IL SOGNO DI SOKEI
Una porta socchiusa lasciava intravedere la figura di Sokei, in ginocchio. Davanti allo sguardo attento dell’allievo di Chojiro, uno dei migliori ceramisti di Kyoto, erano disposte trenta palline di creta (…). Sokei aveva impiegato giorni interi a cercare il materiale che più si confacesse al suo lavoro (…) e poi aveva cominciato a lavorare la creta per farne una ciotola (…).
Chojiro preparò il forno per il momento chiave del processo (…), Sokei infilò la ciotola nel forno. A poco a poco, quella iniziò a cambiare colore per l’effetto della temperatura e, quando divenne bianca, la afferrò saldamente con delle pinze di ferro e la depositò in un recipiente pieno di trucioli di legno (…). Infine, giunse il momento di estrarre la ciotola, (…) ma la bellissima ciotola cadde a terra e si ruppe in sei pezzi. Sokei mise da parte le pinze di ferro e si inginocchiò accanto ai cocci, in silenzio, con un’espressione di incredulità sul volto. Le mani continuavano a tremare, dagli occhi cominciarono a sgorgare lacrime. Che vita effimera aveva avuto la sua creazione. Finché una mano non gli si posò con delicatezza sulla spalla. «Non piangere, Sokei» gli disse Chojiro. «Ma è la mia vita. Come posso non piangere?» rispose l’allievo. «Fai bene a dedicare tutta la tua vita e la tua passione alla tua opera, però la ceramica è bella e fragile, proprio come la vita. La ceramica e la vita possono rompersi in mille pezzi, ma non per questo dobbiamo smettere di vivere intensamente, di lavorare con impegno o di riporre nella nostra esistenza le nostre speranze. Quello che dobbiamo fare non è evitare di vivere, ma imparare a ricomporci dopo le avversità. Raccogli i cocci, Sokei, è arrivato il momento di aggiustare le tue illusioni. Ciò che è rotto può essere ricomposto e, quando lo farai, non cercare di nascondere la sua apparente fragilità giacché si è trasformata ora in una forza manifesta. Caro Sokei, è arrivato il momento che ti spieghi una nuova tecnica, l’arte ancestrale del kintsukuroi, perché tu possa ricomporre la tua vita, le tue illusioni e il tuo lavoro. Vai a prendere l’oro che custodisco nella cassetta sull’ultimo scaffale.»
(Tomas Nevarro, 2019)
STRAPPARE LUNGO I BORDI
Ma la cicatrice quando passa?”
La cicatrice non passa, è come una medaglia che nessuno ti può portare via. Così, quando Zeta è grande e ormai il principe non gli fa più paura, si ricorda che ha vissuto, che ha fatto tante avventure. Che è caduto e si è rialzato.
Ma perché non passa?
Perché è una cicatrice, se andava via con l’acqua era un trasferello. È una cosa che fa paura, ma è anche una cosa bella: è la vita.
(Zerocalcare, 2021).
Gli stralci dei testi riportati esemplificano, in modo narrativo, il tema dell’ultimo lavoro curato da Lupinacci, Rossi e Ruggiero, “La riparazione, dentro e fuori la stanza di analisi” che racchiude ricchi contributi di ampio respiro sul tema della riparazione. Il testo esplora la riparazione, noto concetto kleniano, sotto varie declinazioni e livelli, da quello intrapsichico a quello relazionale fino ad allargare la prospettiva alla dimensione sociale. Infatti, il filo rosso che attraversa tutto il libro è l’estensione del significato e dell’applicabilità del processo riparativo. I vari contributi sistematizzano, sintetizzano e ampliano, il concetto, intrecciandolo e revisionandolo anche secondo nuove conoscenze.
Cosa si intende per riparazione? Quali sono i fattori che facilitano o ostacolano tale processo? Quali sono i parametri indicativi di una riparazione maniacale? Quando ci troviamo alle soglie del processo riparativo? Queste sono alcune delle domande a cui la prima parte del libro, dedicata all’impostazione teorica, risponde, anche con generose esemplificazioni cliniche che mostrano quanto il processo riparativo sia un processo delicato, fragile, irto di difficoltà poiché porta con sé la presa di coscienza della propria responsabilità e, soprattutto, una tolleranza al dolore di aver arrecato una ferita a qualcuno che si ama. La riparazione è il frutto dell’amore, di aspetti libidici, è espressione della forza della pulsione di vita, come suggerisce Lupinacci. Tuttavia, la riparazione non riguarda solo l’oggetto, ma anche il proprio Sé, la propria storia, la propria vita, la “propria equazione personale” (p.34). Il danno e la ferita possono riguardare tanto l’oggetto quanto il soggetto, come l’autrice mostra.
Lo sviluppo della capacità riparativa è collegata al legame con l’oggetto primario. Infatti, la madre, come gli autori suggeriscono, riprendendo la teoria winnicottiana e le ricerche dell’infant research, è importante che sia in grado di sostenere e sopravvivere agli attacchi. È fondamentale, come scrive Ruggiero, che l’oggetto “non sia eccessivamente fragile, né troppo rigido, non sia troppo esigente e superegoico, che non sia rancoroso” (p. 59).
A livello intrapsichico, Rossi mostra come il funzionamento psichico teso a “una disposizione riparativa” (p 48) possa essere limitato sia dalla presenza di un Super-io crudele, duro, che opera contro l’Io, creando “l’inconscio conflitto tra il tentativo riparativo dell’Io e la severità supergoica (p.43), sia dalle vicende del narcisismo e dell’azione dell’ideale dell’io.
L’ideale dell’io, infatti, può avere pretese di potenza, invulnerabilità, come descrive in modo ricco Ruggiero nella presentazione di una situazione clinica; può portare al diniego e a una riparazione maniacale, precludendo la ricchezza esperienziale insita in un reale e autentico processo riparativo. Tuttavia, le riparazioni maniacali possono anche costituirsi come dei “momenti di passaggio” (p 57) verso una capacità riparativa più “vera”. La stessa autrice, nel suo lavoro, propone un’importante riflessione sui processi riparativi anche sul versante dell’analista, differenziando una riparazione prematura, frettolosa, pseudo-riparazione e, infine, una riparazione manipolatoria. Tema, sotto altre prospettive, ripreso nel capitolo cinque da Masina che collega la vocazione terapeutica alla riparazione a sua volta collegata alla figura mitologica di Chirone e all’archetipo del guaritore ferito.
La riparazione richiede che la persona senta di esistere come soggetto, così che possa sviluppare la capacità di preoccuparsi per l’altro (Colombi). E nell’analisi infantile, come sostiene Boffito, la riparazione passa anche attraverso la narrazione, che permette di far nascere quelle condizioni utili alla trasformazione dell’atmosfera, fondamentali per sentire, vivere e pensare, le emozioni senza sentirsi eccessivamente perseguitati. A questo proposito introduce il concetto di “riparazione narrativa empatica” (p. 114).
E ancora, nella coppia cosa significa riparazione? Rossi e Zavattini ci fanno entrare dentro alle varie prospettive possibili, tra le quali la riparazione è intesa come la capacità di riconnettersi e, in questa visione, diviene un processo evolutivo, creativo, al cui centro vi è la “realizzazione di un progetto” (p. 136).
Allargando maggiormente la visuale, Corrente sottolinea come il gruppo possa operare delle trasformazioni per “divenire ciò che non si è mai stati” (p 152), frutto del lavoro stesso del gruppo di natura riparativa anche per i singoli membri. Nello specifico ipotizza, riprendendo il concetto di Corrao di funzione gamma, l’esistenza di trasformazioni gamma che non solo alimentano la funzione alfa individuale, ma la sostengono nelle sue potenzialità di crescita e, nel caso fosse danneggiata o deficitaria, “procedono alla sua riparazione” (p.155). E’ in quest’ottica che, ad esempio, i gruppi di studio o i gruppi di lavoro assumono, anche, una qualità riparativa dello stato mentale degli stessi operatori.
Estendendo ancora, la terza parte del libro confronta il lettore su come i traumi collettivi possono essere riparati a livello gruppale. Il gruppo diventa una struttura che permette un’operazione di tessitura, grazie alla quale si possono ricostruire non solo legami significativi ma possono, anche, ricomporsi sentimenti identitari. Gli autori, sotto varie lenti, mettono in luce quanto il trauma collettivo distrugga i rapporti di filiazione e tocca ogni essere umano, non solo le vittime dirette. Siamo tutti appartenenti alla collettività umana. E proprio perché tali traumi intaccano i garanti alla base di qualsiasi rapporto umano che la riparazione può avvenire solo a livello gruppale. Il gruppo che mette in moto la riparazione, come ci fanno notare gli autori, diverso anche dall’insieme di persone che hanno arrecato danno, funge da testimone affettivo e partecipe che attiva la funzione del ricordare, così fondamentale non solo per riconoscere il trauma subito, metterlo in parole, ma anche per dargli una rappresentabilità.
Un noto proverbio africano, “per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”, mi sembra racchiudere l’importanza dei rapporti di filiazione, del gruppo esteso per una crescita sufficientemente buona e, estendendola al trauma, si potrebbe asserire l’importanza di un villaggio che riesca ad abbracciare con la sua mente gruppale i ricordi carichi di orrore e di usurpazione del diritto alla vita.
La riparazione, inoltre, è strettamente embricata al tema dell’etica, della compassione e del perdono, come fanno notare in modo corale gli autori.
Concludo riprendendo gli stralci di testo riportati all’inizio, dai quali si nota come la riparazione sia un processo dal quale escono trasformati il soggetto, l’oggetto e la relazione. Non si può negare la rottura che c’è stata, come non si può negare la ferita creata. Alla base è essenziale anche una fiducia che dalle proprie azioni riparative la ferita possa essere rimarginata, diventando cicatrice, dando tempo e possibilità a sé, all’altro, e alla relazione di poter creare e preparare gli elementi utili, come l’oro nella tecnica giapponese, al processo. Non si può pensareche in modo magico-onnipotente tutto si aggiusti, non si può pensare che la ferita, divenuta cicatrice, vada via con l’acqua, altrimenti sarebbe stata un trasferello, come dice Zerocalcare. Questo aggiunge un elemento importante, il ricordo della cicatrice che porta con sè quell’apprendere dall’esperienza, cosi che il soggetto possa mettersi nella condizione di espandere i propri strumenti emotivi.