Between fulfilment and its prophecy
we live, between worlds unborn and dead
growth is the principle of our beauty
striving to speak the inward sense of things
(Roland Harris)
Quando tre anni fa ho accettato di partecipare, in collaborazione con l’Unità Operativa di Ostetricia e Ginecologia di Prato, ad un progetto di sostegno ai genitori che avevano subito una MIF o deciso un’ ITG , credo di esservi stata indotta da quel qualcosa di misterioso, di violentemente dissonante e assurdo che trasmette una morte perinatale.
Nella relazione cercherò di descrivere questi aspetti , ma anche gli elementi di continuità con altre esperienze della genitorialità.
Vorrei inoltre riflettere sui possibili obbiettivi di un intervento breve, attraverso una mia esperienza clinica con una giovane coppia.
“La morte perinatale – scrivono Ravaldi e Vannacci – si sostituisce alla vita nel luogo ‘più sicuro e protetto’ per antonomasia … non solo si perde colui che muore e si spezza un legame profondo, ma si frantumano tutti i sogni e le aspettative di vita insieme … l’oggetto di tutto l’amore genitoriale, il fulcro su cui è costruito il futuro, se ne va per sempre.[…] Un percorso di vita si è interrotto bruscamente e inaspettatamente, la famiglia deve salutare un figlio senza averlo mai visto negli occhi o senza mai averlo sentito piangere”(in Righetti)
E’ “l’esperienza di sentirsi catapultati in una zona disastrata mentre poco prima si avevano grandi aspettative di gioia […] c’è la perdita di un bambino interno, ma anche una perdita simbolica: la perdita del senso di un Sé buono e forte, la perdita di speranza, fiducia e fede in un mondo benigno”(Cudmore in Pozzi,Tydeman)).
La genesi della personalità materna e paterna viene amputata dalla morte perinatale, mentre si è persa, come in tutte le gravidanze, l’identità precedente.
Come scrive Ansermet, se “un desiderio di immortalità che la realtà demolisce trova rifugio nel bambino”, allora “la perdita di un bambino prima della nascita, oggetto ancora non-oggetto, investito in potenzialità, è anche una perdita narcisistica per coloro che lo attendono”.
“Si tratta di una non-realizzazione di una parte di sé, persa prima di conoscerla, una situazione strana in cui qualcosa di non ancora ben identificato viene perso brutalmente, rimandando ad una disperazione fondamentale”, all'”esperienza dello smarrimento assoluto, a livello del quale l’angoscia è già una protezione” (Ansermet).
I genitori dovranno cercare di rispondere , a livello inconscio, anche alla domanda se, nell’ambivalenza presente in ogni gravidanza, hanno prevalso forze distruttive.
Normalmente nelle esperienze della vita, le fantasie peggiori, dominate dall’odio o dall’invidia, non ricevono conferma nella realtà esterna. La confusione nasce però se, ciò che si teme di più o si desidera, accade davvero.
Diventa molto più difficile mantenere la distinzione essenziale tra la propria realtà interna, o ciò che accade nel mondo interno della fantasia o dei sogni, e ciò che accade realmente nella realtà esterna .
“Ho sentito di aver creato morte” ha detto una mamma, “è una morte senza vita” scrive Raphael-Leff.
La coincidenza della morte con la nascita si scontra con un legame , impossibile da concepire, fra la fine e l’inizio della vita. La morte al momento della nascita unisce due situazioni non rappresentabili. Freud ha scritto:”…nessuno in fondo crede nella propria morte, oppure, che è la stessa cosa: nell’inconscio, ciascuno di noi è persuaso della propria immortalità”.
Ma neppure l’origine è rappresentabile e come esempi di questa doppia non-rappresentabilità, Ansermet cita un bambino al quale i genitori avevano dato tutte le spiegazioni possibili sulla morte del nonno, ma che continuava a chiedere:”Si, ma dopo che sarò morto e sepolto, quando il mio corpo sarà in terra e la mia anima in cielo, io dove sarò?” e un altro a cui era stato invece spiegato come nascono i bambini e che diceva:”Si, ma prima di essere nella tua pancia, dov’ero?”.
Anna Ferruta, in un saggio sulla depressione post-partum, ha parlato di nascita e morte come eventi discreti nel tempo, cesure, esperienze sconvolgenti della sincronia temporale. Alla nascita vengono richiamati alla mente vissuti magici di un far nascere qualcosa dal nulla, la morte segna qualcosa che c’era e ora non c’è più. Entrambi sono eventi-crisi che richiedono poi una riorganizzazione della psiche all’interno della dimensione diacronica.
L’elaborazione del lutto implica che l’oggetto venga lasciato andare, vi si rinunci e che, a conclusione del processo, la persona perduta venga collocata nel mondo interno come presenza interna vivente. Ma, come si può tenere vivo nella propria mente un bambino mai nato?
Tante cose sono cambiate negli ultimi decenni con i progressi della medicina, molti confini si sono spostati, le scoperte sulle capacità mentali,sensoriali e motorie del feto creano un senso di maggiore continuità fra vita intra ed extrauterina, ma soprattutto l’ecografia con l’immagine che svela, dà un’esistenza concreta al feto come futuro bambino.
D’altronde Bydlowsky sostiene che la tecnica ecografica non produce emozioni e che continua ad esserci una soluzione di continuità fra feto (non visibile, non nominabile, non udibile e non toccabile) e il figlio appena nato: toccato (senso per eccellenza, il solo che non possa essere tolto) e visto (scambio di sguardi).
Fino ad un secolo fa nascita e morte non erano così lontane l’una dall’altra, basti pensare all’alta mortalità puerperale e perinatale, ma anche alla diffusione dell’infanticidio come mezzo di controllo delle nascite ancora in tutto il diciottesimo secolo.
Inoltre la nascita porta sempre con sé il lutto, non solo quello dell’ identità precedente dei genitori ma anche quello di un bambino non nato, “analizzando i costumi relativi alla nascita nelle società primitive, si scopre che alla placenta è associato un rito di lutto: essa rappresenta il doppio morto del bambino vivente e viene sotterrata o immersa nell’acqua. Questa tradizione significa che ogni bambino vivente rappresenta un bambino morto per il desiderio della madre; il desiderio materno inconscio non è completamente soddisfatto da nessun bambino vivo” (Lebovici).
Come scrive Bydlowsky ” prima di ogni realizzazione, il figlio è immaginario… E’ il figlio successivo del quale sogna quasi ogni partoriente di fronte al suo neonato vivo. E’ il figlio che dovrebbe compiere tutto, colmare tutto: lutti, solitudine, destino, sentimento di perdita. Il desiderio del figlio può essere il luogo di passaggio di un desiderio assoluto perchè il bambino immaginato, il bambino futuro è,per la donna, l’oggetto per eccellenza. Quello che è desiderato è meno un figlio concreto che la realizzazione del più vivace fra i desideri infantili.”
Un’altro elemento che mi pare riduca il senso di estraneità dell’evento in cui morte e nascita fanno un assurdo corto circuito, è espresso nelle prose di Alda Merini in “Mistica d’amore”, è Gesù che parla:
” Ero un bambino fresco e dolente come tutti i bambini che cercano la madre, ma chi era Maria se non il piedistallo della mia croce?”
e di nuovo in questi versi: ” Maria è il respiro dell’anima
è l’ultimo soffio dell’uomo”
che ci ricordano come generare per la morte sia il destino comune di ogni donna o uomo.
Ma subito altri versi ci riportano invece al senso di mistero che sprigiona dalla vicinanza eccessiva di nascita e morte
” Combaciando vita e morte
insieme
esce un nuovo sillabo,
un respiro breve,
esce la parola “Dio””
Meg Harris Williams scrive “Meltzer … ritiene che la bellezza di un neonato stia non nel suo aspetto fisico, ma piuttosto nella sua baby-ishness …che ci porta a scrutare nel suo futuro … L’essenza della bellezza del mondo è la nascita di un bambino, bellezza come principio di crescita e desiderio di esplorazione insieme” ma è sempre presente “il pericolo inerente ad ogni situazione reale di finire in un disastro” . Come dice Rilke “il bello è solo l’inizio del tremendo/ che noi sopportiamo ancora/ ammirati perchè sicuro, disdegna di sgretolarci” o Wordsworth “la bellezza ha dentro il terrore”, “l’oggetto suscita aspirazione e timore dell’abbandono- è l’ansia archetipica che sta alla base di tutte le angosce”.
Harris Williams parla dell’episodio biblico di Abramo e Isacco che “nell’interpretazione di Kierkegaard, diventa un modello del tipo di fede che K. si sentiva incapace di raggiungere, fede che quando una fonte di nutrimento – una ragione di vivere – viene tolta, un’altra , ancora sconosciuta – può prendere il suo posto”.
“L’idea della morte, e l’impatto della bellezza, sono sempre strettamente connessi e l’esperienza catastrofica è pur sempre un’esperienza emotiva, di autoconoscenza, perchè le forze antievolutive non sono odio o invidia, ma bensì la negazione dell’emotività […] Non si deve pensare che la crudeltà sia incompatibile con la promozione della crescita. E’ anzi forse un aspetto essenziale del vertice religioso, con la sua richiesta di fede nell’oggetto interno perchè porti il sé infantile nella fase successiva dell’esistenza .”
Però Abramo non uccide Isacco, il tremendo di Rilke non ci sgretola ancora, possiamo pensare il terrore dentro la bellezza, ma quando la morte non sta nella vita, ma ne prende il posto, quando è “una morte senza vita”, allora rimaniamo senza parole.
In “Film blu” Kieslowski rappresenta un percorso doloroso di recupero della capacità di vivere e creare in una donna, Julie, che ha perso in un incidente stradale il marito e l’unica figlia di appena sei anni. Il film fornisce una chiave di lettura di un possibile intervento di sostegno terapeutico. Accanto ad elementi simbolici quali l’acqua e la luce dei fili di cristallo appartenuti alla figlia, ha un ruolo fondamentale una figura femminile che ha tenuto segretamente una copia dello spartito musicale incompiuto che il marito e Julie stavano scrivendo prima dell’incidente, spartito che nel momento della disperazione Julie aveva voluto distruggere. Avanzando nel percorso di elaborazione del lutto, è in grado di permettere che l’opera ritrovata rientri in un processo creativo e venga alla luce, che la vita riprenda.
Questo elemento di qualcosa che viene tenuto e conservato fino al momento in cui i fili si possono riannodare, mi porta per associazione ad una storia in cui mi sono imbattuta mentre scrivevo queste righe. Un’amica antropologa mi ha dato le trascrizioni di un’intervista con una donna, Iole, che raccontava della morte in utero della sua prima figlia , avvenuta nel 1931.
E’ interessante ascoltare questo racconto di epoca non medico-scientifica.
La causa della morte in utero viene attribuita al Carnevale, a quell’epoca le maschere andavano per le strade e si presentavano alle porte precedute da un suono di campanacci, ma quella sera Iole e i suoi sentirono bussare alla porta senza che nulla avesse preannunciato le maschere, fu lei ad alzarsi e andare ad aprire e si trovò davanti due uomini con la cappa bianca della Morte, Iole cominciò ad urlare, a urlare, e il sangue le “si rimescolò”. Venti giorni dopo la bambina nacque morta, Iole ricorda che la levatrice le disse di accendere una candela alla Madonna perchè lei si era salvata, ma quando , ancora confusa, le chiese della bambina , la risposta fu “La bambina è nata morta, era senza unghie”.
Iole racconta come allora non venisse dato un nome a questi bambini e non venissero seppelliti in terra benedetta ma in una cappella fuori dal cimitero. Poi le fu imposto dalla suocera, che nelle famiglie contadine aveva un ruolo di capo famiglia, di accettare l’offerta di un signore che la voleva come balia di latte per la sua bambina che doveva ancora nascere, la suocera la convinse dicendole “se tu mandi via il latte ora, quando poi fai un altro bambino chissà se ti ritorna!”. Così allattò a pagamento per tredici mesi.
Quando arrivò il momento dello svezzamento il padre della bambina le chiese “cosa vuoi adesso in regalo il mese doppio o un vestito?” Iole scelse di farsi dare la stoffa per un vestito, almeno era qualcosa per sè, mentre se avesse preso i soldi avrebbe dovuto darli, come sempre, alla suocera . Ecco le parole di Iole:
“Questa stoffa la misi da parte nel mio baule pensando ‘qualche volta me la cucirò’ . Lo sa come andò? Nacque mio figlio Luigi, quello che c’è in casa, e quando passò a Comunione gli feci il vestito a lui, a 9 anni gli feci il vestitino, pantaloncini corti e giubbina”.
Mi sembra una storia commovente e poetica nel suo tentativo di dare un senso a ciò che è accaduto, nella capacità di creare dei simboli e nella sua conclusione, quando il vestito, simbolo del latte che avrebbe voluto e dovuto dare alla sua bambina morta, viene restituito al suo bambino vivo, in un atto di riparazione della continuità interrotta.
Mi vengono in mente le belle parole di Comazzi che ipotizzava che una terapia analitica del lutto dipendesse soprattutto “dal poter riacquisire la capacità di apprezzare il bello, come esperienza estetica, che viene molto indebolita dall’intensità del dolore della perdita … l’analista è un poeta contro il trauma, solo se riesce ad aiutare a mettere in scena, nello scenario psichico del suo paziente,una rappresentazione non più traumatica, ma lirica e poetica, ricca di nuove emozioni che lo riportano in vita … il trauma è sempre un evento che è alla ricerca di una sua rappresentazione e di un racconto”(in Neri e Latmiral).
Offrire 5 sedute, come facco io, con la possibilità di ripetere il ciclo una volta, presenta una incongruenza clamorosa rispetto alla profondità del bisogno,e può prendere la forma, nel transfert, di un tema di infertilità , di mancanza di generosità o di ripetizione del trauma di un progetto incompiuto, di una nuova morte prematura. La mia speranza è che in un momento così tragico anche un piccolo gesto, come tenere una copia di una musica incompiuta, una stoffa in un baule o il gesto della donna che si rivolge a Maria nel dipinto del Bronzino, possa comunque essere significativo.
Il caso clinico di M. e A. una giovane madre in lutto, che è stata probabilmente una figlia
sostitutiva, mi porta a introdurre il tema della inevitabile ricaduta emotiva di un lutto perinatale sulle relazioni all’interno della famiglia, tra genitori e figli viventi e tra genitori e figli futuri. Esiste un’ampia letteratura sui replacement child o figli sostitutivi, ma qui mi riferirò soltanto alle parole di Bonicatti su van Gogh: “A parte l’analisi dei fattori di ereditarietà familiare, il punto di convergenza ormai acquisito nelle ipotesi contemporanee sulla patogenesi del caso van Gogh è nella primogenitura del fratello omonimo venuto alla luce senza vita nello stesso giorno 30 marzo del Vincent secondogenito, esattamente un anno prima.” Si è trattato di un’esplicita volontà di ripristino di un’esistenza mancata, le cui conseguenze sono che “La figura archetipica del proprio sè, costellata nell’alter Ego venuto alla luce senza vita, continuava ad imporre al secondo Vincent un confronto impari con il fratello omonimo a causa dell’idealizzazione trascendente instaurata dal thanatos, mentre il lavorio del thanatos insinuava una promettente certezza che il superamento del dualismo configurato nel doppio Vincent si sarebbe ottenuto con l’esaudire l’istinto di morte : come unico mezzo per idealizzare il proprio Sé in quella rappresentazione elettiva intrinseca al non esistere”
Anna e Michele
La mamma di A. aveva tre figli, una quarta, Regina, le era morta alla nascita. La signora aveva poi avuto una relazione extraconiugale da cui era nata A..
La gravidanza aveva portato alla separazione dal marito e all’interruzione della relazione col padre naturale della bambina che non aveva voluto riconoscerla. La signora crescerà da sola le due ultime figlie, mentre i due maggiori sono già fuori casa. La mia ipotesi è che A. sia stata una figlia sostitutiva.
Incontro A. insieme al marito M. subito dopo la morte, all’ottavo mese di gravidanza, del loro primo bambino, Teodoro. A. ha avuto un distacco di placenta e un’ emorragia che ha fatto temere anche per la sua vita.
Da appena 15 giorni la madre di M. è andata in coma irreversibile durante un intervento chirurgico, entrambi le erano attaccatissimi.
A. e M. rimarranno in ospedale per due settimane in una grande stanza tutta per loro che amplifica il senso di vuoto, vuoto che cercano di riempire con un flusso di parole senza pause e con il tentativo di negare le scansioni temporali: i colloqui sembrano non dover mai finire e il tempo fra una seduta e l’altra sembra annullarsi in una ricerca meticolosa di riprendere ogni volta la stessa identica posizione spaziale della seduta precedente. Le separazioni sono diventate intollerabili ed è necessario non lasciare spazi dove possano insinuarsi angosciosi sensi di colpa.
C’è invece tanta rabbia soprattutto verso la madre di A. descritta come egoista ed invidiosa. A. racconta la sua storia e dice di essersi sempre sentita in colpa di esistere e di aver pensato di dover essere perfetta, non chiedere niente, non disturbare nessuno per non essere di peso. Questo aspetto del suo carattere avrebbe avuto un ruolo, almeno nella fantasia di A., nel distacco di placenta che ha portato alla morte di Teodoro, pensa infatti di essersi affaticata eccessivamente al lavoro e in casa negli ultimi tempi: pur sentendo l’esigenza di riposare e fermarsi, non ha osato farlo, nè esprimere i suoi bisogni.
Leon scrive: “Benchè le dinamiche della sostituzione siano di solito messe in relazione col dolore dei genitori, non deve essere sottovalutata l’attiva partecipazione del bambino nel diventare un figlio sostitutivo. Nel senso di un desiderio riparativo, per alleviare la pena dei genitori e nel senso di un tentativo di assicurarsi l’amore dei genitori modellandosi sull’immagine idealizzata del bambino morto.”
A. mi racconta che poco dopo l’annuncio della gravidanza alla mamma, questa si sarebbe comprata una macchina nuova, dando ad A. i peluches della macchina vecchia da lavare per il nipotino in arrivo e chiedendole in regalo un nuovo pupazzo per l’auto appena acquistata. Questo episodio sembra mettere in luce proprio un tema di replacement e un sentirsi di A. come degna solo di cose di seconda mano, in un gioco di proiezioni distruttive fra madre e figlia.
La scissione in una madre-strega viva e temibile (la madre di A.) e in una madre buona morta (la madre di M.) ha i contorni esasperati delle vicende fiabesche, di un incubo in cui sfumano i confini tra realtà e fantasia. La madre buona e protettiva è irrimediabilmente danneggiata, quella persecutoria è diventata molto forte.
Ancora nel primo colloquio, tre giorni dopo la perdita del bambino, A. parla del desiderio di prendere con sé un bambino abbandonato, sembra sentirsi incapace, inconsciamente, di avere una seconda gravidanza, a conferma che lei può avere solo cose di seconda mano. Questa fantasia credo avesse molte determinanti.
Forse A. non vuole che anche un suo figlio diventi un bambino sostitutivo, forse immaginare di occuparsi di un bambino abbandonato è un modo per sentirsi meglio, mettendo nel bambino adottivo la parte di sé abbandonata dai genitori, che avrebbero dovuto proteggerla ed impedire che tutto questo accadesse.
Può essere anche un modo di placare il Super-Io “non avrò bambini miei, sono incapace di averli, prenderò un bambino già nato” o un tentativo di riparare la buona madre interna “non lascerò bambini abbandonati”.
Nel colloquio successivo mentre A. parla di “un dolore lancinante” provo una grande emozione,quasi insopportabile, ma un attimo dopo mi rendo conto che si riferisce al dolore fisico che l’ha portata ad andare d’urgenza in ospedale, penso che questo sia il suo modo per avviare il racconto di quello che le è accaduto, per cominciare a renderlo rappresentabile e comunicabile. Io contengo per lei l’ intensità di quel dolore in attesa che possa inserirlo, come note in una melodia, nella sua narrazione.
M. e A. sono entrambi ancora molto animati dal risentimento verso la mamma di A. per il suo modo di comportarsi durante la gravidanza della figlia e persino in questi ultimi giorni.
Nella mia mente si va formando però un’immagine di un oggetto interno meno crudele: quello di un genitore che non ha potuto elaborare il suo trauma, identificato forse con un neonato bisognoso, incapace di crescere e di dare. Mi chiedo se entrambi non proiettino su di lei aspetti di sé stessi che in questo momento sarebbe insopportabile contattare, ma che io posso contenere per loro.
Serpeggiano sensi di colpa , M. rimpiange di non aver insistito perchè A. interrompesse il lavoro , inoltre nei giorni scorsi la moglie gli aveva chiesto di andare a prendere qualcosa in soffitta, lui aveva rimandato, finchè lei non lo aveva fatto da sola.
C’è un senso di orrore , M. sostiene che gli è stato detto che i feti fino a 36 settimane non vengono seppelliti: di chi si parla inconsciamente, chi non si può o non si deve seppellire, Regina o Teodoro? E’ come se M. si domandasse, cosa possiamo fare di questa esperienza terribile? C’è un desiderio di liberarsene espellendola, la consapevolezza che questo non è possibile né giusto, il bisogno di un vero commiato dal bambino.
Gli elementi schizoparanoidi vengono alimentati da nuovi ‘fatti’ nelle sedute successive, ma sembra potersi lentamente ricostruire anche un mondo buono in cui si possono condividere le sofferenze e ritrovare momenti di speranza.
Decidiamo di proseguire con un secondo ciclo di incontri.
Emerge un’altra vicenda che riguarda la Lista di Nascita: due coppie di amici, i loro più cari, vanno dopo pochi giorni dalla morte del bambino, a ritirare al negozio i soldi del regalo. Quando M. viene a saperlo si arriva alla rottura completa dei rapporti. A. e M. di nuovo riempiono le sedute della loro rabbia e rancore , sembra ci sia un intrecciarsi di temi, siamo ormai intorno alle vacanze di Natale, forse sentono che il regalo che volevano veramente, il Bambino, è stato loro sottratto. Forse anch’io divento una madre egoista e persecutoria che va in vacanza e presto li lascerà.
Infine, il riempire la mente di rabbia e di conflitto fa sentire vivi, non si precipita nella morte, è una seconda pelle che protegge dal cadere a pezzi.
Il risentimento serve a proiettare all’esterno la rabbia, la distruttività e la colpa, “il desiderio di possedere un oggetto materno idealizzato può venire sostiuito attaccandosi al risentimento come ad un oggetto prezioso a cui non si riesce a rinunciare e che offre una sensazione di potenza e di controllo,di essere speciali”(Young e Gibb, in Garland).
Prima dell’ultimo colloquio di coppia, Anna mi chiede un incontro individuale, si parla della sua difficoltà: come può proteggere sè stessa e un eventuale nuovo bambino, mettere dei limiti, dire ‘no’, senza sentire di diventare la madre strega ed egoista? Nel transfert si è avviata l’elaborazione di questo aspetto ed è stato possibile pensare ad un lavoro personale che A. intraprenderà successivamente.
Credo che i colloqui abbiano permesso di attenuare le reazioni di lutto non adattive e di cominciare “a dare parole al dolore” (Judd) in un contesto protetto, per quanto possibile, dal rischio di ricevere risposte difensive da parte delle persone care, che, a loro volta prese dalla propria sofferenza, possono essere indebolite rispetto alla capacità di contenere le emozioni. Come ci ha detto oggi Anna Ferruta “si può solo condividere”,esserci , tenendo presente come sia difficile anche per il terapeuta tollerare i sentimenti intensi evocati senza distanziarsene o identificarsi eccessivamente ma cercando di mantenere quell’ “identificazione immaginaria”con le esperienze raccontate ( Garland) che rende l’ascolto autentico e terapeutico .
Bibliografia
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Bonicatti M., Il caso Vincent Willem Van Gogh, Boringhieri 1977
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Judd D., La malattia incurabile del bambino, Liguori 1994
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Samuelsson M., Radestad I., Segesten K., A waste of life:fathers’ experience of losing a child before birth,Birth, 28:2, 2001
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Dreyer K. Ordet, 1955
Kieslowski K., Film Blu,1993
Moretti N., La stanza del figlio,, 2001
ELIZABETH CHILDERS (da Spoon River, E.L. Masters)
Polvere della mia polvere,
polvere con la mia polvere.
Bimbo, bimbo morto nell’entrare nel mondo,
morto con la mia morte!
Senza conoscere il respiro, nonostante i tuoi sforzi,
e il cuore che batteva mentre vivevi con me,
e si fermò quando mi lasciasti per la Vita.
E’meglio così, bimbo mio. Così non hai mai percorso
quella lunga, lunga strada che inizia a scuola
quando le piccole dita si fanno sfocate dietro le lacrime
che cadono sulle lettere sbilenche.
E le prima ferita, quando il tuo amichetto
ti abbandona per un altro;
E la malattia, ed il volto della Paura di fianco al letto;
la morta del padre, della madre,
o la vergogna per loro, o la povertà.
Poi, appena finito quel dolore ancora puro dei giorni di scuola,
una natura cieca ti fa bere
dalla coppa dell’amore, che tu sai avvelenata.
A chi avresti proteso il tuo viso di fiore?
A un botanico, fragile creatura? Quale sangue avrebbe gridato col tuo?
Puro o contaminato, non importa,
è sangue che chiama il nostro sangue.
E poi i tuoi figli – oh, e di loro che sarebbe stato?
Quale il tuo dolore? Bimbo! Bimbo mio!
La Morte è meglio della Vita!
ELIZABETH CHILDERS (E.L.Master)
Dust of my dust,
And dust with my dust,
O, child who died as you entered the world,
Dead with my death!
Not knowing
Breath, though you tried so hard,
With a heart that beat when you lived with me,
And stopped when you left me for Life.
It is well, my child.
For you never traveled
The long, long way that begins with school days,
When little fingers blur under the tears
That fall on the crooked letters.
And the earliest wound, when a little mate
Leaves you alone for another;
And sickness, and the face of
Fear by the bed;
The death of a father or mother;
Or shame for them, or poverty;
The maiden sorrow of school days ended;
And eyeless Nature that makes you drink
From the cup of Love, though you know it’s poisoned;
To whom would your flower-face have been lifted?
Botanist, weakling?
Cry of what blood to yours?–
Pure or foul, for it makes no matter,
It’s blood that calls to our blood.
And then your children — oh, what might they be?
And what your sorrow?
Child! Child
Death is better than Life.