli scenari raccontati dai pazienti, producono nuove immagini, utilizzano continuamente modelli e schemi grafici per rappresentare le loro teorie, disegnano anche tanto. Il libro è dotato di un bellissimo cd con i disegni fatti da Leonardo Albrigo durante le sedute con i suoi pazienti. Il cd ha un titolo intrigante: “la scatola nera dell’analista” e l’operazione nel suo insieme si potrebbe definire come una forma molto raffinata di percezione amodale , ovvero di traduzione da una modalità sensoriale (quella uditiva) a un’altra, quella visiva. Anche sul piano teorico la psicoanalisi è permeata dal visivo: la funzione di reverie, introdotta da Bion, e successivamente sviluppata da molti autori post -bioniani (penso a Florence Guignard, a Joan Normann) rappresenta uno dei cardini delle teorie sul pensiero e richiama questa capacità di “sognare” della mente dell’analista. La capacità di visualizzare, trasformare e alleggerire, trovare senso alla comunicazioni del paziente. Ma la vista non è l’unico senso chiamato in campo; la Tustin, per esempio, descrive il tatto e il contatto della saliva sulle superfici degli oggetti come modalità esplorativa sensuale dei bambini autistici. Bion stesso, nei “Seminari italiani”, fa riferimento all’olfatto come senso che può essere sollecitato nel contatto con il paziente; in un altro passaggio parla di “rumori” prodotti dall’analizzando durante la seduta alludendo a certe inondazioni verbali, prive di vero significato comunicativo, che allagano la mente dell’analista, destrutturandone le capacità di costruzione di senso. In questi casi è come se il senso dell’udito si sostituisce all’ascolto…. Vorrei però concludere questa prima riflessione con una notazione sugli inganni della percezione, quando cioè il “visivo” produce distorsione delle rappresentazioni e pensiero delirante. Penso alla dispercezione delle pazienti anoressiche, alla deformazione percettiva riferita alla propria immagine corporea ma anche al mondo degli oggetti. Per esempio mentre si alimentano, hanno bisogno di spezzettare il cibo in minutissimi pezzi, per avere l’impressione di ingerire quantità minori, di sottomettere pertanto la quantità reale alla ideazione psicotica. In questi casi la percezione sensoriale può contribuire a spingere il soggetto nella deriva psicotica.

Le immagini per gli psicoanalisti

Una seconda osservazione breve riguarda l’impatto che le immagini hanno sugli psicoanalisti: essere psicoanalisti, aggiunge, sottrae, devia, qualcosa nell’impatto con un’ immagine, un quadro, un film, una mostra? Nel libro molti contributi indicano a mio avviso, una certa peculiarità recettiva dello psicoanalista nell’impatto con l’estetica. Il ferma carte appoggiato sulla scrivania di Freud, in una riproduzione di Pollok del 1914, si trasforma nel testo in un “ferma-pensieri”; in un altro contributo, il lavoro di architetti giapponesi che edificano una casa tendendo dei fili finissimi di acciaio e dando così forma a una struttura tutta da immaginare, come nelle città invisibili di Calvino, diventa una metafora per descrivere ciò che succede nella seduta analitica : anche tra paziente e analista si tendono tante possibili linee immaginative che poi con le parole diventano costruzioni narrative. Gli psicoanalisti giocano con le parole, rovesciano le rappresentazioni, cercano sempre il doppio/triplo/quadruplo/quinto senso dell’esperienza percepita. A volte questo è un talento, in altre può togliere leggerezza.

Quello che gli psicoanalisti non sono.

Uno dei contributi che mi è rimasto più impresso è quello di Giovanna Goretti che descrive la sua esperienza di fronte a un quadro di De Chirico, “La mia famiglia”. Una descrizione bellissima che guida l’immaginazione del lettore in modo magistrale. L’autrice ci racconta che intenta a perdersi nella pregnanza simbolica della prima immagine da cui rimane colpita, (un bambino schiacciato da una montagna di oggetti) alzando lo sguardo si rende conto che i volti dei genitori del bambino, non hanno né occhi né bocca. Osservando più attentamente, vede pochi tratti, filiformi, disegnati nel centro delle teste che evocano i capelli: quindi non di volti si tratta, ma di nuche, i genitori hanno il viso girato dalla parte opposta. L’autrice avanza alcune ipotesi legate alla biografia di De Chirico: il bambino del quadro poteva essere il fratellino minore di de Chirico che era nato l’anno in cui era morta la sorellina maggiore, in quel periodo la famiglia era esule in Grecia, lontani, soli, tramortiti dal dolore, con lo sguardo rivolto al passato. Sono andata a cercare il quadro, perché mi sono emozionata di fronte alla capacità di rappresentazione del dolore, della perdita, della struggente nostalgia per luoghi, tempi; stagioni della vita passata raffigurate da De Chirico in modo così efficace. Sicuramente il testo di Giovanna Goretti, che ci guida alla scoperta del quadro attraverso le sue reazioni emotive, allarga la nostra comprensione di ciò che vi è raffigurato, ma questo non toglie niente alla genialità dell’opera di De Chirico. Ho poi fatto un pensiero di quanto tempo mi ci sarebbe voluto in un’analisi per “ raffigurare/esprimere”, in modo così completo ed efficace, il trauma, la perdita, il dolore psichico di un paziente e mi sono vista lontana dalla genialità sintetica dell’artista; mi sono sentita piuttosto come un’artigiana che mette insieme le sue “creazioni/interpretazioni” un po’ alla volta, tassello dopo tassello , limando, aggiustando, provando a incastrare, incollando pezzetto dopo pezzetto, parola dopo parola. Il nostro strumento è la parola, una parola più satura, polisemica, ponderata che dovrebbe tradurre/rappresentare/raffigurare il” sensibile”, ciò che il paziente “sente”, “vede” nella sua realtà intrapsichica. A volte, nel tradurre ci allontaniamo dal sensibile, ma allora anche la parola può diventare foriera di inganni, fraintendimenti, manipolazioni. Vorrei concludere con un breve cenno a Italo Calvino, più volte citato nel testo. Nella prima delle Lezioni americane, quella sulla Leggerezza, l’autore ricordando i suoi quaranta anni di scrittura dichiara: ”La mia operazione è stata più volte una sottrazione di peso, ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città….” Personalmente mi sento molto allineata con questo target, e sono soddisfatta quando anch’io, nel mio lavoro, riesco a restituire un po’ di leggerezza alle persone che curo.”Per un Sapere dei Sensi” è’un libro pieno “di pieno di cultura”, di creatività, che invita a leggerne altri e suscita pensieri, idee e piacere.

Sandra Maestro

Febbraio 2014

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