Testo presentato al secondo seminario su “DIFFICOLTA’ NELLO SVILUPPO DEL PROCESSO TERAPEUTICO E PROBLEMI DI CONDUZIONE DEL TRATTAMENTO”
Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”
Via S. Egidio 23/1 Firenze
Sabato 16 Aprile 2005
Nella storia della psicoanalisi i primi contatti tra analista e analizzando, dalla prima telefonata ai primi colloqui, sono stati oggetto di particolare interesse non solo per la quantità di informazioni che forniscono sul paziente ma anche per la significativa influenza che possono avere sull’inizio di un trattamento, per il valore predittivo sulla relazione paziente-analista e quindi sull’andamento del futuro trattamento analitico.
La prima consultazione psicoanalitica non è semplicemente un incontro, un colloquio o un’intervista, anche se ne assume la forma: per la maggior parte dei pazienti essa costituisce la prima esperienza di psicoanalisi.
I primi colloqui rivestono quindi un’importanza decisiva per il paziente e richiedono un assetto di lavoro specifico per lo psicoanalista.
Che il colloquio iniziale sia correlato, nella mente del paziente, prima ancora che in quella dell’analista, alla prognosi lo testimonia la richiesta implicita o esplicita presente in ogni consultazione: “che possibilità ho di migliorare o guarire attraverso una cura analitica?” L’analista si trova così di fronte a una grande responsabilità: che cosa si può fare per questa persona, cosa posso fare io per questa persona?
Nella letteratura psicoanalitica si incontra abbastanza spesso qualche tentativo di considerare gli elementi iniziali delle prime sedute come predittivi dell’intero trattamento (vedi il valore di auspicio dato alla prima seduta e al primo sogno), meno studiato è l’aspetto prognostico nel primo colloquio. Generalmente la prognosi di una terapia è messa in correlazione con la validità dell’indicazione terapeutica iniziale che rimanda a sua volta al concetto di idoneità di un dato paziente ad un certo tipo di trattamento. Ciò equivale a dire che un certo trattamento ha, intuitivamente, maggiori possibilità di successo quanto più l’indicazione è corretta e percorribile.
La prognosi è dipendente da così tanti fattori che scoraggia facilmente chiunque da prenderla in considerazione, soprattutto all’inizio di un trattamento così complicato come quello psicoanalitico. Del resto l’analista è consapevole che molto difficilmente verrà a conoscere quale utilizzo avrà fatto il paziente del lavoro svolto insieme sia che l’analisi si sia conclusa pienamente sia che si sia interrotta ad un certo punto.
Affrontare in modo completo questo tema non è l’obiettivo di questo lavoro, perchè richiederebbe almeno di allargare il discorso agli obiettivi trasformativi di un’analisi o di una psicoterapia psicoanalitica e alle problematiche della valutazione catamnestica, per cui limiterò questo aspetto dal punto di vista del colloquio iniziale: vedremo come il colloquio iniziale può essere decisivo per il futuro trattamento.
Freud nella “Comunicazione preliminare” (1898) aveva già avvertito l’insufficienza del tradizionale assetto medico per arrivare ad una qualche comprensione del paziente: “nella grande maggioranza dei casi non si riesce a chiarire questo punto di partenza (il motivo o il processo che ha provocato per la prima volta il sintomo) col semplice esame del paziente, per quanto accurato esso sia”.
Nei “Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi” (1913) egli dedica un saggio al problema dell’inizio del trattamento e tentando di definire alcune “regole per l’avviamento della cura”, paragona il trattamento analitico al gioco degli scacchi, in cui solo le mosse di apertura e di chiusura permettono una presentazione sistematica esauriente. Come nel gioco degli scacchi le regole di apertura (movimento dei vari pezzi) sono stabilite con chiarezza ed hanno la funzione di definire il gioco, poi il giocatore si troverà di fronte ad un numero infinito di situazioni, non sempre prevedibili e di decisioni da prendere. Anche nell’analisi le complesse interazioni analista-analizzando, una volta che il dispositivo analitico ha preso il via, danno luogo ad un numero infinito di configurazioni diverse e non sempre prevedibili. Freud aveva già intuito che, se è vero che le regole da una parte definiscono il tipo di trattamento, dall’altra restano fuori dall’essenza e dalla sostanza del contenuto del processo (Thoma e Kachele).
Nello stesso saggio, sottolineando che la straordinaria complessità dell’apparato psichico e la quantità di fattori determinanti rende difficile standardizzare le regole del trattamento, egli invita a considerarle più come consigli che come norme.
In un clima di buon senso sottolineando le difficoltà che un paziente può incontrare nell’iniziare un lavoro così difficile da spiegare a parole, così lungo (“mezzi anni o anni interi!”) e l’impegno del terapeuta nell’incontro con il paziente, introduce come unica regola attendibile per decidere se un certo caso è adatto alla psicoanalisi un periodo di prova di alcune settimane. “Ho preso l’abitudine, se so poco di un paziente, di accettarlo dapprima solo in via provvisoria, per la durata di una o due settimane (… ) A parte questo tentativo non disponiamo di alcun tipo di verifica; non varrebbero a sostituirlo conversazioni e interrogatori, per prolungati che fossero, durante la normale ora di consultazione”.
E’ evidente che Freud riteneva che una valutazione di analizzabilità del paziente attraverso un semplice colloquio non fosse sufficiente a raggiungere i due obiettivi che si prefiggeva:
1) una diagnosi accurata per valutare la natura dei sintomi “quando si ha dinanzi una nevrosi con sintomi isterici, od ossessivi è necessario domandarsi se il caso non corrisponda allo stadio preliminare della dementia praecox” e quindi rischiare di impegnare un paziente in un trattamento prognosticamente incerto.
2) parlare di analisi ad un paziente che non conosce questo metodo. Un periodo di prova di una o due settimane avrebbe consentito allo psicoanalista di valutare meglio le indicazioni terapeutiche, al paziente di rendersi conto di che cosa essa realmente sia.
L’analisi di prova, adottata inizialmente anche presso l’Istituto Psicoanalitico di Berlino per selezionare le troppo numerose richieste di analisi e prevenire l’alto numero di interruzioni, fu ben presto abbandonata per le molte difficoltà che si creavano con questa procedura. In teoria si poteva valutare solo l’idoneità ad un trattamento analitico standardizzato e nel caso in cui il paziente poi non fosse stato giudicato idoneo per quella cura, la terapia di prova, così come veniva concepita, non avrebbe fornito informazioni sufficienti ad individuare un altro genere di terapia. Non ultimo quindi l’aspetto deontologico di mobilizzare un paziente e lasciarlo poi senza risposta.
Ci si potrebbe chiedere se alcune interruzioni precoci di trattamento potrebbero essere viste come “terapie di prova” non dichiarate, ma vissute come tali dal terapeuta e dal paziente.
Oggi nessuno propone più un periodo di prova, prima di un’analisi o di una psicoterapia, così come l’aveva concepito Freud, per evitare lo sviluppo di una relazione transferale al di fuori del contesto terapeutico definitivo ed a maggior ragione nell’eventualità in cui il paziente debba poi essere inviato ad un altro terapeuta. Dell’analisi di prova potremmo però conservare l’intuizione di Freud, ossia il tentativo di unificare l’indagine psichiatrica (la raccolta di informazioni, l’individuazione delle categorie nosografiche, la spiegazione del trattamento, la genesi del sintomo), con quella psicoanalitica (la centralità della relazione e degli affetti) come sottolinea Quagliata (1994).
L’eliminazione dell’analisi di prova ha ovviamente spostato sull’intervista iniziale i problemi relativi alla scelta ed alla prognosi di un trattamento, analitico o psicoterapeutico che dir si voglia.
Va da sè che i problemi da affrontare nei colloqui iniziali restano comunque sostanzialmente quelli indicati da Freud :
1) giungere ad una indicazione terapeutica corretta come nella formulazione interrogativa di G. Paul (1960): “Quale trattamento, condotto da chi, è più efficace per questa persona, con questo particolare problema, in questo particolare momento della sua vita?”.
2) permettere ad un paziente di rendersi conto di che cosa sia un’analisi o il trattamento che viene proposto dal terapeuta. Anche se oggi è più difficile che una persona si rivolga ad uno psicoanalista o psicoterapeuta senza sapere niente di psicoanalisi, tutti noi sappiamo bene quanto le spiegazioni intellettuali servano a poco e comunque non arrivino a far sentire l’essenza dell’esperienza terapeutica.
La ricerca psicoanalitica dopo Freud, si è arricchita di molti contributi sull’intervista iniziale e sui suoi inevitabili correlati: la diagnosi, le indicazioni e (un pòmeno) la prognosi. Dando una scorsa ai trattati di tecnica psicoanalitica ci accorgiamo di come non manchi mai un capitolo dedicato al colloquio iniziale e di quanti consigli, indicazioni, raccomandazioni essi contengano. L’introduzione di elementi psicoanalitici ha portato il colloquio a discostarsi sempre più dal modello medico, arricchendo l’aspetto diagnostico della dimensione psicodinamica ed introducendo quella terapeutica. Fondamentale a questo ultimo proposito il contributo di Balint che ha messo in evidenza il ruolo della funzione terapeutica sin dai primi momenti.
Lo sviluppo della psicoanalisi in questi ultimi decenni ha orientato l’intervista in due direzioni sostanzialmente diverse ma complementari ed integrabili. Da una parte l’attenzione alla diagnosi come strumento utile alla scelta del trattamento. Citiamo un autore per tutti. Si deve a Kernberg la revisione della nosografia psicoanalitica (un esempio di contributo della psicoanalisi alla psichiatria) con la messa a fuoco nel corso dell’intervista di organizzazioni strutturali stabili, riconoscibili ed indipendenti dai fattori che le hanno determinate. Kernberg introduce “l’intervista strutturale” come modalità organizzata di colloquio, utile soprattutto ad individuare quegli aspetti di funzionamento mentale tipici di un’organizzazione di personalità borderline o narcisistica, non sempre così clinicamente evidenti all’inizio. La struttura della personalità del paziente, intesa come l’insieme delle rappresentazioni del sè, degli oggetti e del loro legame affettivo, unita all’esperienza soggettiva del sè, costituisce una griglia stabile, dinamicamente determinata tesa ad organizzare l’esperienza psichica. L’intervista strutturale permetterebbe secondo K. già nel corso del primo colloquio di orientare la scelta del trattamento nella direzione di una psicoanalisi classica o di una psicoterapia. L’importanza del contributo di Kernberg sta nell’aver messo in rilievo la possibilità di utilizzare strumenti diagnostici (chiarificazione, confrontazione, interpretazione) nel corso di un’intervista condotta con modalità analitiche.
Il secondo orientamento ha portato a dare un particolare rilievo alla relazione che si stabilisce tra paziente e analista. Il colloquio psicologico di Bleger si colloca in questa tradizione. Come sappiamo Bleger sostiene che il colloquio configura un “campo” ossia uno spazio adeguato dove l’intervistato può trovare le condizioni favorevoli a fare il suo gioco. L’esaminatore deve consentire, anche nel caso di un primo colloquio, che il campo della relazione venga stabilito e configurato prevalentemente dal futuro paziente. Il ruolo dell’intervistatore dovrebbe essere quello d’osservatore partecipe, proprio come nell’accezione di Sullivan.
I Baranger danno un ulteriore contributo alla teoria del campo: l’analista non è un elemento a sè, è parte integrante del campo ed essendo più sensibile ad alcune situazioni inconsce piuttosto che ad altre contribuisce attivamente a crearlo (baluardo). Etchegoyen, commentando questa impostazione tiene a sottolineare che non si sta parlando semplicemente della simpatia o antipatia che un analista può avvertire sin dall’inizio verso un paziente che lo incoraggia o scoraggia ad intraprendere un percorso analitico. Si tratta di aspetti più profondi del sè che potranno inconsapevolmente orientare il corso dell’analisi in alcune direzioni piuttosto che in altre.
Su questa scia in Italia l’interesse crescente per la dinamica della coppia analista-analizzando portò Bellanova ad abolire, nel noto lavoro “Formazione della coppia analitica e identità dello psicoanalista”, il termine stesso di prima intervista per sostituirlo con quello a suo avviso più significativo di primo incontro. Il materiale clinico, riportato in quei lavori, mette in evidenza come il primo incontro rappresenti in nuce tutta l’analisi e possa rispecchiare l’iter che la coppia potrà percorrere. L’analizzabilità diviene così un dato della coppia e non più solo del paziente. All’interno di questa ottica i concetti di diagnosi, prognosi, indicazioni sembrerebbero perdere la loro consueta significatività e anzi si potrebbero considerare come difese professionali capaci di influire molto negativamente sulla profondità dell’analisi successiva.
Questi contributi fanno fare un significativo salto di qualità all’intervista e la allontanano definitivamente da un atteggiamento monadico, che tende a mettere l’accento esclusivo sulle caratteristiche psichiche del paziente e la indirizzano verso modalità operative che meglio rappresentano l’area interattiva tra analista e paziente. I tradizionali criteri di idoneità e analizzabilitànon sono più adeguati a rappresentare questa diversa concezione del rapporto terapeutico e richiedono un’integrazione con il concetto di accessibilità, già introdotto da Freud (1916,1917) e con quello più recente di trattabilità. I criteri di idoneità e di analizzabilità fanno riferimento a categorie diagnostiche e capacità proprie del paziente, mentre l’accessibilità si riferisce alla personalità profonda quale emerge nella relazione che si instaura con l’analista. Il termine trattabilità, svincolato dal rapporto con una particolare tecnica, presuppone la possibilità di coinvolgere direttamente paziente e terapeuta in un lavoro di investigazione e di analisi che richiede ad entrambi una disponibilità al contatto.
La partecipazione dell’analista e del paziente come “persone” al processo diagnostico porta a fare alcune considerazioni. Come in ogni relazione di coppia l’analista è in prova almeno quanto il paziente: il paziente lo studia, lo classifica, lo assimila al proprio mondo interno, prima di poterci investire in modo stabile. Nella fase di consultazione direi che le caratteristiche del terapeuta, sia psicologiche che sensoriali sono determinanti più che a trattamento avviato: esse informano il lavoro successivo e possono influenzare anche la decisione stessa di intraprendere un’eventuale cura. Quanti pazienti riescono ad iniziare davvero un’analisi grazie ad un incontro significativo, avvenuto in altri tempi, magari dopo anni e con un altro analista.
Per quando riguarda la predittività ci possiamo facilmente rendere conto che gli indicatori prognostici sono diversi da coppia a coppia analitica ed è perciò molto difficile identificarli e ricondurli a parametri univoci. Le ragioni sulle quali si forma una coppia analitica possono restare a lungo inconsce e rendersi visibili solo attraverso i fenomeni di enactment, o grazie ad una elaborazione ad analisi avviata e rielaborazione post analitica. Liberman sostiene, peraltro, che nel corso di un’analisi si possono formare molte coppie analitiche, tutte diverse e non ugualmente funzionanti.
Francamente credo che partendo da questo presupposto la prognosi di un trattamento analitico è valutabile solo in relazione all’entità e varietà dello strumentario tecnico posseduto dallo psicoanalista, alla sua mobilità interna e adattabilità ai bisogni profondi del paziente.
Se è vero che l’analista, nel proprio lavoro quotidiano, quando incontra un nuovo paziente, è orientato ad un tipo di operazione riassumibile nell’espressione “diventare o no l’analista di quel paziente” è anche vero che solo in caso di pazienti quasi ideali questo assetto permette di arrivare all’avvio di un trattamento ben orientato sin dall’inizio. La straordinaria capacità contenitiva del setting, la durata, l’esperienza professionale di un analista, le caratteristiche di certi pazienti possono talvolta permettere di iniziare un’analisi quasi senza soluzioni di continuità con il colloquio iniziale. Nella maggioranza dei casi, complice anche la attuale tendenza ad un atteggiamento che non prevede per la psicoanalisi controindicazioni assolute, la situazione è molto più complicata. Il colloquio iniziale dovrebbe, allora, fornire molti più informazioni, compresa la scelta non facile, tra un trattamento tra un’analisi o una psicoterapia. Constata Widlocher, in un tentativo di distinguere la psicoanalisi dalla psicoterapia, che sempre più spesso i trattamenti sono decisi a posteriori. La cura inizia magari come una proposta più restrittiva 1 o 2 sedute la settimana vis a vis, col tempo evolve in un’analisi o, al contrario, dietro la manifestazione di aspetti diversi della struttura del paziente, non così evidenti all’inizio, si ritiene di dover passare da un setting psicoanalitico ad uno psicoterapeutico. Se questa elasticità può essere considerata in qualche caso una forma di adattabilità terapeutica iniziale per motivare un paziente ad un trattamento successivamente più intensivo, in molti altri casi rischia di essere l’espressione di un orientamento iniziale incerto che può colludere con aspetti autolimitanti del paziente.
L’importanza di poter inserire più contenuti valutativi nei colloqui iniziali è messa in risalto da quegli autori che come Klauber diffidano dall’equiparare la consultazione semplicemente ad un colloquio di intake. La consultazione dovrebbe essere considerata come un’unità funzionale a se stante, ben distinta dal trattamento, soprattutto se vogliamo darle un significato prognostico.
Il momento che precede l’incontro e il momento dell’incontro sono caratterizzati sia per l’analista che per il paziente da uno stato di attesa ed apertura: il paziente mostrerà quello che gli succede, l’analista in un atteggiamento recettivo faciliterà questo lavoro. Tutta la personalità è impegnata sia nell’aspetto del bisogno che dell’angoscia di trasformazione, le organizzazioni difensive possono essere osservate all’opera e fornire preziosi informazioni.
Due elementi, caratterizzano questo momento:
– la presenza di una funzione terapeutica operante sin dall’inizio, sottolineata da Menninger : “la terapia precede sempre la diagnosi. Quali che siano le intenzioni dell’analista, il paziente viene per essere curato e qualunque cosa venga fatta per lui, nella misura in cui lo riguarda è terapia”.
– l’esposizione emotiva. Non si può non tener conto che la consultazione è un momento potenzialmente traumatico, il paziente nel suo stato di bisogno può mettere a nudo aspetti di vulnerabilità del Sè.
Il lavoro dell’intervista mobilizza sia il paziente che il terapeuta e tutti i fenomeni che avvengono nel corso di una terapia avvengono anche nel breve corso di un colloquio. La dinamica transfert controtransfert è naturalmente presente in virtù del fatto che al paziente viene offerto uno spazio per il dispiegarsi della sua situazione interna. L’essenza della proposta analitica è “lavorare insieme lì dove ha sempre lavorato da solo”. (Semi)
Alla luce di tutto questo è utile pensare il contesto della consultazione come una struttura temporanea di contenimento all’interno della quale possono avvenire fenomeni clinici importanti.
Liberman, in un interessante lavoro di ricerca sui criteri diagnostici e predittivi delle interviste preliminari invita a mettere al centro della nostra osservazione il tipo di contributo che il paziente dà al terapeuta nella ricerca delle determinanti interne delle proprie difficoltà. Il tipo di adattamento che l’analista dovrà trovare per stabilire un contatto con quella data persona fornisce ulteriori elementi diagnostici sul tipo di relazione che si potrebbe stabilire nel successivo trattamento e quindi valutare la possibilità o meno di poter prendere in cura quella persona.
L’analisi delle caratteristiche di “ansia” con cui un paziente si presenta ad un primo colloquio può fornire un immediato riscontro della sua organizzazione strutturale. Un paziente può usare sin dall’inizio prevalentemente modalità di comunicazione di tipo proiettivo, somatico. Può avere diversi livelli di consapevolezza della natura dei propri problemi, ad esempio individuare un sintomo come un aspetto enucleabile all’interno del proprio funzionamento mentale o al contrario, proporlo all’interno di una struttura caratteriale che lo ha integrato come un elemento egosintonico, di cui l’angoscia è l’unico segnale visibile. Più importante ancora ai fini diagnostici è il modo con cui il paziente si modifica nel corso dell’intervista. Se ad esempio accade che per le condizioni create dal terapeuta il paziente prenda coscienza spontanea del sintomo potremmo considerare questo elemento come un preludio della buona riuscita dell’interazione terapeutica. Se al contrario l’intervista va nella direzione di aumentare le difese, dovremo essere in grado di renderci conto se siamo di fronte ad es. ad una resistenza al trattamento di tipo nevrotico o a una forma di protezione all’interno di un’organizzazione di personalità più fragile, da indagare meglio prima di decidere la strada da seguire.
Il cambiamento del tipo di risposte del paziente agli interventi del terapeuta si verifica in particolare quando si fanno almeno due colloqui. Nella prima intervista può comparire ad esempio una facciata difensiva, talora ben organizzata e compiacente, sostituita, nella seconda da componenti più disorganizzate. Da notare che spesso i pazienti traggono in inganno gli analisti insistendo per prendere immediati accordi per l’inizio di una terapia, saltando la valutazione iniziale (“questo argomento lo affronterò dopo”). A volte si tratta di persone che semplicemente richiedono un impegno da parte dell’analista prima di iniziare ad esporsi, per altri può trattarsi di difese di tipo narcisistico che tradiscono un serio problema a stabilire un rapporto di dipendenza. In questo caso si potrebbe rischiare di impegnarsi nel trattamento di un paziente sostanzialmente sconosciuto, che potrà richiedere all’analista un contributo molto maggiore di quello previsto.
Nella consultazione è importante anche registrare il clima emotivo, l’atmosfera che si crea prima e dopo gli interventi analitici, le sensazioni che restano ad entrambi, dopo un colloquio. E’ molto utile verificare costantemente con il paziente come si sente durante il colloquio e annotare le differenze di partecipazione tra un colloquio e l’altro.
Il modo con cui il paziente si muove, gli stili espressivi, le relative incongruità che fanno trasparire aspetti interiori critici, sono altri elementi di valore diagnostico e predittivo. Il discorso può allungarsi ulteriormente integrando i tradizionali strumenti conoscitivi della psicoanalisi con dati che provengono da coloro che si sono dedicati a tecniche di osservazione della relazione.
La ricchezza e fecondità di elementi presenti nel lavoro di consultazione pongono comunque molti problemi tecnici su come utilizzare gli strumenti analitici a nostra disposizione. E’ chiaro che non si può cadere nella tentazione di una microanalisi onnipotente che ostacolerebbe un futuro trattamento ma neanche nell’opposto, nella rinuncia a qualsiasi intervento che dia significato analitico al lavoro che si sta facendo, con sicuramente un senso di delusione per il paziente.
Gli analisti sono stati sempre orientati a mantenere nel corso della consultazione un atteggiamento partecipe ma a riservare l’uso degli strumenti più specificatamente analitici al trattamento vero e proprio e non senza argomentazioni valide. Freud, ad esempio, invitava ad utilizzare, pena la compromissione del lavoro, l’interpretazione di transfert ad analisi ormai avviata. Qualche autore invece oggi considera l’interpretazione uno strumento utile per valutare più profondamente l’organizzazione mentale e saggiare la possibilità di lavorare analiticamente.
Ci sono pazienti per i quali il semplice ascolto è sufficiente a dare il via ad un processo terapeutico per molti altri c’è bisogno di un lavoro preparatorio per non rendere precipitosa un’indicazione, veder fallire una terapia e sprecare un’occasione. Ad es. un atteggiamento sistematicamente passivo può portare a conclusioni sbagliate. Se per una persona il silenzio dell’analista è rassicurante ed incoraggiante per un’ altra con aspetti deprivati può falsare l’osservazione. Io credo che tutti gli strumenti analitici possono essere usati se si ha chiaro momento dopo momento che cosa si sta facendo e non si perde di vista l’ambito in cui stiamo lavorando. Come sempre quello che guida ed orienta il nostro lavoro non può essere che il criterio clinico ed in particolare il feed-back del paziente ai nostri interventi.
Ritornando al rapporto tra consultazione e prognosi terapeutica, la possibilità di affrontare prima di tutto significative resistenze al trattamento o smascherare motivazioni non autentiche, permette di poter più ragionevolmente fare una previsione. Shubart in un articolo pubblicato sull’International Journal of Psycho-Analysis (1989-90) parla di scena inconscia che si sviluppa sin dal primo contatto paziente-analista. La possibilità di esplorarne il significato, consentirebbe di lavorare psicoanaliticamente sin dal primo momento senza compromettere, ma anzi aprendo la strada ad un trattamento altrimenti impensabile. Da molti viene sottolineata l’importanza di individuare e non trascurare quegli aspetti della personalità del paziente che interferiscono con la decisione di intraprendere una terapia o potrebbero essere i responsabili della sua interruzione. Questi aspetti il più delle volte si capiscono nel corso dell’analisi, sempre che l’analisi riesca ad iniziare, ma spesso portano a non iniziare nemmeno il trattamento.
Di estrema importanza è dunque lavorare sin dall’inizio sulla motivazione del paziente ad un trattamento e sugli eventuali dubbi ad intraprenderlo: raramente il clinico in consultazione si preoccupa di esplorare quali siano le fantasie e le informazioni che un paziente ha riguardo alla cura che intende praticare. Una volta valutato il bisogno di cura del paziente è invece necessario esplorare con attenzione le idee e il senso di realtà del paziente sulla cura stessa, saggiandone la motivazione. In un certo periodo storico l’uso del termine “analisi” si riferiva a qualunque intervento psicologico di una certa durata: pazienti con altri trattamenti alle spalle spesso dicono di aver fatto un’analisi che si rivela magari un trattamento comportamentale etc. Quindi aiutare il paziente a esporre il più compiutamente possibile le proprie idee sul trattamento che cerca, non solo lo guida in un percorso introspettivo ed espressivo che è sicuramente psicoanalitico, ma chiarisce anche gli aspetti di desiderio e di richiesta impliciti del paziente. La scelta del trattamento e l’eventuale invio ad un terapeuta saranno facilitati e prognosticamente più attendibili.
La ricerca di indicatori prognostici tipica degli inizi della psicoanalisi può portare fuori strada. Un paziente che nella sua vita non è riuscito a mantenere una relazione stabile potrebbe non essere ritenuto il candidato ideale per un’analisi; la comparsa in sogno dell’analista così come è nella realtà potrebbe suggerire di inviare quel paziente ad un altro collega; il sogno di un cataclisma nelle prime sedute sarebbe da considerare come un avvertimento inconscio dei rischi ad andare avanti e così via. Queste osservazioni clinico-statistiche, sicuramente da non trascurare, potrebbero, però, portarci a cristallizzare l’osservazione clinica su aspetti statici della personalità del paziente e a non prendere in considerazione la possibilità che in un “ambiente” diverso quella persona potrebbe essere capace di modalità di funzionamento diverse. Per questo è importante utilizzare indicatori dinamici ossia cogliere nel corso dell’intervista i cambiamenti, le integrazioni, le aperture che un paziente può manifestare a seguito di un nostro intervento. Vedere l’uso che un paziente può fare ad esempio di un approccio empatico dell’analista, osservare le sue modalità di contatto e come queste stesse sono in grado di modificarsi in un modo o in altro nel corso dell’intervista, ci fa fare un bilancio più attendibile oltre che delle difficoltà anche delle risorse del paziente.
Pur nella diversità dei pazienti e delle richieste, comunque la consultazione rappresenta nella maggioranza dei casi, l’embrione di un progetto terapeutico la cui evoluzione sarà a questo punto largamente influenzata dalla capacità dell’analista di farlo sviluppare.
La definizione di un contratto, la focalizzazione e verbalizzazione di quello che il paziente si aspetta, la facilitazione dell’espressione dei sentimenti, la restituzione finale, sono i fattori che insieme ad un lavoro costante con l’Io funzionante del paziente contribuiscono a creare un clima di alleanza terapeutica. All’interno di questa cornice può anche avvenire che il paziente prenda contatto con il proprio mondo interno e individui nell’ “hic et nunc” della seduta, ad esempio, le radici di un’eventuale resistenza al trattamento.
I consueti strumenti analitici: l’ascolto, l’empatia, il transfert, il controtransfert e l’interpretazione possono rivelarsi utili mezzi di lavoro se finalizzati non ad una modificazione strutturale dell’intera personalità del paziente, compito molto più realistico di un processo terapeutico che di un colloquio, ma all’emergenza comunque di aspetti significativi del suo funzionamento mentale, dello stato di bisogno e di motivazione ad un trattamento.
Compito dell’analista è regolare la comunicazione e far sì che la consultazione termini senza residui che intralcerebbero un futuro trattamento. Un buon incontro si dovrebbe concludere con una comprensione condivisa dei problemi del paziente che possiamo chiamare anche restituzione o una forma molto particolare di “consenso informato” (Di Chiara). La conclusione della consultazione dovrebbe lasciare al paziente la sensazione di utilità in sè e non comportare necessariamente l’inizio di una terapia. Come dice Semi “il paziente non deve uscire dalla stanza con il vissuto di essere solo con i propri sentimenti e reazioni”. Penso che possiamo considerare questo risultato come un fattore prognostico favorevole per il futuro.
L’utilità di pensare alla consultazione come ad un’unità funzionale a sè è legata non solo alla possibilità di arrivare ad un successivo trattamento ma anche alla potenzialità, per pazienti che non possono intraprendere una terapia di tipo analitico di utilizzare comunque questo momento come avvio di un processo terapeutico. Talora una consultazione può permettere ad una persona di arrivare a qualche cambiamento di assetto interno sufficiente a riprendere una propria strada (passaggi critici della vita ad esempio). In questi casi la consultazione sfocia in una sorta di counseling, lavoro a cui nemmeno Freud e Winnicott si sono sottratti.
Esempi di consultazioni così orientate si trovano più facilmente nel lavoro con i bambini e gli adolescenti. Basterebbe pensare al lavoro di Senise, che ha introdotto il termine di “trattamento diagnostico” o alla “consultazione partecipata” di Vallino.
A conclusione di questo lavoro dedico qualche parola ad un’esperienza clinica fatta con alcuni colleghi presso il Centro Psicoanalitico di Firenze.
In questi ultimi anni, in diversi centri nazionali la S.P.I. ha deciso di aprire un Servizio di Consultazione che rappresenta non solo l’apertura a realtà sociali e istituzionali nuove, ma anche un vertice privilegiato di osservazione, studio e ricerca di nodi specifici della clinica psicoanalitica: per esempio il rapporto tra primo colloquio e sviluppo terapeutico. Come per il paziente la consultazione può essere l’occasione per avere un primo assaggio di una successiva esperienza psicoanalitica, così per lo psicoanalista essa rappresenta una palestra che lo allena all’osservazione di fenomeni nuovi rispetto ai tradizionali assetti di lavoro e alla gestione di segnali significativi dell’organizzazione interna del paziente e della sua mobilitazione inconscia.
Le persone che si sono rivolte a questi servizi non hanno profili omogenei, direi che la caratteristica comune è la difformità, per età, livello culturale e sociale, quadri psicopatologici. Talora sono persone al primo contatto professionale, talaltra pazienti con alle spalle altri trattamenti (anche in corso) la cui richiesta nasce dall’esigenza di trovare uno sbocco positivo all’interno di una situazione di impasse.
Ci siamo chiesti perchè una persona si rivolga ad un’istituzione piuttosto che direttamente ad un analista o psicoterapeuta che potrebbe eventualmente poi prenderlo in cura. E’ impressione comune che questi servizi raccolgano domande di cura non ancora differenziate, spesso confuse, provenienti da persone che cercano una relazione interlocutoria, che non le costringa subito ad una scelta ma al tempo stesso fornisca elementi adeguati per farla. Sicuramente l’istituzione, quasi servizio pubblico, funziona come un contenitore più ampio e flessibile: dal momento che l’analista sa di non prendere in cura i pazienti di cui sarà consulente, può operare seguendo linee guida totalmente differenti da un normale colloquio di intake. Questo particolare setting dispone ad un’osservazione più oggettiva, ma non per questo meno partecipativa. Anzi, proprio per il fatto della sua unicità, esso può stimolare e far emergere nel breve volgere di uno o due colloqui tutti gli aspetti utili ad una diagnostica di stato e di progetto, aspetti che nell’assetto tradizionale possono attendere un secondo momento e che qui invece devono essere trattati subito psicoanaliticamente: vivere all’interno di una relazione aspetti di sè che necessitano di evolvere prima di organizzarsi in un processo terapeutico globale.
Possiamo pensare che l’analista sia investito di un transfert non specifico e funzionale all’assetto interlocutorio della consultazione: l’analista è nell’immaginario della persona che ci consulta una figura di riferimento, ma di passaggio. In questo contesto la consultazione, per alcune persone, assume la configurazione di un’area intermedia, una sorta di precursore di una relazione terapeutica, un desiderio ancora embrionale che l’analista può contribuire a far crescere. E’ molto importante perciò che l’analista non si precipiti in un’indicazione di trattamento se non ci sono ancora le condizioni operative e aspetti con fiducia l’evoluzione del progetto terapeutico. Un’indicazione prematura o errata può purtroppo rappresentare spesso un danno per le potenzialità terapeutiche del paziente. L’inevitabile fallimento dell’impresa può non solo rafforzare aspetti patologici del carattere, ma frustrando gli elementi libidici dell’alleanza terapeutica, impoverire la componente sana del bisogno inquinandola con una rassegnazione depressiva e la sfiducia nelle proprie capacità evolutive. E’ eticamente imperativo quindi evitare un simile danno iatrogeno, consapevoli che una consultazione ben fatta si conclude sempre con una restituzione di responsabilità al paziente per la propria cura. Quando essa è però integrata dall’elaborazione dei risultati dell’incontro professionale non può che portare ad una più chiara consapevolezza delle proprie potenzialità e alla speranza maturata nell’esperienza vissuta.
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