a cura di Carla Busato Barbaglio e Lucio Rinaldi – Borla Editore 2013
Recensione di Antonella Sessarego
Questo libro è un lavoro a più voci che integra di punti di vista diversi, ma mai lontani tra loro. E’ pubblicato nella collana Frontiera Adolescenza della casa editrice Borla e in effetti c’è una frontiera che distingue, ma che tiene in contatto le discipline limitrofe che fanno parte del progetto di collaborazione alla base del libro. Si comincia con Carla Busato Barbaglio, curatrice del libro, che dialoga con il sociologo Prof Ferrarotti. Questa interessante introduzione letta alla luce della frontiera e delle integrazioni appare come una scelta quanto mai azzeccata, perché le aree di vita e di relazione coinvolte nel determinare il Disturbo Alimentare sono molte.
Il rapporto con il corpo così come il rapporto con il cibo, non è solo personale, è culturale, è economico, basti pensare a quanta attenzione c’è verso questo tema ed oggi in particolare siamo circondati da cuochi che ci dicono non solo cosa mangiare, ma anche come e quando mangiare.
Nell’introduzione Ferrarotti ci dice che una volta cadute le ideologie e liquefatti gli ideali, ciò che resta come guida alle giovani generazioni, agli adolescenti, è la moda, la convenzione. Questo è ciò che offre il mercato dal momento che è stato investito di una funzione di guida, emerge così in primo luogo la visibilità, in forma di una notorietà aperta a tutti. Emerge il corpo, ciò che si vede: “Io sono e valgo ciò che appaio e lo strumento del mio apparire è il mio corpo”. Questa totale esteriorizzazione, dice Ferrarotti, si lega ad uno svuotamento della memoria interna individuale e profonda che si costruisce su ciò che siamo stati o meglio sul ricordo di ciò che ricordiamo di essere stati. Il gran numero di informazioni e stimoli che riceviamo non diventano sostanza del nostro essere profondo, non sono più qualcosa di interno ed individuale, ma sono così tanti che deformano invece di costruire e determinano un chiasso interiore che confonde. Nell’adolescenza, che rappresenta un momento fondamentale di concepimento-costruzione dell’identità, questo effetto è ancora maggiore.
Il libro mantiene la promessa che fa in questo dialogo introduttivo, conserva cioè il carattere di scambio e d’intreccio tra le esperienze vissute nei vari spazi/luoghi di terapia. I contributi sono molteplici, alcuni dentro le stanze di analisi, altri che portano esperienze multidisciplinari nei sevizi di cura.
Il contributo di Lucio Rinaldi psichiatra, l’altro curatore del libro) ci porta l’esperienza clinica maturata durante la sua lunga attività di consulenza con adolescenti e genitori al Policlinico Gemelli di Roma. Nello scritto di Michele Ceresola (psicologo e psicoterapeuta) troviamo un trattamento in un contesto istituzionale, dove ben si evidenzia la specificità del progetto terapeutico all’interno di una struttura residenziale, un lavoro in equipe, su un caso clinico molto grave.
Nella seconda parte alcuni contributi multidisciplinari.
Carmelo La Rosa (psichiatra e psicoterapeuta) scrive un capitolo sul contributo delle neuroscienze alla comprensione dell’anoressia nervosa. Un’ottima revisione degli studi attuali sul ruolo dei neurotrasmettitori e sui neurocircuiti dell’anoressia. Molteplici fattori sono coinvolti in questo grave disturbo mentale che non dimentichiamo ha il tasso di mortalità più alto tra le patologie psichiatriche. L’autore sottolinea tra l’altro come la neuroplasticità, considerata alla base della maturazione del cervello del bambino e dell’adolescente, che si conserva per tutta la vita, abbia nell’adolescenza una sorta di momento di discontinuità e stando agli studi neuroscientifici, questo determinerebbe la possibilità di una qualità diversa dell’esperienza, proprio nel momento decisivo per il processo di acquisizione identitaria.
Gli aspetti endocrinologici dell’Anoressia Nervosa sono ampiamente trattati da un gruppo di endocrinologi con specifiche competenze della Università Cattolica di Roma.
Chiude questa seconda parte il contributo di Giacinto Miggiano (direttore del Centro Nutrizione Umana della Cattolica di Roma) sull’intervento nutrizionale nei Disturbi del Comportamento Alimentare ( organo della nutrizione, nutrienti, raccomandazioni dietetiche) ricordandoci come l’esposizione del cibo è qualcosa di molto diverso dal nutrirsi.
Quando si entra nelle stanze di analisi, con le descrizioni di casi clinici sempre molto interessanti ed in presa diretta, si entra in un terreno più familiare almeno per me e per molti di noi. Si avverte però nella lettura che non siamo chiusi in quelle stanze, le esperienze che vengono portate, anche quando sono la descrizione di un singolo caso, aprono a riflessioni ed approcci che fanno posto alle integrazioni, alle idee degli altri. Quello che nel libro è espresso per capitoli e per argomenti divisi tra loro, lo si può trovare integrato in ogni singolo lavoro, espresso da un proprio linguaggio. Tutto questo è il frutto di collaborazioni e condivisioni di competenze, che hanno coinvolto nel progetto-libro tutti gli autori.
I contributi clinici sono tutti veramente interessanti.
Ricky Emanuel (psicoterapeuta della Tavistock Clinic di Londra), ci fa entrare con Imogen, gravissimo caso clinico di una quattordicenne, in un mondo popolato di lutti, dove la relazione tra colpa e suicidialità si intreccia con l’organizzazione narcisistica.
Elisabetta Greco (psichiatra e psicoanalista) con numerosi casi clinici mette in evidenza come il corpo sia lo scenario dove i sintomi alimentari sembrano rappresentare sforzi disperati per regolare gli affetti. Il corpo può essere così fonte di comportamenti consolatori o anche fornire strategie di sopravvivenza psichica. Con il caso di Simone poi si entra nel mondo maschile, talvolta trascurato, del disturbo alimentare.
Maria Luisa Mondello (psicologa, psicoterapeuta modello Tavistock) ci introduce, attraverso le “voglie” (cioè quelle piccole macchie nella forma di fragola o di caffè, presenti alla nascita sulla pelle del neonato, segno inequivocabile del desiderio materno di quel particolare cibo che nella tradizione popolare era compito del futuro padre soddisfare a dimostrazione della sua capacità di “sfamare” mamma e nascituro) alla tanta cultura e competenza che l’umanità ha mostrato intorno all’alimentazione come segno più evidente della centralità del nutrimento che è funzionale alla vita. Il cibo in tutti i suoi aspetti di produzione ed uso che ne fanno una condizione portante della vita. E’ come se il cibo, il mangiare, come altre competenze infantili e umane, non arrivassero mai ad un loro specifico, ma rimandassero sempre e comunque ad aspetti sessualizzati e poi generativi della vita, come se questi aspetti dell’individuo fossero rimasti intrappolati nella trama del sessuale, nella trama della simbolizzazione. Maria Luisa Mondello pone l’accento su come oggi l’estesa produzione e conoscenza neuroscientifica proponga invece per il mentale un funzionamento sempre più ancorato a una fisicità. Quindi anche in area psicoanalitica la dicotomia mente corpo sembra spostarsi verso una sempre più raggiungibile fluida e indistinguibile unità dell’essere. “Corpo che è mente” grazie al contributo dell’infant reserch e delle neuroscienze oltre che del pensiero bionianio. Qualcosa che all’interno nella stanza di analisi sposta l’attenzione verso i processi empatici la psichicità, non più alla ricerca delle componenti complessuali, simboliche ma piuttosto verso una valorizzazione e amplificazione della capacità compartecipativa, la costruzione di una reale e condivisa condizione di incontro.
Maria Antonietta Muroni (neuropsichiatra infantile) scrive sulla selettività alimentare nei bambini. Certamente i disturbi alimentari nei primi anni di vita creano un allarme generale nei genitori, sia quando sono nel senso di una restrizione quantitativa, più o meno intensa, fino ad un rifiuto del cibo, sia quando si presentano in forma di selettività del cibo. Sono situazioni molto variabili a volte solo episodiche a volte più tenaci, con rifiuti che durano nel tempo. Con la crescita però questa selettività arriva anche in altri campi ed ad altri livelli dello sviluppo coinvolgendo anche le relazioni. I quadri clinici possono essere molto vari, da una riduzione della creatività nel gioco, fino a una chiusura o limitatezza nelle relazioni sociali. Maria Antonietta Muroni attraverso alcuni casi clinici ci mostra come tutto questo rimanda a ciò che si vive anche in termini di angosce nel percorso terapeutico con le anoressiche, dove al disturbo alimentare si associano gravi manifestazioni ossessive che le imprigiona in un pensiero rigido, ripetitivo e pur non avendo deficit cognitivi, c’è un difetto nei processi di mentalizzazione. Queste pazienti così poco empatiche nelle relazioni, vanno incontro a reazioni angosciose quando non riescono a mantenere il controllo, sembrano così poter fare solo un limitato uso dell’esperienza adolescenziale. Come i bambini selettivi si alimentano di piccoli e selezionati pezzi di vita. Allora la domanda è: cosa lega questi quadri? E dove si può mettere il punto zero cioè quello in cui l’organismo ha sentito così minacciato il suo sistema di equilibrio da dover iniziare ad attivare delle difese somatiche prima ancora della costituzione di una consapevolezza di sé? E se possibile possiamo individuare quali sono i fattori di rischio precoci? Ovviamente non c’è risposta certa, ma senz’altro il punto zero di questa selettività potrebbe stare in un punto molto arcaico, avere le radici in un sé somatico di cui non saremo mai del tutto consapevoli.
Ho lasciato per ultimo dirvi qualcosa sui contributi di Paola Linguiti e Carla Busato Barbaglio che abbiamo qui stamani e che quindi potremo sentire in “ presa diretta”.
Vi dico soltanto che il contributo di Paola ci porta, con la descrizione di un caso clinico molto complesso, attraverso il corpo della sua giovane paziente, che portava e concentrava su di sé la storia di molti altri corpi, in una confusione traumatica che a un certo punto contagia anche l’analista. Un lavoro complesso che l’analista farà anche su se stessa, per essere in grado di aiutare la paziente ad avere la possibilità di trovare il proprio corpo.
Il contributo di Carla inizia con la considerazione che se le pareti del suo studio potessero parlare racconterebbero di cibi, ricette prelibate, piatti incredibili, ma se invece potessero vedere vedrebbero corpi esili, magrezze imbarazzanti. Carla pone subito in primo piano il dislivello, la difficoltà a pensare un collegamento in presenza di una frattura che è anche nella comunicazione, oltre che nel mente-corpo e nel se-altro. S’interroga su quanto per il terapeuta possa essere difficile credere a ciò che il paziente racconta, ma quanto anche sia difficile per il paziente sentirsi non creduto. Carla ci dice come si ritrovi in una concezione della psicoanalisi che intende la mente nella sua qualità di formare e preservare i legami con gli altri, ed il lavoro psicoanalitico inteso nella sua potenzialità di costruire nuove modalità relazionali, ci mostra poi tutto questo attraverso la sua ricca esperienza clinica.
Concludo questo mio intervento con una frase tratta da un testo un po’ fuori dagli schemi, ma che intreccia efficacemente corpo cibo e affetto:
“Se anche i baci si potessero mangiare ci sarebbe un po’ più di amore e meno fame…” Modà: ”Se si potesse non morire” Sanremo 2013
Aprile 2015