Relazione presentata al seminario di Formazione Psicoanalitica
Cinema Auditorium Stensen, Viale Don Minzoni 25/c, 4 Dicembre 2010
Mi sono prefisso un compito: oggi ci sono differenti modelli di trattamento che caratterizzano l’esercizio della psicoanalisi clinica.
Mi chiedo: esistono delle costanti di base, degli aspetti comuni che si ritrovano nelle diverse procedure che attuiamo?
So di parlare a chi pratica la psicoanalisi individuale, a chi pratica la psicoanalisi di gruppo, a chi esercita la psicoterapia psicoanalitica o psicoterapia dinamica come viene anche chiamata; a chi tratta i bambini; a chi fa le terapie congiunte.
La mia ambizione è di fare un discorso in cui ciascuno possa riconoscersi, quale che sia il modello in cui pratica la psicoanalisi clinica. La mia speranza è dire cose condivisibili da chi mi ascolta.
“Dottore,sto male, curami!”. Chiunque viene a bussare al nostro studio, quale è il motivo che lo ha spinto, quale la storia che racconta, in sintesi ci porta una sofferenza e formula una richiesta: “Occupati di me, curami, togli il mio star male”.
A mio parere, ogni trattamento psicoanalitico descrive una vicenda che passa attraverso tre snodi fondamentali, che io esprimo in questo modo:
ogni trattamento
propone un percorso di liberazione;
produce un processo di cambiamento;
fa vivere una esperienza di relazione.
Non li vedo come ordinati in senso cronologico, anche se uno di loro può essere prevalente in certi momenti della storia; li considero snodi tra loro intrecciati, che si rinforzano, anzi, a vicenda, e servono a dare un senso a quella domanda iniziale di ricevere cura.
Percorso di liberazione.
Il paziente è in genere imprigionato nei suoi sintomi, una volta strutturati in modo da permettere una diagnosi, oggi, il più delle volte, frammentati in sensazioni vaghe, di malessere, di perdita del senso della vita, sfiducia, ansia, depressione, stanchezza di vivere, impulsi distruttivi o autodistruttivi.
Il lavoro iniziato può mettere in chiaro che parte dei sintomi sono difese contro disagi più profondi, misconosciuti o tenuti gelosamente da parte. Che ci sono aree di inibizione che impediscono la fuoriuscita dei sentimenti.
Quando il lavoro continua, il paz può sentire un primo sollievo per il fatto di poter parlare, può permettersi di percepire sensazioni che prima soffocava sul nascere, può apprezzare delle diversità, di rendersi conto che riesce a fare cose che prima gli sembravano interdette.
E’ qui che possiamo introdurre il secondo snodo di fondo: il processo di cambiamento.
E’ la presa d’atto che il percorso di liberazione ha messo in moto la possibilità di operare dei cambiamenti.
Cambiamenti in se stesso: trovare nuovi significati esistenziali, poter formulare progetti; introdurre nuovi codici per l’interpretazione della realtà.
Il cambiamento catastrofico bioniano introduce il ribaltamento di un certo modo di pensare, come una nuova metanoia, oppure la sensazione di una nuova nascita, come diceva Balint.
E’ il momento in cui cadono le maschere del falso sé, permettono l’evidenziarsi di aspetti più autentici, aspetti che quel paziente aveva tenuto segreti perchè interdetti.
Il paz può accorgersi di quanta vita ha finora sprecato.
E’ il paz che dice: “Ora posso”. Il paz che s’accorge che può prendersi cura di se stesso, che supera una dipendenza dal terapeuta.
E’ chiaro che sto descrivendo percorsi ideali, dove tutto procede bene, consapevole di quanta fatica il paz fa per far emergere aspetti nuovi di sé, e il piacere di sentirsi più libero.
Anche se rimane consapevole che esistono ancora sacche i resistenza, di meccanismi di difesa che tuttora sono presenti.
Ho detto che il terzo snodo fondamentale per il paz è il vivere una esperienza di relazione.
Questo è il momento adatto per far entrare l’altro attore della vicenda: lo psicoanalista, lo psicoterapeuta. – e di ritornare per un attimo all’inizio della storia.
Abbiamo detto che nel contratto noi accettiamo di rispondere affermativamente alla richiesta di cura, anche se poi il paziente si imbatte in una situazione nuova, inaspettata, dove non gli vien prescritto alcunchè (penso alla medicina tradizionale: oggi si prescrivono esami a iosa, il paz riceve una prescrizione farmacologica con il rituale congedo: “prenda queste e ritorni tra un mese a dirmi come va”). L’unica prescrizione data è “la regola tecnica fondamentale” delle libere associazioni. Poi c’è la situazione nuova, che produce smarrimento , di fronte a quel signore che ascolta e parla poco, all’interno di quelle che chiamiamo le regole del setting, diverse a seconda del modello utilizzato, sempre poco comprensibili e difficili da digerire.
Faccio riferimento, anche qui, quale sia il modello usato, alla fedeltà che il terapeuta deve dare ai principi di tecnica della RISERVATEZZA, della ASTINENZA e della NEUTRALITA’, tenendo conto per quest’ultima, delle diverse accezioni, secondo il modello usato.
Nel percorso di liberazione il terapeuta dà la sua presenza, fatta di ascolto analitico. E’ mio parere, quale che sia il modello usato, che l’ascolto deve essere analitico. Così come Freud nel ’22 lo ha magistralmente indicato quando ha parlato di “attenzione fluttuante uniforme” (io preferisco dire attenzione uniformemente fluttuante).
La presenza del terapeuta sarà inizialmente fatta prevalentemente di holding, per aiutare il paziente a sentirsi contenuto, per meglio fronteggiare le sue ansie abbandoniche, a sentirsi accolto e non giudicato, ad avere un posto dove evacuare i fatti che lo opprimono.
Di certo, il terapeuta non ascolta solamente, ma parla.
Specie nei momenti in cui il paz passa da percorsi di liberazione a possibilità di cambiamento, la parola del terapeuta acquista una specificità curativa ineguagliabile, perchè contiene una potenzialità trasformativa per il paziente.
Intendo la parola che intrpreta, che costruisce narrative nuove, che aiuta il paz a dare senso nuovo alle proprie parole, a dare forma al conosciuto non pensato.
E’ il momento in cui la presenza del terapeuta è presenza di testimonianza: dei cambiamenti del paziente. In un certo senso si fa garante del tentativo che stenta a trovare la forza, della insicurezza che cerca una conferma.
L’esperienza di relazione nasce con l’inizio di ogni trattamento, ma durante il percorso acquista sapori nuovi. Dal bisogno iniziale di essere accudito, alla consapevolezza di acquisire gradatamente autonomia, è un fattore di continua crescita che modifica via via il senso della relazione.
Il terapeuta può farsi compagno di strada, può decidersi chi debba indicare il percorso, fissare una meta, decidere una sosta, e così via.
Il paziente non vive solo una relazione, ma fa l’esperienza di costruire una relazione. E il terapeuta si sente co-costruttore di questo nuovo modo di stare assieme, trova perfino gratificante certi momenti in cui si fa condurre dal paziente che vuole camminare davanti.
E qui sento il bisogno i rubare alcuni passaggi che ho trovato nel libro di Ambrosiano e Gaburri “La spinta a esistere”, che si trovano nelle prime pagine del testo, perchè sono troppo belli.
Per la verità, Laura sta parlando dell’ accudimento primario, ma quanto le sue espressioni sembrano aderenti a quello che sto dicendo.
Laura cita Bion che parla del rapporto di conformità tra madre e bambino, come anche dell’adulto con le convezioni della società: se questa armonia si rompe, c’è attrito.
Dice Laura: “E’ grazie a questo attrito che può animarsi la spinta ad esistere, a vivere la propria vita”. Poi, riprendendo il discorso dell’accudimento primario, introduce una specifica qualità di questo accudimento e la trova nella tenerezza. Termine inaspettato, che mi sorprende, in me che lo leggo, al posto dell’abusato e banale termine di amore.
E Laura precisa: “Noi intendiamo la tenerezza come una curiosità e un trasporto verso il bambino da parte di adulti che non si aspettano niente in cambio”.
Modificate i termini nel senso del nostro discorso: “Noi intendiamo la tenerezza come una curiosità e un trasporto verso il paziente da parte di un terapeuta che non si aspetta niente in cambio”. Se non il piacere di constatare che è presente quella spinta a crescere, cioè a vivere la propria vita, che erano stati i segni di riconoscimento dei due primi snodi esaminati.
Ma andiamo avanti.
Questi tre snodi, che io ho posto a fondamento di ogni tipo di trattamento psicologico, abituano il paz a considerare che certi modi di essere possono acquistare un valore per la realizzazione del proprio sé e caratterizzare l’identità della propria persona.
Parlo della dimensione assiologica, valoriale della personalità.
Il percorso di liberazione: esso insegna al paziente a trovare il gusto per la libertà, che può essere da lui assunta come un valore della propria esistenza e un valore da difendere per la società in cui vive.
Nel processo di cambiamento abbiamo trovato il paz a cercare soprattutto l’autenticità, a poter affermare con chiarezza “io sono questo e non una maschera”, un falso Sè”. Credo che il valore corrispondente a questa faticosa operazione sia la verità, non tanto declinata in modo astratto, ma tradotta in atti concreti di vita, anche quando questi atti richiedono il coraggio di affrontare la sofferenza che possono comportare.
Quanto al terzo snodo, la capacità di costruire relazioni, penso che il valore che meglio vi corrisponde sia quello della responsabilità.
E’ un passaggio molto importante quando il paz esce dalla sua chiusura narcisistica e si rende consapevole che le sue azioni hanno conseguenze: ma non solo per sé, soprattutto per gli altri.
Dei quali viene a sentirsi responsabile.
Nella mia esperienza ho notato spesso che l’assunzione di idee-valore – queste che v’ho indicato o anche altre – sono una buona connotazione per capire che il paziente è avviato a un buon momento della conclusione del trattamento.
Non mi rimane che riandare al titolo dell’intervento e cercare una risposta all’espressione freudiana di pessimismo quando disse: “Sembra che quella dell’analizzare sia la terza di quelle professioni “impossibili”, il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo. Le altre due, note da molto più tempo, sono quelle dell’educare e del governare”.
Hanno una cosa in comune le tre professioni: la relazione con gli individui.
Il governare fallisce quando si fa dittatura, fanatica e fondamentalistica imposizione di potere, che disconosce i bisogni degli individui.
L’educare fallisce quando si riduce a un insieme di nozioni e di regole che impone dall’ alto, senza tener conto delle aspettative, delle potenzialità, della creatività degli allievi.
E la psicoanalisi? Essa fallisce quando pretende di possedere la verità e di farsi ideologia, dove “il soggetto supposto sapere “ non è solo una fantasia nella mente dell’analizzando, ma è anche un profonda realtà radicata nella mente del terapeuta.
Mi soccorre Ogden , per rispondere affermativamente che la psicoanalisi è possibile in tanto in quanto porta rispetto al paziente che chiede cura. Ogden, che non si stanca di ripetere che è il tempo di “riscoprire” la psicoanalisi, anzi di inventare di nuovo la psicoanalisi per ciascuno dei nostri pazienti.