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Bolognini S. (2017) L’intimità e i suoi equivalenti interpsichici

Testo della relazione presentata al convegno “Intimità. Variazioni Psicoanalitiche

Stefano Bolognini

16 settembre 2017

Pisa

 

Le radici etimologiche sono antichi contenitori di significato, e la ricerca su di esse è sempre riccamente orientativa.

“Intimo” deriva dal latino “intra” (= dentro).

Intimus” (“il più dentro possibile”) è il superlativo assoluto di “internus” (ciò che è  dentro), mentre “interior” (più dentro di qualcos’altro, ma non il più dentro in assoluto) ne è il comparativo.

L’intimità è la dimensione relazionale in cui i mondi interni degli esseri umani possono fisiologicamente comunicare tra loro e scambiare contenuti, sensazioni e pensieri; i piccoli, alla nascita, hanno un bisogno totale di interscambio (corporeo e psichico) con qualcuno che dia loro ciò che serve allo sviluppo e alla vita.

La fase fusionale fisiologica, prototipo dell’intimità, è un passaggio fondamentale nella relazione madre-bambino, un’esperienza primaria assolutamente necessaria che costruisce una competenza relazionale e organizza stati del Sé durevoli e profondamente vitali.

Passaggio graduale dal “dentro la madre” al “con la madre”, ne ritroviamo e ne ri-creiamo le condizioni equivalenti in molte fasi dei processi terapeutici, ma non sempre l’importanza cruciale di queste fasi viene adeguatamente riconosciuta, nella clinica come nella teoria.

I termini “simbiosi” e “fusionalità”, infatti, sono ancora menzionati il più delle volte nei lavori psicoanalitici in senso prevalentemente patologico, soprattutto riguardo agli esiti confusivi o a quelli fissativi, parassitari e più o meno segretamente manipolativi; e non in senso fisiologico, per gli aspetti sani e necessari, costitutivi e fondativi, che corrispondono ad una necessità nello sviluppo e che generano una dotazione specifica, un patrimonio del soggetto.

In alcuni reportages clinici, ad esempio, l’accento non cade tanto sul fatto che l’esperienza fusionale non sia stata abbastanza vissuta a tempo debito e che conseguentemente manchi una competenza che permetta di riviverla in forma appropriata alle età successive; bensì cade sul fatto (che il più delle volte ne è la ovvia conseguenza) che tale esperienza viene ricercata, senza successo, con insistenza fissativa e con modalità non adeguate alla condizione adulta, come accade frequentemente –senza che ciò venga compreso – in molte, drammatiche forme psichiatriche.

In pratica, questa anomala insistenza comportamentale di ricerca di fusionalità viene a volte presentata, nella clinica, più come “il problema” che non come un segnalatore dei problemi a monte, quasi come se una classica fenomenologia psichiatrica prevalesse sulla comprensione psicoanalitica complessa: si creano così quelle incresciose situazioni in cui l’analista pretende di “far capire” al paziente a livello logico dell’Io Centrale qualcosa che dovrebbe invece aiutarlo a ri-contattare, sperimentare ed elaborare riparativamente almeno un po’ al livello esperienziale del Sé.

Evidenziare in seduta il malfunzionamento dell’Io serve, di solito, solo a spaventare di più il paziente riguardo a se stesso e a fargli provare paura e rabbia nei confronti del terapeuta, con conseguente spasticizzazione dell’Io stesso, ulteriore malfunzionamento, e così via.

Mi occuperò quindi, in questa comunicazione, del medium relazionale in cui si svolge la maggior parte degli scambi analitici efficaci: quella situazione terapeutica, favorita dalla regressione, dal setting specifico e dai ritmi stessi del lavoro, che definiamo “intimità” e che costituisce la premessa per poter operare cambiamenti profondi nel mondo interno e nel modo di vivere dei nostri pazienti.

Questo è il risultato della nostra attenzione alla relazione, non meno che alle pulsioni. A differenza di altri tipi di terapeuti, gli psicoanalisti non dedicano la loro attenzione solo ai comportamenti esterni e agli atteggiamenti, né solo ai fenomeni sociali o a concetti astratti, come i sociologi o i filosofi sono soliti fare: lavorare con la realtà interna dei nostril pazienti implica anche un contatto sostanziale e potenzialmente creativo con la nostra stessa realtà interna e con il campo condiviso che noi co-creiamo con l’altro durante i trattamenti.

Il modo in cui facciamo ciò è, secondo me, il nucleo dell’attuale più stimolante sviluppo della Psicoanalisi.

Il “come” sta diventando gradualmente più importante del “che cosa”, nella nostra disciplina: gli oggetti della nostra esplorazione (fantasie inconsce, ricordi, paure, bisogni, desideri) sono cruciali in analisi; ma il modo complesso attraverso cui possiamo raggiungerli, scoprirli, contattarli, condividerli, maneggiarli, elaborarli, rappresentarli e trasformarli, nell’inter-scambio analitico con i nostri pazienti, è oggi ancor più cruciale di prima.

Corrispondentemente, il modo con cui L’Io contatta e tratta il Sé determina intrapsichicamente l’esperienza iniziale pre-soggettiva, e poi quella soggettiva, dell’individuo.

Il modo, probabilmente anche più che i contenuti selezionati, caratterizza le diverse scuole, gli stili e le tecniche che oggi coabitano e compartecipano nel nostro terreno comune scientifico, professionale e formativo.

 

Aldilà di ogni differenza teorica, l’intimità è una dimensione che prima o poi caratterizza, di fatto, la maggior parte dei trattamenti analitici; la dimensione in cui funzioni di base come la costanza dell’oggetto, il contenimento, l’holding, il rispecchiamento, la nutrizione, la condivisione, la riflessione investigativa, il riconoscimento reciproco, l’apprezzamento della creatività preconscia e del fluire delle libere associazioni, l’interpretazione, e molte, molte altre, possono essere gradualmente sperimentate e utilizzate.

In quasi tutti i trattamenti si realizza un’equivalenza simbolica con fasi precoci delle esperienze primarie.

Gli scambi corporei tra mondi interni implicano movimenti bi-direzionali e passaggi da “dentro” a “fuori” e tra “fuori” e “dentro”: gli inter-scambi possono essere nutritivi, evacuativi, genitali, e ciò comporta il riconoscimento del desiderio, del bisogno, dell’accoppiamento funzionale a vari livelli, la fertilizzazione, la trasformazione ecc.

Questa modalità vitale di scambio intimo è perpetuata lungo tutto il corso della nostra esistenza, andando incontro a parziali trasformazioni nella vita quotidiana, nella ricerca inconscia costante, infiltrante e sotterranea, di equivalenti psichici di ciò che era corporeo nelle fasi evolutive pre-simboliche; o viceversa nel tentativo di sostituire ciò che manca con elementi concreti, nel presente, nello scambio interno con l’altro.

E la psicoanalisi è – in aggiunta a molti altri aspetti – la scienza che studia, tratta e a volte utilizza questi processi, a livello intra- ed interpsichico.

 

Di fatto, le persone cercano l’intimità per tutta la loro vita, in modo più o meno conflittuale: lo vediamo nelle interazioni quotidiane, lo ascoltiamo nelle parole di quasi tutte le canzoni, ci imbattiamo in questo movimento profondo in forma drammatica e condensata nei nostri incontri clinici, durante i quali bisogni e difese si manifestano e si scontrano tra loro incessantemente, fluttuando tra aperture e chiusure, tra avvicinamenti e allontanamenti, tra contatti e distacchi.

Le persone creano e distruggono occasionali micro-simbiosi o fusionalità per tutto il tempo, per lo più senza nemmeno saperlo, mettendo all’opera le loro più o meno sviluppate capacità allo scopo di organizzare il loro potenziale di accoppiamento psichico a vari livelli.

Nonostante tutto, esse hanno bisogno di una qualche intimità condivisa per nutrire, ossigenare e ravvivare il loro mondo interno in modo ri-combinatorio; anche se spesso hanno la tendenza a negare a livello conscio tale bisogno, specialmente quando la loro organizzazione difensiva li orienta verso fantasie onnipotenti di auto-sufficienza e verso disposizioni interne narcisistiche anti-oggettuali (come accade, ad esempio, nei casi di anoressia o di disordini narcisistici della personalità).

 

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Lo sviluppo naturale fornisce vie di passaggio dal “fuori” al “dentro” (e viceversa) caratterizzate da speciali tessuti, le membrane mucose, la cui funzione è quella di procurare un ambiente intermedio nel quale gli interscambi possano realizzarsi fluidamente e nel quale le sostanze possono scorrere da un soggetto all’altro in modo pro-attivo, se lo scambio è desiderato e accettato da entrambi.

Il mio contributo in questo campo è consistito precisamente nel porre in luce gli equivalenti psichici di questi processi inter-corporei e nel contestualizzarli all’interno del processo psicoanalitico, con inevitabili ripercussioni sulla teoria della tecnica.

Voglio sottolineare che qui ci troviamo in un ambito di eventi che si estende aldilà della pur importante area dell’Attachment, poiché essi riguardano specificamente scambi di contenuti interni.

L’intimità sana è la dimensione naturale dello scambio interpsichico profondo, in un’atmosfera condivisa nella quale ogni individuo può imparare ad alternare il processo primario e quello secondario senza paura o vergogna, modulando la propria regressione in armonia con i movimenti interni dell’altro.

L’analista si colloca idealmente nei “luoghi” interpsichici equivalenti alle zone mucosali: là dove le interpretazioni, le evidenziazioni, le confrontazioni, le inter-azioni (verbali) possono risultare utili o dannose, efficaci o impotenti, accettabili o irricevibili, a seconda delle premesse intrapsichiche inconsce individuali e degli sviluppi relazionali che si realizzano nelle diverse situazioni; là dove i passaggi dal “dentro” dell’uno al “dentro” dell’altro possono di fatto aprirsi o chiudersi, rilasciarsi o spasticizzarsi, fluidificarsi nel liquido o arrestarsi per secchezza, al di là delle intenzioni consce e delle convinzioni teoriche dell’analista.

 

Beninteso, non c’è alcuna garanzia che “intimità” significhi necessariamente qualcosa di buono di per sé, poiché la possibilità di un suo uso apertamente distruttivo o sottilmente perverso potrebbe danneggiare o distruggere uno dei due, o anche tutti e due. Disporre della chiave di accesso alla interiorità dell’altro potrebbe condurre ad una varietà di scoperte, processi ed effetti molto diversi, che dipendono dalla qualità delle pulsioni dei due soggetti e dalla qualità reale delle loro relazioni oggettuali interne.

Conseguentemente, c’è anche il rischio che dopo aver raggiunto un certo grado di intimità, un analista possa usare male il suo potere tentando di forzare una interpretazione prematura o inaccettabile nella mente del paziente, per essere più lealista verso un un Ideale o un Super-Io “di scuola” che vicino ad una sintonizzazione reciproca coi bisogni e le possibilità del paziente stesso.

Questo può avvenire in un trattamento qualora il naturale triangolo edipico Analista-Teoria-Paziente sia sbilanciato: per esempio, quando si configuri una coppia Analista-Teoria equivalente ad una coppia genitoriale troppo forte ed escludente, che potrebbe impedire una naturale intimità tra analista e paziente; o con una coppia troppo incestuale e simbiotica “madre-figlio/analista-paziente”, con poco o nessuno spazio disponibile per il “Terzo/teoria”, allorché, più che intimità, potrebbe realizzarsi un eccesso di fusione, con conseguente promiscuità confusionale.

All’estremo opposto, un astratto ideale di distacco scientifico, “obiettivo” (la “froideur”?…), che dovrebbe preservare l’analista da un autentico coinvolgimento interno, potrebbe impedirgli di risuonare come un essere umano normalmente integrato, al contatto (o talvolta all’impatto) con la sfaccettata complessità del mondo interno del paziente.

Ciò detto, sappiamo bene come la relazione analitica non sia affatto una normale relazione umana, per via della regressione transferale del paziente e anche in ragione del nostro mandato terapeutico e della nostra responsabilità.

La nostra capacità di co-sperimentare simmetricamente la soggettività del paziente, di condividere gli stati del suo Sé, di metterci nei panni dell’altro, richiede comunque che vi sia una chiara e stabile posizione interna asimmetrica dell’analista, tale da permettere al paziente di dispiegare i suoi scenari interni in una relazione sicura e creativa.

Così, dobbiamo anche considerare ed esplorare i pericoli di una errata, fuorviante e potenzialmente dannosa intimità.

Ciononostante, si può affermare che senza avere acquisito con pazienza una certa, appropriata intimità inter-psichica, reali cambiamenti saranno perlomeno improbabili, e l’analisi correrebbe il rischio di rimanere un esercizio puramente intellettuale, giocato soltanto ad un livello cognitivo “neurocorticale”.

Comunque, per essere chiaro e al di fuori di ogni possibile fraintendimento, io sono interessato al tema dell’intimità così come lo sono stato riguardo all’empatia e alla reverie; ma sono critico verso l‘“intimismo” così come lo sono stato verso l’“empatismo” e lo sono verso un eventuale reverismo di ordinanza e di maniera.

Ogni tentativo di creare intenzionalmente e attivamente l’intimità è destinato a fallire, esattamente come accade riguardo all’empatia e alla reverie.

Si potrebbe dire che noi non possiamo “decidere di essere intimi”: noi possiamo solo accettare di iniziare una coabitazione psichica presumibilmente lunga e tecnicamente impegnativa con un interlocutore quantomeno problematico; e facciamo conto sulla nostra allenata capacità integrativa (soprattutto a livello del nostro Sé Professionale) e sulla nostra competenza scientifica (soprattutto a livello del nostro Io Professionale) per affrontare tale viaggio.

Ma sappiamo anche che, proprio come in un viaggio, prima o poi la coabitazione implicherà qualche tipo di intimità. Siamo pronti e davvero disponibili per questa avventura relazionale, aldilà dei nostri ideali astratti e talvolta perfino scissi?

 

Un esempio elementare di equivalente psichico di una condizione corporea in analisi

Le regole nutrizionistiche stabiliscono che ogni bambino di una data età dovrebbe cibarsi quotidianamente di un certo quantitativo di proteine, di lipidi e di glucidi.

La tecnica psicoanalitica, così variabile a seconda delle varie scuole, ha fornito indicazioni diverse circa la somministrazione delle interpretazioni; molte cose sono cambiate negli ultimi decenni, ma è difficile dimenticare esempi anche celebri di interpretazioni fornite ai pazienti più per convinzione teorica dell’analista, che per sua sintonizzazione con il bisogno, col desiderio e con lo stato dell’organizzazione difensiva del paziente.

Detta in termini di equivalenze, vi sono stati casi in cui si pretendeva che il bambino interno “mangiasse anche se non aveva fame”, se aveva lo stomaco contratto o addirittura se aveva mal di pancia (cioè se era ancora troppo occupato e disturbato da contenuti indigeriti che non riusciva né a metabolizzare né a evacuare).

E in linea di massima permane talora una tendenza, in certe supervisioni o discussioni cliniche, a sentenziare che “…qui è mancata l’interpretazione”, piuttosto che a valutare se vi fossero o no le condizioni adatte per proporla al paziente.

Ad esempio, risulta evidente, in certi casi di supervisione, come l’analista che non ha sufficiente dimestichezza con i bisogni evacuativi del paziente (spesso così poco soddisfacenti per il senso di sé dell’analista) abbia una certa tendenza a bypassarli; e come si senta “analista” solo potendo formulare e somministrare l’interpretazione (con il convincimento di avere comunque “celebrato il rito” correttamente, proprio come certe madri che seguono solo le tabelle senza percepire la condizione interna complessa del bambino).

Così, forzare un contenuto (ad es., un’interpretazione/”supposta”) dentro l’altro può essere l’equivalente di un atto corporeo a volte inappropriato e in qualche caso anche violento: non produce niente di “interpsichico”, bensì qualcosa di “transpsichico”, che può allontanare gravemente il soggetto dalla fiducia di poter condividere l’intimità.

Lo stesso accade a livello genitale in caso di obbligo forzato del partner senza alcun desiderio, o a maggior ragione in caso di stupro.

Agli analisti si richiede di comprendere l’incessante flusso profondo dell’equivalenza simbolica tra corporeità e psichismo, regolandosi di conseguenza nello scambio intimo quotidiano; possono, di conseguenza, evitare il concretismo dell’equazione simbolica; e possono sviluppare una competenza condivisa nel riconoscere quando “il bambino (interno) ha fame” o no, quando “ha mal di pancia” o no, e così via, provvedendo a ciò di cui il paziente ha bisogno, per come si può e quando si può, fino a consentire il manifestarsi del desiderio in una dimensione finalmente vivibile di minore urgenza e drammaticità.

Scambi intimi patologici

Parlando di compenetrazioni profonde (un’espressione che si presta facilmente tanto a fantasie eccitanti di accoppiamento sessuale quanto ad altre di tipo idealizzante e salvifico) va detto che non siamo necessariamente in presenza di qualcosa di buono, di vitale e di creativo: sappiamo, ad esempio, come il legame sadomasochistico produca legami solidissimi, molto difficili da sciogliere.

Un problema che gli psicoanalisti incontrano con relativa frequenza nel corso dei trattamenti riguarda proprio il riconoscimento della natura sana o patologica del vincolo: se ai poli estremi del range di configurazioni relazionali sono ben riconoscibili le caratteristiche vitali o mortifere del vincolo e del tipo di intimità, si può dire che esiste invece una “grey area” mediana di più difficile lettura e comprensione.

Mi riferisco, ad esempio, a tutte quelle relazioni caratterizzate da un alto grado di attaccamento e di routine abitudinaria che si organizzano in una coabitazione concreta, nelle quali però non si riscontrano scambi significativi di contenuti interni e non si registrano trasformazioni reciproche: relazioni in cui vi è una condizione di contiguità, ma non di reale apertura dei canali interni.

Per dirla in termini corporei, da tradurre ovviamente nei corrispondenti equivalenti psichici, sono contiguità “di pelle”, nelle quali però “le mucose” delle aperture verso l’interno restano chiuse o asciutte: si coabita, ma ognuno resta “chiuso” riguardo all’interno. Ci può essere contatto, ma non interscambio. Vi è consuetudine, ma non intimità in senso etimologico.

Molte unioni matrimoniali, fondate sulla paura della solitudine ma caratterizzate da una analoga paura del contatto interno, si organizzano in questo modo: sono matrimoni “bianchi” psicofisici, nei quali l’equivalenza del corporeo e del relazionale è del tutto manifesta e coerente.

L’equivalente analitico di questi regimi relazionali sono quelle analisi nelle quali il paziente viene regolarmente alle sedute, parla, racconta, apparentemente associa ma… non succede niente! E l’analisi può andare avanti così per anni, se non accade qualcosa tra i due che apra l’accesso ai canali interni: cioè alla vera intimità.

Il vincolo formale c’è, quello sostanziale (nel senso letterale del passaggio di sostanze fisiche o psichiche) no; c’è attaccamento, ma non c’è interscambio. Il “dentro” è un’area esclusa e inattingibile.

Intimità….riguardo a che cosa?

Molte persone sono propense ad associare il termine “intimità” soprattutto ad una qualche eccitante prossimità erotica; ciò che non è necessariamente vero, né riguardo all’area specifica, né riguardo alla profondità degli affetti implicati.

Qualche giorno fa un mio paziente stava parlando del suo senso di disturbante tensione che egli non riusciva a collegare ad alcunché di “ragionevole”.

Si tratta di un uomo piuttosto aggressivo e narcisista, che si opporrebbe fieramente all’entrare in contatto in modo spontaneo con eventuali propri atteggiamenti interni non abbastanza “fallici”. Ciononostante, ci conosciamo ormai da molti anni, abbiamo lavorato molto insieme in analisi, e fondamentalmente egli fa conto su una mia vicinanza rispettosa.

Voglio aggiungere che egli sa dove si trovano i “Kleenex” sullo scaffale di fianco al lettino analitico.

Io so che lui sa anche che io sarei pronto a collegare il suo attuale stato emotivo alla nostra imminente separazione estiva (siamo in luglio); ma io ora non intendo menzionargli questo, poiché sento che in questo momento suonerebbe ovvio e accademico, anche se io credo proprio che questo collegamento abbia molto di vero.

Dopo un po’, queste sue associazioni lo portano – direi, suo malgrado – a pensare alla morte dei suoi genitori, avvenuta alcuni anni prima, in particolare alla morte di suo padre, con molti ricordi concreti di quel giorno e con forte contatto emotivo.

Il paziente piange, e prende un fazzoletto dallo scaffale. Io dico qualcosa, a significargli che capisco.

Il paziente ora si permette apertamente di piangere, e si asciuga gli occhi con i Kleenex.

Sperimentiamo intimità, condividendo un dolore. E’ un passaggio inter-psichico ed intra-psichico profondo, che anni fa sarebbe stato impossibile. La tensione è svanita.

Io sono consapevole del fatto che si potrebbe discutere se l’accento dovesse essere posto sulla imminente separazione analitica estiva come fatto principale (considerando il ricordo della morte del padre come una sorta di spostamento difensivo dal nostro attuale evento relazionale), o sulla separazione analitica estiva come il fattore transferale che crea un collegamento più profondo con qualcosa di ancora più profondo e rilevante per questa persona.

Qui io voglio solo sottolineare come l’intimità sia la condizione co-creata e co-creativa che caratterizza questa scena senza tempo, nella quale il “qui ed ora”, lo “altrove e allora” e lo “ogni volta che- e in ogni luogo in cui-“ coesistono e interagiscono nell’atemporalità dell’analisi.

Un imprevedibile acting-in

Giorgia è ciò che io definisco “una paziente pre-soggettiva e pre-analitica”.

Quando mi consultò per un trattamento, non accettò la mia proposta di iniziare un’analisi: mi disse che sdraiarsi sul lettino e incontrarsi con alta frequenza “fin dall’inizio” (queste le sue parole) sarebbe stato per lei insopportabile.

Così, noi abbiamo lavorato vìs à vìs per un anno.

Lei è “pre-soggettiva”, secondo me, perché è stata – e in parte è ancora parzialmente – occupata e sostituita da identificazioni interne che impediscono sia a me che a lei stessa di essere in contatto con qualcosa di di autenticamente “suo”.

Per un altro verso, lei è, secondo me, anche “pre-analitica”, perché io sento che potrebbe evolvere prima o poi verso una analisi, nonostante il suo rifiuto presente e la sua organizzazione difensiva.

Qua e là lei mi ha parlato a volte di uno specifico problema della sua bambina di tre anni e mezzo, che non è capace di fare la popò in gabinetto in presenza di altri che non siano la madre.

Così Giorgia, che lavora e che non può rimanere a casa tutto il giorno, deve esserci e deve assistere le evacuazioni di sua figlia durante la note, come in un rito, senza alcuna possibilità di delegare alla babysitter quel ruolo così intimo durante il giorno.

Di questo si rammarica sinceramente, più come un problema per la sua bimba che per se stessa.

Recentemente avevo notato che Giorgia stava acquisendo una maggiore familiarità con me, e che cominciava a fidarsi di più di me.

Una settimana fa il suo cellulare iniziò a suonare durante una seduta; lei guardò lo schermo e rapidamente decise di rispondere, cosa che non aveva mai fatto prima.

Dottore, mi scusi, è una chiamata della babysitter”.

Non era la babysitter: era la bimba, direttamente al telefono.

Voleva annunciare alla mamma che era appena stata capace di fare la popò con la sua babysitter!

La sua voce oltrepassò lo spazio tra il cellulare e l’orecchio di sua madre e mi raggiunse; una voce squillante e allegra che annunciava un grande successo, una vera conquista, che Giorgia condivise immediatamente e con gioia con la figlioletta. Una “Celebration” spontanea cui mi sono unito anch’io, condividendo con una evidente espressione del volto la soddisfazione generale che riempiva il campo in quel momento, e che continuò per un poco anche dopo la fine della telefonata.

Nel corso di questo “minimalistico” episodio ho percepito che l’intimità stava progredendo: tra la bambina e la sua babysitter, così come tra Giorgia e me, e di certo, intra-psichicamente, tra l’Io Centrale di Giorgia e il suo Sé.

Tutti questi livelli erano presenti, ed interagivano tra loro.

Io ho voluto menzionare questa situazione molto basica, ma profondamente complessa e significativa, per confermare i molti aspetti e livelli possibili dell’intimità, e la loro importanza nell’evoluzione di un processo terapeutico.

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