dal Capitolo Primo del libro FUNZIONE ANALITICA E MENTE PRIMITIVA (2002, Ed. ETS, Pisa), che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore e della Casa Editrice ETS
Appartengo a quella generazione di analisti formatasi a cavallo degli anni ’50 e ’60 che ha sviluppato la propria identità analitica tra lo studio e la rivisitazione dell’opera di Freud e il crescente rapporto con autori che hanno formulato nuovi modelli descrittivi della mente e nuove modalità operative pratiche ora proponendone il loro lineare sviluppo dall’esplicito impianto di Freud, ora radicandone l’originalità in particolari, disoccultabili, risvolti del medesimo.
Le ragioni del fiorire di nuovi apporti teorici e clinici con concettualizzazioni che sono andate oltre la prima topica e poi anche oltre la seconda, vanno ricercate, credo, nel confronto psicoanalitico con la psicosi più o meno criptica o esplicita, del resto da subito avviato da Freud stesso, o comunque con i disturbi narcisistici di personalità, con la sofferenza dei bambini e dei gruppi, correlato agli effetti di un approfondimento esperienziale della prassi analitica stessa, che nel percorso del suo sempre più complesso realizzarsi, ha elaborato la coscienza della sua specificità operativa e del suo conseguente peculiare statuto epistemologico.
L’approdo mi pare potersi definire nella individuazione della identità della psicoanalisi nella unitarietà del metodo pur nella molteplicità dei modelli e della correlata operatività clinica.
Forse è stata per me una fortuna poter elaborare il cimento di Freud col pensiero post-freudiano dall’interno della comunità psicoanalitica italiana, per una probabile favorevole distanza, in questo contesto analitico, dal pensiero del fondatore e dagli autori successivi, rispetto a comunità analitiche esterne quali quella inglese, quella francese, e quella nordamericana di allora, molto più emotivamente e diversamente, magari monoideologicamente, o conflittualmente, caratterizzate.
Nel gruppo analitico italiano si sono verificati, due ordini di eventi che hanno riguardato gli anni del mio avvio nella psicoanalisi. Il primo ha a che fare con la costituzione del gruppo italiano attraverso tre filoni diversi, quello di Edoardo Weiss e da lui di Nicola Perrotti e di Emilio Servadio con gli allievi Lydia Gairinger, Roberto Tagliacozzo, Eugenio Gaddini, Piero Bellanova, Anna Muratori, Titino Bartoleschi e altri, quello di Cesare Musatti con le sue ascendenze nello psicologo Benussi, a sua volta formatosi con Otto Gross e con Stekel, e con le discendenze in Franco Fornari, Giancarlo Zapparoli, Egon Molinari, per me anche idealmente in contatto con l’ambiente triestino, e Pietro Veltri (magistrato) e quindi tutta la psicoanalisi del nord Italia, nonchè quello della principessa Tomasi di Lampedusa, proveniente dall’Istituto di Berlino, con cui si formò Francesco Corrao e da lui, poi, tutto il gruppo siciliano. Corrispondono ad alcuni di questi nomi linee di pensiero risultate poi significative nella psicoanalisi italiana: a Musatti, Servadio e Perrotti, in modi diversi, l’attenzione all’opera di Freud e ad alcuni aspetti della metapsicologia, a Gaddini, la riflessione sullo sviluppo mente-corpo, la funzione del padre, i processi imitativi, l’attenzione al pensiero di Winnicott, e le risonanze di tutto ciò sul modo di intendere e praticare l’interpretazione, a Fornari l’esplorazione speculativa della psicoanalisi nella esplorazione della cultura, dello sviluppo affettivo del bambino, della tematica della guerra e della dimensione nucleare di essa, dell’analisi delle istituzioni e delle patologie fisiche come il cancro, o della gravidanza e il parto. A Zapparoli la caratterizzazione della coniugazione della psicoanalisi classica con le istituzioni psichiatriche e gli psicotici, a Corrao Freud, la grecità ed in seguito i gruppi e Bion attraverso il filtro di una verbalizzazione personalizzata e originale, mentre Senise, Bartoleschi e altri avviarono l’analisi infantile e curarono l’adolescenza, mentre Veltri aprì il discorso di psicoanalisi, criminalità e giustizia.
Ma c’è, come ho detto, anche un secondo evento che cominciò a farsi sentire. Questa sorta di policentrismo psicoanalitico-culturale si è ben presto accompagnato ad influenze analitiche esterne. Intanto agli inizi degli anni ’60 gran parte degli analisti italiani, soci e allievi, con vissuti i più diversi, incontrarono un comitato dell’IPA. Per me fu un’esperienza importante. Io ero allievo ed esposi del materiale clinico a De Saussure, Morgenthaler e Parin. Parlai in italiano e riebbi l’immagine di un mio operare analitico riconosciuto, condiviso e approvato. Da allora cercai il più possibile incontri con analisti che abbondantemente venivano da fuori. Per lo più da Londra. Certo il contatto con l’analisi inglese si ebbe anche, per qualcuno di noi, attraverso training fatti a Londra. Ma quantitativamente seminari e supervisioni che venivano fatti in Italia furono significativi. Ricordo gli incontri con Hanna Segal anche a Firenze, Herbert Rosenfeld, a Roma e a Milano, Betty Joseph, a Milano, Salomon Resnik, Irma Pick, Brenmann, e poi la più che quinquennale frequentazione con Marcelle Spira a Milano, rinnovata in anni più vicini a noi con i seminari di Viareggio, e la collaborazione di lavoro seminariale con Donald Meltzer per diversi anni a Calambrone e, finchè fu tra noi, con Martha Harris.
Questi due eventi, policentrismo analitico autoctono, ibridazione dall’esterno, hanno per me costituito un ambito adatto allo sviluppo di alcune idee psicoanalitiche guida che ho formulato in quegli anni e poi ripreso e sviluppato attraverso l’integrazione della visione psicoanalitica innovativa di Bion apparsami da subito capace di esprimere il senso specifico della psicoanalisi.
Quanto ho descritto dell’ambiente psicoanalitico italiano non credo sia estraneo al fatto che nel ’65 fosse accettato il mio lavoro di qualificazione per l’ordinariato: Un esempio di controidentificazione proiettiva. Era un lavoro che proponeva una paziente nei primi tempi della sua analisi, che ora dopo 18 a. di analisi e quasi altrettanti dalla conclusione, tornerei a ritenere borderline sul versante psicotico. La descrissi in un contesto in cui predominava una sintesi della letteratura sulla identificazione proiettiva e raccontai una mia esperienza, con lei, di controidentificazione proiettiva con relativo riassunto del pensiero di Leon Grinberg ed un mio sogno di controtransfert connesso, forse il primo riportato sulla nostra rivista. Feci già allora riferimenti al pensiero di Bion. La centralità della relazione analitica, così evidente dal contesto del racconto del caso, l’ho poi ripensata alla luce dell’interesse ad essa conferito da una buona parte della psicoanalisi italiana degli anni seguenti, come del resto segnalato anche da tutti i temi dei nostri congressi nazionali a cominciare dal III, quello di Venezia.
D’altra parte dalla prima metà degli anni cinquanta ebbi ad occuparmi di bambini e adolescenti in generale, ma anche nell’ambito delle irregolarità della condotta sociale. Per farlo vissi il nascere, nelle istituzioni allora d’avanguardia, dei lavoro d’èquipe, psichiatrico, psicologico, sociale e rieducativo. Tra l’altro ciò accomunò, lungo l’Italia, i primi analisti che in questo lavoro portarono il loro formarsi in senso analitico. Gli anni di questa attività, che in forme diverse ha accompagnato quella di analista per adulti a tempo pieno, quasi fino a tutt’oggi, contribuì a rendermi chiaro che il lavoro con i bambini e con gli aspetti psicotici educa ad un ascolto che mobilita l’attenzione emotiva e la partecipazione corporea, oscillatoriamente lasciate entrare e respinte a distanza, in una alternanza mentale tendenzialmente di pieno e di vuoto e quasi disperso, atta a favorire il coagularsi di una comprensione e della decisione di passare a cercare i modi di comunicarla.
Questa esperienza mentale e globale del contatto analitico, da una parte diventava naturale anche con i pazienti nevrotici, di cui meglio si coglievano i risvolti comunicativi non-verbali e le connessioni con aspetti che diventavano più trasparenti e che li avvicinavano ai pazienti più fragili, da un’altra parte rendeva più spontanea e naturale la prospettiva di analisi a pazienti che finora erano considerati problematici per l’analisi.
Così la crescente centralità delle peculiari condizioni della mente dell’analista al lavoro è andata di pari passo col trovarsi più aperti ai pazienti gravi ed al tempo stesso a poco distinguere, per quanto riguarda l’assetto analitico, tra l’operare con un tipo di paziente o con un altro, con un adulto o con un bambino. Questo perchè le differenze fattuali del setting, ovvie tra queste varie condizioni, emotivamente si sbiadivano nella esperienza forte, fondante, dell’aspetto dell’ascolto e del suo percorso fino ai modi dell’interpretazione tesi a focalizzare i vissuti soggettivi rispetto alla pressione del dato.
Questo annodamento dei fili della originalità dell’assetto mentale dell’incontro analitico e degli elementi psicotici del paziente dal piano esperienziale passerà ad una elaborazione teorica ed approderà alla descrizione del campo analitico come espressivo anche di una gruppalità condivisa dalle due menti pluridimensionali al lavoro e ad una concezione della mente oscillante tra livelli rappresentazionali e percettivi e livelli pre-rappresentazionali e pre-percettivi.
In questo contesto esperienziale e riflessivo-teorico è nata l’intuizione della possibile formalizzazione della unitarietà della psicoanalisi come metodo. Intuizione appoggiata sulla importanza fondamentale del legame tra l’oggetto del lavoro analitico, la condizione in cui tale lavoro necessariamente opera, lo strumento peculiare con cui si lavora.
Per quanto riguarda l’oggetto del lavoro analitico, ritengo che si possa raccogliere un comune consenso attorno alla sua individuazione nella fantasia se a questa parola diamo un significato ampio. Dobbiamo cioè assumere la fantasia come fenomeno ad espressività multipla: ideativa, emotiva, immaginativa, realistica e corporea; nel suo statuto mentale, sia conscio che inconscio; nella sua funzione di ambito mentale in cui si esprime la simbolizzazione, ma anche in cui si esprime la riduzione all’asimbolico.
Fantasia ha dunque un senso diverso da rappresentazione come il concetto è usato da Freud perchè al contrario di questo la fantasia comprende gli affetti; perchè, inoltre, voglio dare alla fantasia la possibilità di raffigurare forme di pensiero più primitive della rappresentazione sottesa dalla unitarietà del soggetto, forme di pensiero ancora sottese, dalla polidimensionalità dei soggetti che potenzialmente, ma non attualmente, costituiscono l’individuo; forme di pensiero che oscillano in uno spettro che va dall’asimbolico al simbolico; perchè infine la fantasia si esprime anche al livello percettivo.
La condizione in cui il lavoro analitico è possibile è il setting.
Lo strumento caratteristico della comunicazione dell’analista al paziente è l’interpretazione.
Anche per questi due parametri che compongono la situazione analitica è necessario intenderli nel modo più ampio possibile, pur mettendo sì dei limiti nell’accezione di ciascuno, andando oltre i quali si snaturerebbe il senso che vogliamo configurare riferendoci, come analisti, ad essi.
Il setting mi sembra che vada inteso, oltre che nella consueta dimensione esterna, nei risvolti interni alla mente dell’analista. L’organizzazione della mente dell’analista nella stanza dell’analisi è la condizione perchè possa svilupparsi la comprensione atta a dare adito al formarsi dell’interpretazione.
La funzione mentale dell’analista, grazie al setting, può fruire tanto di una dispersione fantasmatica come di uno stato integrato con fruizione di modelli di riferimento opportunamente avvicinati o distanziati, che coagulino una comprensione organizzativa degli elementi del campo analitico.
Vale la pena di sottolineare quindi come l’interpretazione e costruzione, al di là del suo scopo, del suo stile formulativo, della scelta del momento di trasformazione e di passaggio dalla recettività dell’ascolto nel silenzio interno dell’analista, alla messa in atto della intenzionalità comunicativa, si collochi in uno stato soggettivo che da una parte si alimenta del setting e dall’altra si dilata all’integrazione in esso del patrimonio modellistico e culturale.
E’ tipico della psicoanalisi, quindi, che l’organizzazione intellettuale, le conoscenze e il modo di concettualizzare dell’analista, nonchè il suo linguaggio verbale e lo stile comunicativo generale debba essere filtrato dal suo setting mentale in relazione al paziente.
Ciò posto è quindi la assunzione unitaria di fantasmi, interpretazione e setting, la cui concezione di integrazione strutturale e dinamica evidenzial’impossibilità, nella viva realtà dell’analisi, di considerare singolarmente ognuno dei tre parametri, nel senso che l’esistenza concreta dell’uno non è proponibile se non in funzione degli altri due, che fonda la specificità della psicoanalisi.
Ogni parametro però può essere astratto dal contesto operativo e a questo livello valutato, sia nella dimensione teorica che in quella pratica secondo il modo di intenderlo di Freud stesso lungo la sua opera, come pure nelle accezioni che nel movimento analitico, con gli anni, sono state offerte alla comunità analitica stessa, all’intemo di nuove teorie e modelli.
Così, ad esempio, la diversità di un modo di interpretare di chi si riferisse alla prima topica, rispetto a chi si riferisse alla psicologia del Sè, diversità indubbia nella prassi e comprensibile per la coerenza con le rispettive teorie, recupererebbe una equivalenza metodologica per correlarsi dei due modi interpretativi col setting e con l’oggetto fantasmatico propri delle due situazioni analitiche. E’ a livello di metodo, cioè che si vede come questo diverso modo di interpretare sia comunque correlato col setting e con la costellazione di fantasie attivate nel campo analitico.
Si può a questo punto fare un ulteriore passo avanti aggiungendo che il rapporto tra fantasie e la loro interpretazione configura il processo analitico nel suo movimento. Associazioni * interpretazione * nuove associazioni segnano il percorso del movimento e degli eventuali micro e macro-cambiamenti nella seduta e nelle scansioni dell’analisi che si ritenga prendere in esame.
Invece riguardando le cose dal punto di vista del rapporto tra l’interpretazione e il setting all’intemo del quale essa scaturisce, si può cogliere la qualità della relazione analitica che viene continuamente recuperata nella sua costanza, nel riaggiustamento della distanza, nell’azzeramento delle punte emotive e tensive e quindi delle condizioni per l’ascolto.
Il confronto tra la produzione delle fantasie che animano il campo analitico e la loro modificazione attraverso l’elaborazione che rimette in contatto con la realtà filtrata dal setting, testimonia che il rapporto fantasmi/setting indica la qualità del sentimento di realtà e la sua costruzione.
In ultima analisi è nella situazione analitica che si configura la realtà della mente. I tratti della mente del paziente si definiscono all’osservatore sul ritrarsi dell’onda del vissuto del funzionamento del campo analitico pluridimensionale determinato dall’incontro duale. Questa esperienza della mente del paziente è allora offerta alla riflessione analitica teorica, che formulando possibili modelli del funzionamento mentale, potrà tornare ad offrirli alla risoggettivazione nel campo analitico vivente della situazione analitica.
Il modello della mente, o meglio, gli aspetti del modello della mente di cui mi sono fatto un’idea e che ho proposto nei miei lavori tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’80, successivamente poi ripresi fino ad oggi, nasce dall’esperienza dell’intreccio di certi fili con cui più mi sono trovato a confrontarmi nel lavoro analitico. Fili costituiti da modalità di funzionamento mentale, voglio dire, quali l’oscillazione tra dispersione e integrazione o aggregazione, la bipolarità regressione-progressione, l’alternanza continuo-discreto, la gamma dei gradi di espressività simbolica o di riduzione all’asimbolico, la fluttuazione vigilanza-sonno.
Questi fili di funzionamento mentale non sono appunto granchè separabili e distinguibili, ma esistono delle dominanze fenomeniche dell’uno o dell’altro che danno una connotazione prevalente situazione per situazione, e ciò che connotano è il tipo di pensiero dominante in quel dato momento del movimento associativo, attentivo, d’ascolto. Gli aspetti esplicitati del pensiero che si manifesta nella situazione analitica trova la possibilità di essere descritto tramite una applicazione fluida e flessibile di buona parte della mappatura della griglia di Bion. Quando la sofferenza condiziona le forme del pensiero in cui si manifesta l’incontro mentale, soltanto alcune caselle della griglia si impongono con sopravvento ad indicare il funzionamento del campo.
Ogni analista ha un suo stile. Si può dire che c’è qualcosa di personale che caratterizza per ogni analista la costruzione del setting, il suo porsi col paziente, le modalità comunicativo-interpretative. Ogni analista ha una sua funzione analitica di ascolto, di conoscenza, di intervento. Questa globale e singolare modalità di lavoro, però, per ogni analista comporta delle diversità per ogni suo paziente. Queste diversità sono legate al fatto che malgrado questa relativa uniformità dello stile di ogni analista, il campo analitico è profondamente diverso, per ogni singolo analista, da una analisi all’altra, da un paziente all’altro.
Se ne deve concludere che la singolarità propria di ogni condizione del campo analitico per ogni paziente dipende, principalmente dal potente effetto organizzatore della mente del paziente. La specificità cioè del campo analitico di ogni analisi è correlata alla mente di quel dato analizzando nel suo incontro analitico. La condizione del campo può essere assunta come espressione della mente del paziente.
Questa immagine della mente si coglie sullo sfondo della relazione analitica che nella sua peculiare costanza, e nella coscienza di essa da parte dell’analista, permette l’organizzarsi nel presente di una rappresentazione del funzionamento e della struttura del paziente. Ma nell’esperienza del campo analitico c’è anche la processualità. Essa condiziona e complica la rappresentazione della mente del paziente. Questa rappresentazione è dunque dinamica e comprende quella del processo analitico all’interno della seduta. Ma non appena lo sguardo si colloca al di fuori della seduta ad esaminare una sequenza di sedute ed una intera analisi – ed è una esperienza che ci compete, ad es., ogni volta che dobbiamo raccontare un caso – gli elementi descrittivi del processo chiedono di essere integrati a raffigurare l’immagine della mente che cerchiamo di costruire.
Ma l’immagine della mente del paziente anche nella processualità si pone all’analista che la configura astraendola dallo sfondo della situazione analitica in cui si è organizzata, come leggibile sia lungo un asse sincronico che lungo un asse diacronico. C’è infatti una processualità che consiste in un dinamismo oscillatorio di cui ho già detto a proposito dell’intreccio dei fili che compongono il campo analitico, ma c’è una processualità che rimanda al processo di sviluppo intrapsichico e della mente del bambino secondo un’ottica psicogenetica, un asse diacronico dunque secondo cui leggere l’organizzarsi della mente dell’analizzando che rintroduce la necessità della sua risoggettivizzazione nell’operare analitico, ma anche, al di fuori di esso, la possibilità di confronto interdisciplinare e del confronto con l’osservazione diretta nello studio dello sviluppo del bambino.
La conoscenza metapsicologica dell’analista, qui in particolare la visione dello sviluppo psicogenetico, può diventare il nutrimento mentale dell’analista medesimo, se l’analista saprà distanziarla, annebbiarla, collocandola nello sfondo e mettere a fuoco, nell’hic et nunc del campo analitico, l’integrazione funzionale sincronica di quei momenti che, lungo l’asse diacronico dello sviluppo, segnarono tappe marcate da modalità particolari di funzionamento mentale.
Riflettendo dunque, per descrivere il modello della mente che prevalentemente mi si pone nell’operare e nel riflettere alle cose scritte, dette ed usate lavorando in questi anni, riflettendo a quella che, parafrasando Meltzer, potrei chiamare la mia ìmetapsicologia allargata, direi per prima cosa che la questione del Sè ha coagulato tematiche stimolate dalla clinica delle così dette patologie gravi, da possibilità di farsi una idea della mente infantile, di dare un senso ad aspetti coinvolgenti, pre-rappresentazionali potremmo dire, dell’incontro analitico.
Ma la questione del Sè mi è sembrato porsi su un piano diverso rispetto alla generica modalità di intenderla di M. Klein, alle diverse, ma strutturali teorie di Winnicott e specie di Kohut, ed ai contributi, collegati a Winnicott, di Eugenio Gaddini, se la si unificava ad alcuni aspetti dellateoria del pensiero di Bion e alle sue aperture analitiche sul gruppo.
L’elaborazione della teoria del pensiero per cui intendo il formarsi del Sè come il formarsi degli aspetti più primitivi della mente secondo processi che vanno da una matrice asimbolica all’organizzarsi di un insieme di elementi simbolici, presuppone una concezione del pensiero come una attività mentale sia cognitiva che affettiva.
Questo comporta il discostarsi dalla separazione che Freud fa tra rappresentazione e affetto. Nel processo di simbolizzazione entra l’emozione e la sensorialità. Il pensiero simbolico è un aspetto dell’attività mentale finalizzata al giudizio che si estrinsecherà verbalmente e non verbalmente, nell’ambito del reale come in quello dell’immaginario, propria di elementi psichici espliciti che ne rappresentano altri non espliciti, strutturalmente o almeno fenomenicamente inconsci, che contraggono con i primi una connessione riconoscibile secondo un codice di invarianza e potenzialmente accessibili alla coscienza attraverso o meno trasformazioni di struttura.
Riflettendo sul sistema simbolico oltre che in termini strutturali e dinamici, anche da un punto di vista economico che si rifaccia ad un modello energetico quale quello usato nell’ambito biologico-fisico, sia pure in modo analogico, ma assumendo i parametri di direzione, verso e forza potremmo postulare che in questo sistema gli scambi avvengano a livelli minimali di consumo energetico, possiamo dire tendente allo zero.
Come altrove ho già scritto il sistema simbolico è immerso in un insieme di fenomeni mentali che potremmo ascrivere ad un sistema denominabile asimbolico. Tra i due sistemi avvengono, nei due sensi, processi trasformativi che comportano dal punto di vista economico modificazioni della carica energetica. Mentre gli elementi mentali asimbolici sono energeticamente caricati, la loro trasformazione in elementi di pensiero, simbolici, comporta la loro deenergizzazione, condizione della possibilità di rappresentazione di altri elementi psichici e di costituzione di catene di plurisimbolizzazione.
Se l’osservazione nella situazione analitica indirettamente ci informa sui vari livelli dell’integrazione simbolica e soprattutto del funzionamento del pensiero nelle forme delle varie file della classificazione genetica istituita dalla griglia di Bion, sempre l’osservazione analitica ci apre una visuale sui movimenti mentali intrapsichici ed inter e tran-personali sostenuti dall’identificazione proiettiva ed adesiva proprie del sistema asimbolico ed i cui elementi, dispersi o aggregati che siano, stanno sul crinale di appartenenza e ad uno statuto psichico e ad uno statuto fisico e quindi passibili di avvicinamento analitico come, forse, di avvicinamento biologico. Nè animati e nè inanimati, nè consci nè inconsci possono attivare sia fenomeni invasivi e violenti come manifestazioni di assenza ed immobilità e cioè attinenti alle note forme cliniche che vanno dalla psicosi alla psicosomatica, alla criminalità, all’autismo, etc.
Bion ci ha indicato che le proto-emozioni e le proto-percezioni (sensazioni) vengono gestite dalla funzione alfa che le trasforma in parte in elementi di pensiero che verranno integrati a costituire il pensiero cosciente e comunicabile e in parte, resteranno in uno stato inconscio per proteggere da un eccesso di stimoli interni emozionali e sensoriali, incongrui, il pensiero realistico di veglia e per alimentarne, invece, la pluridimensionalità emozionale e la gamma di aperture simboliche secondo le esigenze modulate della realtà.
Ma la configurazione della mente deve essere anche descritta nel sonno. Infatti nel sonno il periodico integrarsi degli elementi simbolici dispersi dà luogo al sogno che può o meno avere accesso alla coscienza e alla memorizzazione con conseguente possibilità di dilatazione dei panorami mentali del pensiero di veglia. Ciò d’altra parte evita un eccesso di dispersione degli elementi alfa simbolici, con rischio di involuzione in senso asimbolico ed una loro disturbante interferenza sul sonno.
Ma queste considerazioni sulla mente nel sonno-sogno lungo il filo del tema del pensiero sono significative anche perchè pure nella veglia in certe condizioni, si evidenziano oscillazioni degli elementi alfa, ora più dispersi, ora più integrati, ora tali, ora con espressività beta, cioè asimbolici: la condizione che ciò può rendere osservabile è la situazione analitica. In essa il formarsi del pensiero appare come il formarsi di un sogno allo stato di veglia, recepibile e formulabile come tale dalla funzione della mente dell’analista, che opera in modo equivalente a quella parte del dormiente che recepisce il suo sogno e ne organizza il racconto.
Ciò rende ragione, tra l’altro della qualità così particolare della esperienza analitica nella quale parte della mente dell’analista arriva ad attualizzare funzioni potenzialmente proprie della mente del paziente in una oscillazione tra il piano della esperienza e il piano della rielaborazione della medesima con riassunzione da parte dell’analista della sua asimmetria relazionale e della sua responsabilità della gestione dell’incontro mentale. Contemporaneamente ciò è lo specchio strutturale dinamico ed economico del modello mentale negli aspetti più primitivi che si può raffigurare. Un modello basato su una funzione che dalle proto-percezioni, dalle proto-emozioni, dal proto-senso dei rapporti forma i pensieri nei risvolti consci e inconsci della realtà e dell’immaginario, del sonno e della veglia, attivando in tutti questi ambiti il sistema simbolico attraverso il sinergico operare di modalità individuate da Bion e da lui indicate, nella relazione o+ o+, nel movimento PS <==> D degli elementi alfa, nell’oscillazione K <==> O.
Ma riprendo il filo con cui ho cominciato a descrivere il mio modello della mente. Ho incominciato introducendo il concetto del Sè. In un lavoro abbastanza recente (Hautmann, 1999) ho scritto: Da diversi anni ho denominato questi livelli più elementari ìpellicola di pensiero. Per quanto mi sia dilungato ad affermarne i movimenti organizzativi e disorganizzativi nel campo mentale analitico, continuerò ora il discorso, già più di una volta proposto, da un punto di vista psicogenetico. In particolare suggerendo che il primo costituirsi della pellicola di pensiero sia l’espressione del formarsi del Sè che è la pellicola di pensiero. Circoscriverei questo ai movimenti costitutivi del Sè prima che questo, secondo una ottica appunto psicogenetica, si complichi nello strutturarsi dell’Io e delle vere e proprie relazioni oggettuali. Vale a dire, mi pare che l’organizzarsi del Sè avvenga nel periodo fetale, perinatale e neonatale a costituire la ìmente primitiva, fino, attraverso la gradualità della cesura della nascita in senso psicologico, ad accedere allo sviluppo della ìmente separata.
Credo di avere usato la parola pellicola, in un primo momento più che altro pensando ad una pelle, come cute, sottile, fragile ed evanescente, ma come coagulazione di una funzione di contenimento nei confronti della proliferazione di elementi sensoriali e pre-emozionali più o meno dispersi così avviati alla simbolizzazione ed integrazione. Ma presto ho realizzato che la parola pellicola aveva a che fare con la pellicola fotografica e ben si prestava ad indicare l’aspetto iconico del primo livello di trasformazione simbolica che ritenevo avvenisse nel suo seno. Penso infatti che la pellicola di pensiero, il primo abbozzo del Sè, si formi da proto-emozioni, da elementi precorritori della spaziotemporalità e del pensiero matematico, dalla sensorialità acustica, tattile, propriocettiva, olfattiva, etc. Inutile elencare la molteplicità delle varie afferenze fino dalla condizione fetale nella quale l’osservazione ecografica del tipo di movimenti e di ritmi si rivela anche linguaggio che come tale coinvolge l’osservatore in una relazione e investe il movimento di messaggio emotivo.
Usando la parola pellicola in analogia con quella fotografica avevo naturalmente presente l’idea, da tempo proposta, che la visualizzazione oniroide sia precocemente dominante e che nasca prima dell’attività visiva attivata dallo stimolo esterno con la proiezione dell’immagine in un punto dello spazio esterno. Ma, ed è questo che per noi è importante, soprattutto che la visualizzazione oniroide assuma la funzione di organizzatore dell’avvio della funzione pensiero differenziata dal resto dell’attività mentale e, più particolarmente, che ogni stimolazione proveniente dalle senso-percezioni, dall’area ritmico-motoria e dalle proto-emozioni, venga elaborata attraverso una trasformazione visiva ad attivare appunto una condizione mentale vicina a quella del sogno, costituendosi una sorta di film atto a simbolizzare a livello iconico, proto-emozioni o sensazioni non visive attraverso una sorta di rispecchiamento, ad espressione visiva, di elementi di soggettività acustica, olfattiva, gustativa, propriocettiva, spazializzante, pre-emozionale e motoria, venendosi così a formare l’abbozzo del sentimento del Sè.
Questa sorta di primordiale rispecchiamento delle varie afferenze in una sorta di schermo che le rimanda visualizzate, probabilmente costituisce la traccia più elementare del costituirsi del Sè, che si duplicherà nel rispecchiamento del bambino al seno nello sguardo della madre, sia che sia il bambino che lo ricerca per collocarvi la propria esperienza visiva interna sia che questa sia ricercata per iniziativa della madre.
Col costituirsi di questo primo abbozzo onirico-simile, il Sè si pone come labile inizio di un presentimento di identità individuale.
Questo naturalmente non è che l’inizio di un percorso formativo dell’identità che si compirà attraverso l’elaborazione dell’esperienza relazionale con gli oggetti esterni ed interni e il connesso investimento di affetti, cioè con l’istituzione della psicosessualità.
Ma se il formarsi del Sè mi sembra coincidere nelle sue fasi precoci col formarsi del pensiero, nell’accezione di Bion, questo abbozzo del sentimento dell’identità mi pare dovere a Bion attingere anche per la connessione che egli postula tra proto-mentale e gruppalità. Infatti le idee di Bion sui gruppi non solo hanno aperto alla psicoanalisi il gruppo come suo oggetto di osservazione, ma, hanno offerto alla psicoanalisi il concetto di proto-mentale e di gruppalità di questo costitutiva, come forma primitiva della mente. Mi pare che questa gruppalità primitiva possa essere raffigurata dalla dispersione di elementi simbolici e presimbolici frutto della trasformazione delle afferenze sensoriali e pre-emozionali e con esse dalla mentalizzazione del patrimonio genetico e di specie e quindi dei suoi codici psico-biologici e degli scambi comunicativi senso-motori e biochimici indotti dal corpo e dalla mente della madre, nel loro continuo, intenso, riciclaggio della crescita gestazionale (Hautmann, 1987). Agli albori della pellicola di pensiero con cui si costituisce l’abbozzo del Sè penso quindi ad un diffuso e indifferenziato sentimento della vita, ancora transpersonale e transgenerazionale, a livello di ogni afferenza ed efferenza, una condizione quindi, di primordiale vissuto di fusionalità a cui darei il nome di ìSè gruppale proponendo che sia da questa base originaria che nel seguito andranno a svilupparsi tutte le esperienze inerenti alle varie forme di aggregazione gruppale in senso sociale e psicologico (Hautmann, 1998).
Ma è altresì da questa base originaria gruppale, una sorta di magma proto-mentale in trasformazione in elementi simbolici e presimbolici dispersi in cui il sentimento del-l’esistenza è pensabile in termini dilatati e indefiniti, che emerge il Sè individuale.
Come questo movimento maturativo diventa leggibile in termini di vissuto del Sè in evoluzione si configura l’emozione suscitata dal sentimento di esistere. Mi pare un affetto fondante destinato a rinnovarsi nell’arco della vita ogni volta che l’identità si rimette in gioco e si ricicla ed a cui ho proposto di riservare il nome di passione. Questa emozione assolutamente coinvolgente che attraversa l’essere diventa il motore attivante la crescita della simbolizzazione e quindi dello sviluppo del Sè.
Credo che la passione sia l’espressione di un sano narcisismo che investe il Sè. E che quindi il narcisismo libidico promuova lo sviluppo.
E’ invece da ascriversi al narcisismo distruttivo l’angoscia che accompagna l’affacciarsi evolutivo sulla dimensionalità come quella che accompagna l’oscillante ritorno nella perdita della dimensione. Le angosce più primitive, quelle che ho chiamato le angosce di base e Bion il terrore senza nome, collocabili prima, da un punto di vista genetico, dell’angoscia paranoide e depressiva che accompagna la relazione oggettuale e la sua evoluzione, segnano l’esperienza di uno smarrimento nell’infinito e nell’indefinito del cammino lungo l’acquisizione e il controllo della bidimensionalità, tridimensionalità, n-dimensionalità, come il ritorno annichilente nell’adimensionale. Dimensionalità e assenza di dimensione circa lo spazio-tempo, ma anche circa gli affetti, le percezioni, l’organizzazione cognitiva della realtà, etc. Angoscia di dissoluzione nell’infinito e di annichilimento nel vuoto adimensionale, sono sottese da limiti quantitativi che ne sanciscono la funzione stimolante di formazione della pellicola di pensiero simbolico o l’effetto bloccante e disorganizzante che porta a difetti nella formazione della pellicola di pensiero, quindi ad una patologia di base nella formazione del Sè che ho chiamato splitting cognitivo primario e che mi pare confrontabile con lo schermo beta di Bion.
A seconda di una condizione o di un’altra, il bambino, colla cesura della nascita, in senso psicologico, entra con potenzialità sane o meno nella strutturazione dell’Io e della relazione cogli oggetti. A seconda che la formazione del Sè abbia proceduto in modo sufficientemente sano o meno, la relazione con gli oggetti sarà più o meno facile ed atta a compensare o meno i microdifetti organizzativi del Sè. D’altra parte la sua comunque fragile formazione fortemente risentirà della bontà o meno delle prime relazioni oggettuali. Che naturalmente potranno o meno diventare nucleari al Sè. A questo punto lo studio della relazione oggettuale, comunque la si intenda, è patrimonio della psicoanalisi ormai acquisito. Questo modello descrive l’arrivo alla soglia di essa, al punto della confluenza dell’energia sessuale con i bisogni autoconservativi ad istituire la psicosessualità con la sua base relazionale.
Anche se ho più volte sottolineato come nell’attualità la mente funzioni globalmente anche con i suoi livelli precoci instaurati per primi e specie nel funzionamento analitico, con questa descrizione certamente ho pesantemente intruso con una prospettiva psicogenetica nella illustrazione dell’esperienza analitica vivente e nel mio modo di intenderla ed al cui livello comunque ogni modello deve essere distanziato, sfumato, aperto alla trasformazione e soggettivizzato. Vorrei perciò finire tornando ad alludere al senso dell’esperienza analitica così come ce la può indicare metaforicamente questa poesia che William Buttler Yeats dedicò ad Anna Gregory, alias Isabella Augusta, e che anni fa citai in uno scritto sul setting (Hautmann, 1983).
Mai nessun giovane amante,
gettato nella disperazione
da quei grandi bastioni color miele,
intorno ai tuoi orecchi,
potrebbe amarti solo per te stessa
e non per la tua chioma paglierina.
Ma io posso trovare una tintura
e versarmi sui capelli quel colore,
castano, o rosso, o nero,
così che tutti i giovani alla disperazione
possano amarmi solo per me stessa
e non per la mia chioma paglierina.
Ho udito un vecchio religioso
affermar non più tardi di ieri sera
d’aver trovato un testo il quale prova
che Iddio soltanto, mia cara,
potrebbe amarti solo per te stessa
e non per la tua chioma paglierina.
La psicoanalisi ha inventato le condizioni in cui è possibile che la funzione analitica della mente dell’analista equivalga a quel Iddio soltanto. La trasformazione in O proposta da Bion equivale all’amare solo per te stessa; amare (= conoscere) per la chioma paglierina equivale alla trasformazione in K.
La situazione analitica così come l’ho proposta, che permette le oscillazioni trasformative tra O e K, individua, per me, la specificità della psicoanalisi.