6 Novembre 2021
La cura psicoanalitica ritrovata
Sulle psicoterapie psicoanalitiche
Un Seminario inedito di Donald Meltzer e Martha Harris: “Qualcosa di psicoanalitico”
Nel ringraziarvi tutti, vi porgo il saluto di Anna Ferruta, che purtroppo oggi non può essere qui presente per la concomitanza con un altro impegno istituzionale, riportandovi il suo pensiero: “Penso che la psicoanalisi possa trovare setting pienamente validi nei contesti istituzionali dove diventa possibile utilizzare il suo potenziale di cura e di ricerca. Tale ricchezza della psicoanalisi è prevalentemente confinata negli studi professionali, e quindi può esprimersi in modo limitato, relativamente a certe patologie, e soprattutto non può accompagnare i momenti cruciali dello sviluppo psicofisico del bambino nell’ambiente. La proposta del modello di Maurizio Stangalino nasce da una ricca esperienza di frequentazione psicoanalitica e dal lavoro istituzionale in prima persona”.
Il libro di Maurizio Stangalino, di recente pubblicazione, “La cura psicoanalitica con bambini, adolescenti e genitori. Un modello possibile nei Servizi” (2021), è un libro particolarmente prezioso nel panorama psicoanalitico contemporaneo, e si pone in continuità con un altro libro fondamentale, “La cura psicoanalitica contemporanea. Estensioni della pratica clinica” (2018), curato da Tiziana Bastianini e Anna Ferruta. È proprio Anna Ferruta, nella sua illuminante prefazione al libro, intitolata La cura psicoanalitica ritrovata, a sottolineare come Stangalino, con il suo libro, oltre a rendere fruibile al lettore il testo di un “Seminario ritrovato”, di Donald Meltzer e Martha Harris, prospetti un modello “possibile” di cura psicoanalitica “da ritrovare” nel contesto istituzionale dei Servizi per l’età evolutiva. È il modello di cura di Marcella Balconi, basato su osservazione, ascolto, capacità di pensare e utilizzare emozioni transferali e controtransferali, nel lavoro con i bambini, gli adolescenti, i loro genitori e le loro famiglie. Il titolo del libro scelto da Maurizio Stangalino, La cura con, è volto ad evidenziare la possibilità di sviluppare “esperienze psicoanalitiche”, nell’accezione che ne dà Anna Ferruta (2018), soprattutto nell’ambito dell’età evolutiva, che rappresenta un’area di intervento più flessibile e variabile rispetto ai parametri classici della tradizione. Stangalino sottolinea la specificità “evolutiva” del suo “Modello di cura psicoanalitico con bambini, adolescenti, genitori”, rispetto a quello con gli adulti, che presentano strutturazioni del sé e difese già consolidate. Il suo Modello “possibile”, appare innovativo e originale, soprattutto perché nell’includere l’ambiente e i genitori in accoglienza, osservazione, interazione con équipe multidisciplinare, implica un lavoro fine e capillare con i genitori, oltre che con il bambino e l’adolescente. Sappiamo che oggi molti psicoanalisti considerano ineludibile il lavoro con i genitori nell’avviare un percorso di cura con un bambino (Vallino, 2002; Badoni, 2004; Lucarelli, Tavazza, 2004). A partire da una rilettura storica e critica del Seminario di Meltzer e Harris, il libro fornisce un quadro ampio e articolato della storia della psicoanalisi infantile e della storia dell’approccio psicoanalitico al lavoro terapeutico in età evolutiva, fino agli sviluppi più attuali in neurofisiologia, Infant Research, psicoanalisi relazionale. Le varie parti del libro sono arricchite da una notevole apertura alla cultura psicoanalitica più recente: dal concetto di contenitore mentale di Ogden come spazio nella mente per ospitare altre menti, all’attenzione all’ambiente intersoggettivo trasformativo del Boston Group. Stangalino esplora una vasta serie di temi, relativi alla psicoanalisi in generale, alla psicoanalisi dell’età evolutiva, alle psicoterapie, con una specifica attenzione rivolta all’assetto analitico del terapeuta a lavoro con il paziente, sia nel proprio studio che in ambito istituzionale. Tale attenzione sembra rimandare a quella che Giovanni Hautmann (1982) chiama “funzione psicoanalitica della mente”: quella disposizione mentale dell’analista che ha per fine la realizzazione del lavoro psicoanalitico nella sua specificità”.
Vorrei qui soffermarmi sul significato antesignano del Seminario inedito di Donald Meltzer e Martha Harris, nel prospettare Qualcosa di psicoanalitico, e nel contemplare una vasta gamma di interventi terapeutici, non solo quello classico, come esito di una consulenza, e nel concepire la diagnosi come una “diagnosi retrospettiva”. È un testo che ci permette di riflettere sulle “forme” della cura che attualmente viene attivata per i pazienti, soprattutto nell’ambito istituzionale e territoriale dell’età evolutiva.
Il seminario di Meltzer e Harris, pubblicato per la prima volta nel libro di Stangalino, si è svolto a Novara nel marzo 1980, ed è stato “recuperato” grazie alla cortesia del Dr. Botto Micca nel rendere disponibili per la sbobinatura le registrazioni originali. Esso fa parte del lungo ciclo di Seminari Novaresi che a partire dai primi anni ’70, e durante il ventennio successivo, Donald Meltzer e Martha Harris hanno tenuto su invito di Marcella Balconi. Il fruttuoso rapporto scientifico di Balconi con Meltzer e Harris, appare come la prosecuzione del precedente intenso rapporto con Esther Bick, anch’ella protagonista di incontri seminariali a Novara. È importante ricordare come Marcella Balconi sia stata una figura pionieristica in Italia, per aver contribuito in modo incisivo alla diffusione della psicoanalisi infantile, così come andava sviluppandosi in ambito europeo, con un crescente interesse per il bambino, considerato anche all’interno delle sue relazioni con l’ambiente e con il gruppo. Inizialmente in contatto con l’ambiente psicoanalitico francese (Diatkine, Lebovici), Marcella Balconi ha poi consolidato un legame scientifico con gli psicoanalisti inglesi postkleiniani, prima con Esther Bick, poi con Donald Meltzer e Martha Harris. Balconi e Meltzer condividono una visione del lavoro analitico come dimensione creativa ed “esplorativa”, centrata sulla “esperienza congiunta” della coppia analista-paziente, sulla capacità di osservazione nell’incontro con il paziente, con l’intento di filtrare eventuali elementi “devitalizzanti”, di natura speculativa, sganciati dalla clinica, per conferire un “senso” più pieno alla relazione terapeutica. All’interno della psicoanalisi post-kleiniana e sulla scia del pensiero bioniano, Donald Meltzer e Martha Harris hanno contribuito a un allargamento del campo di intervento dalle relazioni e dinamiche intrapsichiche agli ambiti intrafamiliari e sociali, e in generale a un’estensione del metodo psicoanalitico. Meltzer descrive infatti il metodo psicoanalitico “non tanto più solo come una prassi terapeutica ma come un modo di essere che può essere applicato a tutte le situazioni terapeutiche” (Meltzer, 1980). Si tratta di un modello che vede il processo analitico e la psicoanalisi come “processo”. Ora c’è un approccio più “artistico” alla relazione con il paziente, con una visione binoculare dell’analisi, in senso bioniano, in cui si tiene contemporaneamente conto dei processi interni e di quello che avviene nella relazione. Il Seminario di Meltzer e Harris segna un passaggio cruciale: da un approccio medico-scientifico, che intervista il bambino, con una finalità diagnostica, a un approccio artistico-scientifico, teso all’osservazione, all’ascolto e al contenimento. Si va così affermando un approccio molto più personale del rapporto tra paziente e terapeuta, con una maggiore importanza data ai flussi transferali e controtransferali. Viene pertanto utilizzato un nuovo concetto di interazione tra paziente e analista che avviene durante la seduta, riferibile sia all’analisi tradizionale, sia alle psicoterapie e alle terapie brevi. Il concetto di consultazione va così trasformandosi in concetto di “consultazione terapeutica”, e il concetto dell’analisi come setting rigidamente definito, va mutando, lasciando spazio a setting allargati. Al momento della consultazione le interazioni tra un paziente o una famiglia e l’équipe dei curanti, danno inizio a un processo che ha ad un estremo della scala la consultazione terapeutica, e che può evolvere verso un ampio raggio di possibilità terapeutiche, tra cui quella di un’analisi ad alta frequenza di sedute. Le combinazioni terapeutiche sono tante: il rapporto uno a uno; la terapia uno a due, cioè la terapia di coppia; oppure due terapeuti con la coppia; oppure la psicoterapia della famiglia; oppure un terapeuta che conduce un gruppo, o un gruppo di terapeuti che conduce un altro gruppo. In un simile approccio terapeutico, la diagnosi si svolge nel corso del processo e non è già data all’inizio: è la “diagnosi retrospettiva”. In questa ottica il terapeuta è chiamato a sviluppare la capacità di adattarsi a diverse modalità di intervento, a seconda di come evolve il rapporto con il paziente e con il gruppo.
La “diagnosi retrospettiva” di cui parlano Meltzer e Harris presenta delle analogie con la “diagnosi di struttura in psichiatria infantile”, di cui parlano Balconi e Berrini (1957), in un articolo estremamente interessante, in cui si sottolinea l’importanza, in psichiatria infantile, di pervenire a una diagnosi non basandosi in modo rigido solo su una lettura “descrittiva”, ma sondando le dinamiche evolutive in una prospettiva psicoanalitica. Questo articolo straordinariamente attuale di Marcella Balconi, viene riportato in appendice in un altro libro di Stangalino, di recente pubblicazione: “Il bambino e la scuola: nel solco di Marcella Balconi. Sviluppo emotivo e apprendimento in un approccio globale” (2019). È un articolo che permette un’esplorazione ricca, articolata e moderna del tema della diagnosi, offrendo molti spunti di riflessione. Balconi ha una visione dinamica dell’età evolutiva, come dimensione “potenziale”, in cui la “struttura” del bambino, che si va formando, è ancora in fieri, “elemento “mobile” e suscettibile di trasformazioni, che inducono ad assumere un atteggiamento prudente, prima di prodursi in rigide e azzardate valutazioni definitive” (Stangalino, Mittino, 2019, p. 113). Balconi estende la comprensione dello sviluppo infantile a una dimensione più globale, che include il suo ambiente e la famiglia, avvalendosi di concetti teorici innovativi per l’epoca, e oggi comunemente riconosciuti e accettati, quali l’identificazione proiettiva (concetto teorico introdotto dalla Klein, ma discusso in ambito psicoanalitico proprio in quegli anni), la depressione infantile (i quadri prepsicotici di Lebovici) e le strutture borderline (descritte nell’ambito delle nevrosi di carattere e strutture caratteriali). Per Marcella Balconi è innanzitutto indispensabile una chiara impostazione metodologica di una visione sintetica e dinamica, “pluridimensionale” dell’essere umano, per poter formulare una diagnosi, e in base a questa, pensare all’intervento terapeutico. Non si tratta di giustapporre degli elementi, fondamentali per la comprensione del caso, ma di arrivare a una loro integrazione. Il campo della psichiatria infantile rappresenta un’occasione di lavoro privilegiata, per la possibilità di conoscere direttamente una vasta serie di elementi che si ripercuotono sullo sviluppo del bambino, come ad esempio l’ambiente, la personalità dei genitori, le esperienze di vita, la storia del sintomo. Si potrebbe perciò essere tentati di concentrarsi prevalentemente sui fattori storici e mesologici, non tenendo abbastanza conto del modo individuale e soggettivo, in cui il bambino vive ed elabora quei fattori. Analogamente le situazioni conflittuali non possono essere considerate elemento sufficiente per la formulazione della diagnosi: pur essendo esse tipiche di ogni fase evolutiva, passaggi obbligati per tutti gli individui, variano grandemente da soggetto a soggetto. Ciò che conta non è il conflitto, ma l’intensità e il modo personale di viverlo e di superarlo, in relazione anche al non superamento di situazioni conflittuali precedenti. Dunque non si può formulare la diagnosi semplicemente sui sintomi e sui comportamenti del bambino, per quanto tipici essi possano essere, in quanto non sempre esprimono il modo di essere del bambino, ed hanno un diverso significato a seconda dell’età, dell’ambiente, e della tolleranza ambientale. D’altro canto non si possono considerare i comportamenti del bambino come tratti caratteriali già definiti, confrontabili con i tratti caratteriali dell’adulto. Per Marcella Balconi è metodologicamente errato fondare i giudizi diagnostici su analogie fra sintomi dell’adulto e sintomi del bambino, perché questi ultimi possono essere semplicemente manifestazioni transitorie di una evoluzione normale. Bisogna inoltre sottolineare che i comportamenti del bambino vengono valutati soggettivamente dalle diverse personalità di genitori ed educatori, che spesso si preoccupano per comportamenti aggressivi e disturbanti l’ambiente, mentre accettano comportamenti inibiti e repressi. Talvolta comportamenti apparentemente anomali, possono essere espressione di salute psicologica, in quanto difesa a situazioni anomale, o risultare normali rispetto alle condizioni di vita e all’ambiente del bambino: questo è il caso del bambino che reagisce a un comportamento aggressivo dei genitori o degli educatori, o del bambino dissociale in un ambiente dissociale. Dunque in psichiatria infantile è più che mai necessario approfondire la natura del motivo per cui il bambino viene segnalato, differenziando le manifestazioni che esprimono un meccanismo psicopatologico del bambino, da quelle conseguenti a disturbi nevrotici o psicotici dei genitori. Basti solo pensare ai sintomi indotti dalla identificazione negativa del bambino a un genitore malato, alle soluzioni obbligate di conflitti del bambino con modalità e sintomatologia analoga a quella dei genitori, alla non accettazione di comportamenti normali del bambino per identificazione dei genitori al bambino stesso. Quindi è indispensabile andare oltre il tipo e la storia del sintomo e del disturbo del comportamento, esplorando la dinamica fra sintomi e comportamento del bambino, e sintomi, comportamento e personalità dei genitori, con un’attenzione speciale al rapporto genitori bambino. In psichiatria infantile, così come nella medicina e nella psichiatria degli adulti, è il metodo clinico a fare da guida, e l’obiettivo è quello di una sintesi diagnostica, con al centro il soggetto disadattato e disturbato, nella sua unità biopsicologica e nel suo particolare modo di essere e di reagire. Marcella Balconi fonda la sua idea di “diagnosi strutturale” sulla ricerca della struttura psicologica individuale, considerata sia come organizzazione dell’Io, sia come la modalità con cui l’Io affronta e risolve il gioco dinamico tra le esigenze istintuali ed affettive e le esigenze sociali esterne e interiorizzate. Il suo modo di valutare la struttura psicologica è quello classico della teoria e della clinica psicoanalitica, e utilizza in modo esteso il metodo dell’osservazione come strumento elettivo, appreso dall’esperienza con Esther Bick. Per Balconi : “Osservare vuol dire acquisire la capacità di vedere un insieme, un tutto unitario. Un tipo di osservazione che devitalizza, che si riferisce a una parte o a un settore, non serve al nostro lavoro. Tu devi avere la capacità di osservare, di sintetizzare: devi avere sempre la carica umana che ti fa ricercare l’intero e non la parte: l’interesse per una persona viva, non per i pezzi di una persona. Quando incominci a osservare in questo modo ti rendi conto di avere delle emozioni, di vivere il rapporto in un certo modo. Prendi coscienza che l’individuo che osservi è pieno di vita come te”.
Nel loro seminario, Meltzer e Harris, in un’ottica affine a quella balconiana, affermano che l’effetto terapeutico di una consultazione, o di un percorso terapeutico, è dovuto all’atteggiamento analitico, che è quello di provare interesse per il paziente, di saperlo ascoltare, accogliere e comprendere, più che a ricercare la migliore interpretazione possibile da fornire. Inoltre essi mettono in luce come caratteristica di rilievo delle Child Guidance, che il lavoro con i bambini implichi sempre un lavoro con i genitori, con l’idea che i processi
di sviluppo siano qualcosa di molto lento, e che i genitori abbiano bisogno di tempo per maturare un’alleanza terapeutica con l’analista.
Per Meltzer e Harris, durante la consultazione, quale che sia la figura professionale dell’ équipe che la conduce, bisogna che cerchi di capire, con una certa immediatezza, in quale punto dello sviluppo si trovi il bambino, se ci sia stato un arresto, e quale evoluzione potrebbe avere il processo che viene presentato. Essi notano come, procedendo con questa modalità di lavoro, con il passare del tempo, i confini tra le diverse competenze e le diverse figure professionali della Child Guidance tendano ad attutirsi. Si vede come tutte le persone che lavorano in un’équipe siano impegnate in ciò che è chiamato esercizio terapeutico, cioè un aiuto allo sviluppo del bambino e della famiglia che fa parte del gruppo che viene a loro affidato. Nell’addentrarsi nel concetto di lavoro psicoterapeutico di tipo psicoanalitico e nelle sue declinazioni, Meltzer osserva come si sia verificato uno spostamento dalla preoccupazione per la psicopatologia, che era propria dell’epoca di Freud, alla preoccupazione e all’interesse per lo sviluppo, propri della Klein. Successivamente, con Bion, la preoccupazione centrale è stata posta sull’osservazione in seduta: “non preoccupiamoci di capire che cosa è successo in passato, non preoccupiamoci di desiderare quello che vorremmo che avvenisse nel futuro, ma preoccupiamoci di osservare e di capire quello che sta succedendo ora” (p. 21). Tutto questo rappresenta un passaggio dall’approccio medico-scientifico a quello artistico-scientifico, in cui viene messa da parte quella che era la responsabilità del medico di “fare qualcosa”: dal dover fare qualcosa di molto preciso, dal dare una certa interpretazione anziché un’altra, all’osservare e al pensare al paziente con cui si lavora, sia in psicoterapia, anche nelle terapie più brevi, sia in analisi. Dunque se prima al terapeuta era richiesto di essere la persona che sa, ora gli viene richiesto di essere la persona che sa di non sapere, capace di contenere la sofferenza del paziente, svolgendo la funzione di contenitore, con una “sospensione del fare” e lo sviluppo di una capacità negativa (Bion, 1970).
Nel loro Seminario, Meltzer e Harris affrontano il tema della differenza tra azione e comunicazione nell’intervento terapeutico, attraverso la descrizione di due casi clinici seguiti entrambi con una modalità di setting allargato ai genitori e alla famiglia.
Il primo caso è quello di una famiglia con cinque figli. Uno di questi, un ragazzino di undici anni, è stato portato alla clinica per difficoltà scolastiche e problemi di comportamento. Una coppia di terapeuti ha svolto il lavoro sulla famiglia, con un numero limitato di visite domiciliari. Qui l’intervento cardine per la famiglia, è stato quello per cui i due terapeuti, con la loro attenzione e la loro capacità di ascolto e di partecipazione, hanno potuto favorire l’espressione del dolore sepolto e negato, per la morte pregressa di una bambina, la secondogenita di cinque figli. Del tutto naturalmente si è avviato un processo nel corso del quale sono avvenuti investimenti transferali molto intensi, relativi alla gravità del lutto non elaborato: della madre nei confronti del terapeuta donna e del padre nei confronti dell’uomo. Questo ha portato alla facilitazione della funzione genitoriale, intrinseca alla famiglia, definita da Meltzer come contenere il dolore, porre limiti, e suscitare speranza. La madre ha così potuto recuperare il suo ruolo, e la famiglia come gruppo è passata dall’acting alla “comunicazione”. È avvenuto qualcosa di psicoanalitico, nel senso che sono entrati in gioco processi transferali, senza che nessuno ne desse una “interpretazione”.
Il secondo caso è quello di un bambino di 22 mesi, visto in consultazione da Martha Harris in clinica al Tavistock, per un problema di iperattività, irrequietezza e insonnia. La consultazione, condotta alla presenza dei genitori, nell’arco di tre colloqui, mostra come la corretta interpretazione non sia necessariamente il fattore chiave per un intervento terapeutico efficace. Qui abbiamo un bambino che al primo incontro corre su e giù per la stanza, arrampicandosi sulle sedie, facendo una gran confusione, che volta la testa dall’altra parte, senza prestare attenzione alla presenza della terapeuta. Dal momento in cui la Harris chiude la porta dello studio e subito dopo mostra al bambino una cassetta con delle macchinine, ponendo un argine alla solita difesa del bambino attraverso la fuga, la situazione trova un contenimento. Il bambino non si occupa più della porta, prende due macchinine e comincia a farle scorrere sul pavimento, pur senza lasciar trapelare la minima curiosità e attenzione per quello che avviene nella stanza. Poi accade qualcosa di imprevisto: il padre chiede di fumare, Harris glielo concede, e appena tira fuori dalla tasca le sigarette e i fiammiferi, il bambino si precipita verso il padre, con una specie di esclamazione, impadronendosi del pacchetto di sigarette. Allora si sviluppa una sorta di gioco tra il padre che gli chiede di riavere il pacchetto di sigarette e il bambino che se lo tiene ben stretto, con aria di sfida, ma con gli occhi che gli brillano. Questo fa sì che la Harris, che fino a un momento prima aveva pensato di trovarsi di fronte a un bambino molto “strano”, psicotico, si ricreda, pur rimanendo ansiosa e insicura fino alla fine degli incontri di consultazione. Dopo il primo incontro nessuna soluzione sembra comunque possibile, anche perché la mamma manca il successivo appuntamento. La Harris allora manda un biglietto, fissando un altro appuntamento per tre settimane dopo, e questa volta la madre con il bambino vengono. Questa volta la famiglia si presenta trasformata, capace di giocare e di comunicare. Ora il bambino sorride alla terapeuta, in modo amichevole, facendole vedere una macchinina che si è portato da casa, abbastanza simile a quelle con cui aveva giocato la volta precedente. Apre il cesto dei giochi, prende un’altra macchinina, iniziando a giocare con la sua macchinina e con la macchinina presa nella stanza. Ciò che è davvero nuovo è che il bambino fa scorrere la macchinina per terra, indirizzandola nella direzione della terapeuta, con l’intenzione di coinvolgerla, e ogni volta che la terapeuta gliela rimanda, egli appare contento. Durante tutta la seduta con la madre, la Harris continua a fare questo gioco con il bambino. Ad un certo punto la madre riferisce che dopo il primo incontro con la terapeuta, lei e il marito hanno cominciato a parlarsi su ciò che era stato detto in quell’occasione e hanno cominciato a pensarci su. Osservando meglio il bambino, al padre è venuta l’idea che forse gli sarebbe piaciuta una altalena e ne hanno appesa una al soffitto della cucina. Hanno cominciato a mettere il bambino sull’altalena dopo il pasto, e la madre all’inizio lo ha spinto un po’, poi a poco a poco, il bambino ha imparato a spingersi da solo, tutto contento. I genitori hanno scoperto che questa attività migliora lo stato d’animo del bambino, per cui adesso comincia a dormire meglio e a essere meno iperattivo durante la giornata.
Meltzer sottolinea come questo secondo caso possa illustrare il contrasto tra l’agire sul paziente e il consentirgli invece di aumentare la propria capacità d’intervento. I genitori sembrano consapevoli che i cambiamenti del bambino sono in qualche modo collegati con i colloqui. La Harris ritiene fondamentale il tempo dedicato alla madre: un’ora intera in cui c’è stato un tipo di ascolto che ha permesso alla madre di proiettare le sue ansie sulla terapeuta, ed essere così accolta in questa sua difficoltà. Meltzer mette a confronto certi atteggiamenti dei genitori emersi durante la consultazione: la madre, quando il bambino piange, prende dalla borsetta un biberon e glielo mette in bocca, mentre il padre costruisce l’altalena perché il bambino possa dondolarsi. Ci troviamo di fronte a due modi diversi di intervenire sui bisogni del bambino: nel primo c’è l’agire sul bambino, nel secondo l’accrescere le sue capacità di azione. Il corrispettivo di questo in analisi è dato dall’atteggiamento che può avere l’analista quando interpreta con il paziente: può usare l’interpretazione per agire sulla mente del paziente, o può offrire l’interpretazione perché il paziente la utilizzi per il suo lavoro mentale. Questo secondo genere di interpretazione è un qualcosa che “mette insieme” gli elementi che vengono portati in seduta, associazioni e sogni, come se si trattasse, in senso metaforico, di pezzi di una tavola di legno con la quale gli abbiamo costruito un’altalena dicendogli: “Adesso sai usarla tu?”. Meltzer pensa che una “reazione terapeutica negativa” sia spesso il risultato del modo in cui viene data un’interpretazione, sotto forma di giudizio o di agito, piuttosto che il pensare ad alta voce insieme al paziente, nel contesto di una situazione emotiva in evoluzione. Secondo Meltzer, il modo con cui ci relazioniamo al paziente, esprime un po’ la differenza di cui parla Bion: nel nostro approccio al bambino possiamo considerarlo come un qualcuno che viene al mondo solo con tendenze costituzionali innate o come un bambino che ha vissuto nella sua vita intrauterina determinate esperienze che hanno poi influito su di lui dopo la nascita.
Concludendo il modello di cura psicoanalitico ritrovato e riproposto da Stangalino, ruota intorno alla possibilità per tutti gli analisti e terapeuti, di confrontarsi con l’infanzia e con il proprio infantile (Guignard, 1996), nonché con la propria adolescenza (Cahn, 2002), in un’esperienza psicoanalitica piena, che guarda al futuro nel campo istituzionale dell’età evolutiva, duramente provato dalla criticità del momento storico attuale. Egli ci richiama all’importanza di sviluppare una cultura e un’etica della cura, stimolando una vasta serie di riflessioni e di domande. Tra queste ultime, c’è quella relativa a quali possano essere le funzioni analitiche da nutrire e da utilizzare con i bambini e gli adolescenti, gravemente segnati dalla pandemia, che incontriamo quotidianamente nei Servizi e nei nostri studi. Come terapeuti, potremmo avere come riferimento il rapsòdo, figura descritta in modo evocativo da Maria Luisa Algini (2021), in consonanza con Opus Incertum, di Giuseppe Pellizzari (2020): colui che rattoppa, che sa cucire insieme pezzi dei canti epici in modo creativo, trasformando in canto il dolore che narrano. Omero, il rapsòdo per antonomasia, svolgeva una funzione di contenimento essenziale: metteva insieme i pezzi del passato, consentendo agli ascoltatori di riflettere e di elaborarli, senza che si generasse troppa incertezza, ansia e sconvolgimento.
BIBLIOGRAFIA
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Vallino, D. (2002), “La consultazione con il bambino e i suoi genitori”, in Rivista di psicoanalisi XLVIII, 2, 2002, Borla, Roma.
Vedi anche:
CMP – Adolescenti al tempo del Covid: La sofferenza, le risorse, le risposte terapeutiche 12/6/21
Balconi Marcella