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Nicasi S. (2016). Rileggere “Il piacere della Traumdeutung”

Testo della relazione presentata nel seminario “Il lavoro della parola nella psicoanalisi di Stefania Turillazzi Manfredi” (Firenze, 3 Dicembre 2016) che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice

Chi ha trovato il titolo a questa giornata ha avuto un’idea felice per varie ragioni.

Stefania Manfredi era una persona pigra – che aveva fatto della pigrizia un’arte e ne tesseva l’elogio. Quello della parola, il lavoro che si era scelta su misura, era uno dei pochissimi che potesse considerare sopportabile.

Per lei le parole erano importanti. Faceva parte della formazione umanistica, medica e psicoanalitica della sua generazione prestare alle parole un’attenzione estrema che a me si rivelò fin dal primo contatto. “Vorrei un appuntamento” le dissi al telefono. “Lo vorrebbe o lo vuole?” rispose.

Sembrava aver fiducia che le parole, una volta pronunciate o scritte, siano in grado di camminare – e, appunto, di “lavorare” – da sole nel mondo interno e nel mondo esterno e che il parlante come lo scrivente – l’analista nella seduta, nella supervisione, nel seminario, nella stesura di un testo – abbia il compito di ascoltarne gli echi e gli effetti, per quel poco che in fondo è possibile, senza far loro da balia o da guardia del corpo.

Come autrice di saggi psicoanalitici era per esempio consapevole che non si sfugge all’intertestualità (Julia Kristeva): le interessava dire la propria idea, ma non difenderne il primato. Per questo, e anche perché, come ho detto, era pigra, non aveva fretta e lasciava che le idee maturassero a lungo. Scrive nell’Introduzione alle Certezze perdute della psicoanalisi clinica:

“Questo libro rappresenta il tentativo di esporre in modo ordinato alcune mie vecchie idee. Quello che è successo è che, nel momento in cui le ritrovo nella più recente letteratura e le sento finalmente circolare attorno a me, mentre rimangono spogliate di ogni pretesa di originalità, acquistano forza perché io le possa esprimere” (Manfredi,1994, 8).

Un passo che mi commuove: libera dall’ “angoscia dell’influenza” (Harold Bloom), aveva davvero il senso che la psicoanalisi sia un movimento e un’impresa collettiva. I pensieri contano più dei pensatori. Questo atteggiamento, che di per sé è già una lezione, la rendeva particolarmente adatta a insegnare.

Arrivo così all’ ultima ragione (non in assoluto ma  relativamente al mio discorso): un spirito ruvido spirito maremmano la rendeva insofferente verso qualunque forma di ricorso oracolare alla parola, nell’intimità della seduta come nelle occasioni pubbliche.

Nei seminari per gli allievi e negli scritti, destinati in particolare ai più giovani, perseguiva la chiarezza mentre mostrava la complessità. “Cosa si chiede a un professore?” diceva Paolo Rossi: “Di rendere chiare le cose oscure e trasformare in problemi le cose che sembrano ovvie”.

E’ proprio nel preparare un contributo al Panel attorno alle questioni del Training, organizzato da Anna Ferruta in occasione dell’ultimo Congresso SPI (maggio 2016), che mi sono imbattuta, riscoprendolo, in un seminario di Stefania Manfredi dal titolo “Il piacere della Traumdeutung”. Anche nel Panel di Anna si faceva riferimento al piacere: “Il piacere di trasmettere e apprendere la psicoanalisi nelle generazioni di analisti”. Dunque Ferruta mi riportava a Manfredi e Manfredi mi riportava a Freud attraverso il filo del piacere, filo psicoanalitico per eccellenza, continuamente a rischio di essere smarrito nell’imperante celebrazione di insondabili agonie. Il piacere di leggere e di scrivere, il piacere di insegnare, il piacere di apprendere, il piacere dell’analisi e di entrare in relazione con se stessi e con l’altro per quanto sofferente.

E’ ampiamente noto quanto sia controverso il rapporto degli psicoanalisti con i testi fondanti la disciplina. Uno studente di fisica può arrivare alla laurea ed esercitare la professione ignorando totalmente la storia della fisica, storia che non compare nei manuali di fisica. Uno studente di psicoanalisi invece non può prescindere dai testi freudiani, così come uno studente di teologia non può prescindere dal Vangelo. Scrive Cesare Musatti, nella magistrale Introduzione che Stefania cita:

“Strano che la disciplina, la scienza, che sulla base specifica di quest’opera si è sviluppata, sia in un certo modo una scienza personale, legata cioè al suo autore come nessun’altra dottrina scientifica lo è: per cui sembra priva di quel carattere di impersonalità che costituisce normalmente il marchio della obiettività scientifica” (OSF, 3, XVII)

Al di là dei problemi epistemologici, nei quali non mi avventuro, questo pone una sfida alla trasmissione del sapere psicoanalitico: come si può insegnare la psicoanalisi, che è sostanzialmente conquista ed esercizio di libertà, senza catechizzare gli allievi e senza tradire i sacri testi?

Nel cimentarsi con la Traumdeutung, Stefania Manfredi offre un esempio di come destreggiarsi abilmente fra Scilla e Cariddi. Cercherò, nel poco tempo che voglio prendere, di darvi un’idea del suo modo di procedere, un modo che a me sembra uno stile e un metodo.

“Nell’estate del 1997, mentre mi accingevo a preparare i miei seminari milanesi, ho deciso di rileggere la Traumdeutung, più che altro per dovere di ufficio. E’ stata un’immersione completa e lunga, un’appassionante riscoperta che mi ha portato a riflettere su tutta la psicoanalisi e che mi ha indotto a modificare il mio programma. Esso prevedeva seminari sul sogno in Freud dopo la Traumdeutung e sul sogno dopo Freud fino ai collegamenti con la moderna neurofisiologia. Ma in confronto alla Traumdeutung, lo stesso Freud successivo, per non parlare degli altri autori, mi sono sembrai pallidi e noiosi, tutti intenti, lui medesimo, a chiarire e didascalizzare con una certa riverenza oppure a criticare, con una certa timidezza, quelle pagine di così straordinaria ricchezza. Ho deciso così di parlare della Traumdeutung, del libro egizio dei sogni, come lui lo chiamava, perché in esso ho ritrovato tutta la Psicoanalisi, quella nella quale ancora crediamo e quella che oggi ci lascia perplessi” (Manfredi, 1998, 15).

Ottimo inizio: il lettore e l’allievo apprendono subito molte cose.

Intanto, che per insegnare prima bisogna studiare: un corso va preparato. Un’intera estate, che Stefania trascorreva a Castiglione della Pescaia, terrorizzando il bagnino con audaci nuotate al largo.

Forse, la rievocazione mentale di quel luogo a lei caro ha generato la metafora della “immersione lunga e completa” attraverso la quale suggerisce sia che il testo freudiano è vasto, profondo, pescoso e infido come il mare sia che la lettura, per essere fruttuosa, deve essere completa – si legge tutto, da cima a fondo –  lunga – ci vuole tempo – e dimentica di se stessi. Bisogna bagnarsi nel libro così come nel discorso del paziente. Per poi riemergere e considerare dalla riva.

Vengo così allo stile di Stefania Manfredi che riecheggia quello freudiano, non per imitazione ma per inconsapevole effetto dell’immersione, come sale che resta sulla pelle.  Alla maniera di Freud, l’andamento è narrativo: vi racconto come ho scoperto il sogno, vi racconto come ho letto il libro del sogno. Una lingua colta, letteraria, piana, persuasiva, ricca di metafore e sottili artifici retorici. La costante tensione alla chiarezza e l’ onesta ammissione di quello che non torna o che non si è ancora capito. Come l’interpretazione, la scrittura segna un limite: arrivo fin qui, il resto mi rimane oscuro. Vai avanti tu, lettore; vai avanti tu, allievo; vai avanti tu, paziente. “Mi sono convinta – scriveva – che i libri servono per pensare o ripensare cose anche molto diverse da quelle che dicono” (Manfredi, 1994,8).

Nel lungo passo che ho citato sopra, si delinea un programma di ricerca, un metodo appunto. Bisognerà andare a vedere cosa ha pensato l’autore, sullo stesso argomento, nelle opere successive (avere cioè un approccio storico, vedere come si è sviluppata un’idea). Più avanti nel seminario, l’approccio storico si allarga al contesto: cosa  pensavano i contemporanei o i predecessori? Come li ha trattati l’autore? Ha cercato di oscurarli, vittima lui pure dell’angoscia dell’influenza?

Ancora, bisognerà vedere cosa dicono le scienze che si sono occupate dell’argomento da un altro punto di vista. Nel caso del sogno, bisognerà vedere cosa dice “la moderna neurofisiologia”; qualche pagina dopo, Manfredi chiarisce il suo punto di vista al riguardo di una simile operazione: “le scoperte della neurofisiologia, che rappresentano tutto ciò che Freud avrebbe voluto sapere sul sogno, costituiscono le sponde entro le quali gli psicologi devono muoversi” (Manfredi, 1998, 23). Le neuroscienze funzionano cioè come vincoli alla formulazione delle ipotesi psicologiche.

Stabilendo un confronto con i successivi lavori freudiani sul sogno, si dà l’avvio al tentativo di separare il libro dal suo autore, di aprire uno spazio di tensione, una beanza nella quale può muoversi la critica e la creatività del lettore. I sacri testi della psicoanalisi non si possono soltanto chiosare: si possono interrogare e mettere in discussione con obiezioni forti e con affondi talora impertinenti: “A che punto comincerebbe questa elaborazione secondaria?” (Manfredi, 1998, 27).

Il tentativo prosegue, seguendo un’idea di Sergio Molinari, attraverso la rassegna delle diverse Prefazioni che accompagnavano la ristampa della Traumdeutung la quale nel tempo è rimasta sostanzialmente immutata, salvo piccole aggiunte, note, ritocchi:

“un’opera al cui rifacimento integrale non ha mai saputo decidersi; non solo forse per la forza di inerzia del materiale e per il timore di rompere l’equilibrio dell’opera, ma anche perché spaventato dal fantasma di un ampliamento senza fine” (Manfredi,1998, 24).

“Così la T arriva a noi praticamente inalterata dopo aver percorso un secolo e così Freud ci condanna a revisionarla ogni volta che la leggiamo” (Manfredi,1998, 24).

Stefania Manfredi sembra dirci con Freud che la Traumdeutung, opera fondativa, contiene tutta la Psicoanalisi, anzi è la Psicoanalisi e al tempo stesso non lo è. Oscilla, con Freud, fra due posizioni, come acutamente notano Ferruta e Loiacono nell’Introduzione al Quaderno milanese: “L’affermazione che nella Traumdeutung sono contenuti tutti i concetti chiave della psicoanalisi è nello stesso tempo asserita con forza e con diverse citazioni…e insieme ridimensionata dai continui riferimenti agli aspetti che sono stati arricchiti e modificati” ( Ferruta e Loiacono in Manfredi,1998, 8).

Tutto il seminario oscilla e questo oscillare lo rende un saggio critico, una lezione, un’occasione formativa e insieme un testo squisitamente psicoanalitico.

“Come è sentita, come è stata sentita, come può essere sentita anche da voi quest’opera che tutti si vergognano a dire che non hanno letto? Ho pensato che bisogna partire da come l’ha sentita lui, Freud: Hauptwerck, non rivedibile, mai riveduta, sacra” (Manfredi, 1998,17)

L’opera sorge di fronte all’autore, come un figlio divenuto grande, come un altro. E’ il libro egizio: viene da dentro, viene dal passato, è il passato ma è anche il futuro. Edita nel 1899, porta la data 1900: supera l’autore, che si attarda nel vecchio secolo. Sicuramente gli è diventata, in parte, indecifrabile: tagliato il cordone, resta l’ombelico. E’ la psicoanalisi: “quella nella quale ancora crediamo e quella che oggi ci lascia perplessi”.

E’ la psicoanalisi: “scienza personale” che, per nascere, non può prescindere dalla persona dello psicoanalista, né dalla persona del paziente, né dalla personalissima esperienza che ciascuno fa dell’altro nel rapporto analitico. Ma che tende, attraverso la costruzione di modelli e la formulazione di teorie, all’impersonalità della scienza. Deve tendere, e deve farlo fra le sponde costituite dal sapere biologico e neuro scientifico e dalla verifica empirica, senza allontanarsi troppo dall’esperienza ma neppure restandovi incollata, accumulando montagne di “vignette cliniche” il cui rischio, come ricorda Stefania Manfredi, è coagulare tutta l’attenzione, “assolvendo l’ascoltatore o il lettore  – ma anche, aggiungerei io, l’autore – dallo sforzo di pensare a un livello di astrazione un po’ più alto” (Manfredi, 1998, 9).

La psicoanalisi di Stefania Manfredi questo ci insegna: verso il paziente con la parola, verso la scienza con il linguaggio.

Ma la parola dell’analista, della mia e nostra analista, non può essere disgiunta dalla sua voce, unità di dentro e di fuori, di corpo e di mente, corda tesa e calata nel pozzo: a salvarci, se avessimo voluto afferrarla.

 

Bibliografia

Turillazzi Manfredi S. (1994). Le certezze Perdute della psicoanalisi clinica. Milano, Cortina.

Turillazzi Manfredi S. (1998). I seminari milanesi di Stefania Turillazzi Manfredi. Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi.

 

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