Testo della relazione di F.Marinelli al secondo seminario su “I profili clinici del narcisismo” (organizzata dal C.P.F. presso il Convitto della Calza, 1? febbraio 2003) che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore
Il protagonista di Moby Dick di Melville, Ismaele, si dà alla navigazione, imbarcandosi sul “Pequod”, per scacciare la malinconia, e “regolare la circolazione degli umori corporali”. Metodo non nuovo nè in disuso, se notiamo la proliferazione di improvvisati argonauti che ai nostri giorni lasciano lavoro, amici, città, e si imbarcano con o senza famiglia per “andar per mare”… la meta non ha importanza. Un ricordo infantile: in un romanzo di Salgari – credo fosse “Minehaha, la scotennatrice” – incontrai il personaggio di un aristocratico inglese che percorreva a cavallo il mitico Far West per combattere il suo “spleen”, la noia che lo affliggeva nei possedimenti aviti della natia Britannia. Salgari, come si sa, non si allontanò mai da Torino, e morì suicida. Se quella parola “spleen”, mi rimase tanto impressa nel ricordo, credo fosse dovuto al fatto che funzionava come perfetto significante di futuri conflitti adolescenziali, una tensione all’Ideale ancora confusa ed inespressa. Trovai la stessa parola qualche anno dopo in un poeta di ben maggiore spessore.
“Spleen” è parola inglese che deriva direttamente dal greco, per indicare la milza, sede per antica credenza dell’ “altra bile”, causa della malinconia: una felice metonimia che compare nei titoli di alcuni “Fleurs du mal” di Baudelaire, che fa dello spleen uno dei suoi temi dominanti, ritenendo la malinconia la componente necessaria a definire l’ideale del bello.
Sono pochi esempi, di livello ovviamente differente, tra gli innumerevoli che ci indicano come nella cultura occidentale, e per secoli, la malinconia è stata inseparabile dall’idea che i poeti si facevano della loro stessa condizione. In questo, preceduti da Aristotele, che per primo aveva postulato la connessione tra umore melanconico ed il talento artistico e scientifico. Talenti, questi, ambedue ritenuti prodotti da una analoga capacità di riflessione, di pensiero, non dandosi l’uno senza l’altro, diversamente da quanto sembra dirci l’attuale esasperazione della differenza tra cultura umanistica e cultura scientifica, cultura a righe e cultura a quadretti… per rimanere a noi, in certe estremizzazioni, spero in via di risoluzione, tra psichiatria e psicoanalisi.
Ma se Aristotele era convinto del legame tra genio e melanconia, proprio dei nati sotto il segno di Saturno, così sapeva che questo crea una condizione a doppio taglio, perchè, se non ben contenuto, può produrre depressione, inerzia, paralisi, fino alla pazzia. Il Rinascimento riprese le tesi aristoteliche, e ne vediamo le testimonianze iconografiche in certe incisioni di Dürer (Malinconia I), nei S. Girolamo di Caravaggio e Ribera, nelle Maddalene di Georges de la Tour. O, più recentemente, in certe figure di Caspar Friederich, di Bòchlin, di Feuerbach, di Rodin, che dal romanticismo attraverso il decadentismo hanno condotto ai drammi artistici del Novecento. Solo pochi, limitati esempi che giustificano però l’affermazione di Yves Bonnefoy che “la malinconia è forse quanto di più specifico caratterizza le culture dell’Occidente… fecondando l’arte, seminando la follia – quest’ultima mascherata talvolta in ragione estrema nell’utopista o nell’ideologo”.
Jean Starobinski ci invita ad esaminare in particolare i temi iconografici dello specchio, cioè della riflessione su se stessi, e della figura chinata, la mano a sorreggere il mento, per aiutare la testa a sopportare il peso del pensiero: pondum, pensum, pendere, ponderare… irriverentemente, la fantasia mi va alla popolare romanesca pennichella.
La riflessione porta alla morte Narciso, ma una doppia riflessione salva dal lungo sonno del quale erano per magia prigionieri il re Ofioch e la regina Liris, attraverso l’ironia e il riso suscitato dalla loro immagine invertita, nella novella contenuta ne “La principessa Brambilla” di Hoffmann.
Uno stesso temperamento contiene dunque questa duplice possibilità, l’esaltazione e l’abbattimento, la creatività o l’inerzia, come se uno di questi stati estremi fosse sempre accompagnato dalla possibilità della condizione opposta.
Analogamente, osservavo in un precedente lavoro, per lo psicoanalista al lavoro nel suo studio, nel corso del viaggio intrapreso con il suo paziente, il sentimento depressivo, inteso come elaborazione cosciente dell’affetto di base da cui prende origine, costituisce il crinale di una particolare esperienza i cui opposti versanti portano: da un lato allo sprofondamento in una situazione patologia gradualmente paralizzante, alla inazione, al “silenzio degli affetti” (Semi, 1989) o, in altre parole, ad una entropia psichica con progressivo inaridimento della capacità di investimento libidico, dalla quale non di rado il malato cerca di uscire con scoppi di rabbia auto od eterodistruttiva; dall’altro, ad un rinnovato slancio vitale, ad una maggior capacità di attingere a risorse interiori distaccandosi da legami, oggetti reali od interni che nel prosieguo del processo di crescita costituirebbero remore più che supporti.
Nel corso della mia esposizione, cercherò di dimostrare come questa doppia faccia della depressione prenda corpo nello sviluppo della teoria psicoanalitica, attraverso gli autori più significativi. In secondo luogo, cercherò di sfatare il luogo comune che per lo psicoanalista essa sia sempre un problema relativo alla colpa e alla severità del Super-Io, mostrando come negli ultimi decenni la presa in carico di patologie sempre più gravi, e le modificazioni e nuove forme che le stesse hanno assunto, abbiano fatto sempre più slittare l’attenzione della coppia al lavoro dal mondo della colpa a quello più primitivo dell’insostenibile peso della leggerezza, cioè della volatilità del sentimento di sè, e, a questa collegato, del sentimento di vergogna: in una parola, ai legami tra depressione e narcisismo.
Di qui la ragione del titolo generale del convegno: se infatti con i primi lavori degli autori cosiddetti classici, da Abraham a Freud, alla Klein, che fondano per così dire la base del movimento psicoanalitico, ci muoviamo tra le intime relazioni esistenti tra aggressività, colpa e depressione (relazione sottolineata peraltro anche nella letteratura più recente, pur con sfumature concettuali differenti), molti altri Autori, man mano che l’esperienza clinica e gli studi procedevano e si arricchivano, hanno elaborato sistemazioni teoriche nuove e diverse, rese necessarie soprattutto dalla sempre maggiore pratica nel campo delle patologie cosiddette del Sè, dei processi psicotici, dei fenomeni borderline. Si è così posto sempre più l’accento sul sentimento di frustrazione delle aspirazioni narcisistiche, sulla intollerabilità del senso di fallimento e sul crollo di illusorie fantasie megalomaniche infantili.
Ma andiamo con ordine.
Generalmente si attribuisce ad Abraham il merito di avere per primo focalizzato il problema della malinconia dal punto di vista teorico-clinico con metodo psicoanalitico.Nonostante Freud avesse già prestato attenzione a questo argomento, ancor prima della pubblicazione della Traumdeutung, in due minute teoriche che fanno parte del carteggio con Fliess, la minuta G del gennaio 1895, intitolata appunto “La melanconia, e la minuta N del maggio 1897, egli non contestò più tardi ad Abraham il merito di avere affrontato e sviluppato per primo lo stesso tema; merito che, va detto, gli si può tranquillamente attribuire, se non altro per il coraggio con cui ha applicato il metodo psicoanalitico a dei casi clinici diagnosticati, secondo il criterio kraepeliniano, come depressione psicotica. Sulla base di questa esperienza clinica pubblicò nel 1912 un lavoro dal titolo “Note per l’indagine e il trattamento psicoanalitico della follia maniaco-depressiva e di stati affini”, nel quale fece le osservazioni fondamentali che da allora hanno costituito il punto di partenza per qualsiasi ricerca psicoanalitica sull’argomento. Liquidata in poche battute la depressione cosiddetta “nevrotica” come legata alla rimozione e alla rinuncia della meta sessuale, in ottemperanza alle teorie freudiane sulle nevrosi “attuali”, egli concentrò l’attenzione sulle analogie cliniche tra nevrosi ossessiva e malinconia, rilevando in ambedue le entità cliniche una compresenza di sentimenti di odio e di amore nei confronti di un oggetto di amore perduto.
Ma, mentre il nevrotico ossessivoriesce a creare oggetti sostitutivi, esercitando su essi una qualche forma di controllo e mantenendone il possesso, nel depresso l’odio paralizza la capacità di amare, e la percezione rimossa della ostilità lo porta alla tipica sintomatologia fatta di colpa, autoaccusa, angoscia di rovina e di povertà, che può assumere aspetti deliranti; dovuti, questi, alla aggiunta di un meccanismo di proiezione nell’odio (ben studiato da Freud nel caso del Presidente Schreber, un anno prima) che lo fa vivere in una condizione soggettiva di totale perdita di amore. Odio che peraltro torna alla luce attraverso canali alternativi, come la particolare lamentosità, o nei sogni, o in impulsi vendicativi o criminali: Abraham parla di “insaziabile sadismo inconscio” da cui derivano le idee di colpa. Sadismo che un altro lavoro del 1916 (“Ricerche sul primissimo stadio evolutivo pregenitale della libido”) spiegò con una regressione allo stadio più primitivo dello sviluppo, conosciuto come stadio orale-cannibalico.
In un successivo e definitivo lavoro, nel 1924 (“Tentativo di una storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici”) egli descrisse ulteriormente ed approfondì le relazioni d’oggetto del malinconico e del nevrotico ossessivo, individuando la linea di confine tra le due patologie, così come tra nevrosi e psicosi, all’interno della fase anale dello sviluppo. Suddividendo questa in una più primitiva fase espulsiva, dominata dalla rabbia, ed una successiva fase ritentiva, legata al trattenimento delle feci e alla pulsione di appropriazione, ipotizzò che nel malinconico l’oggetto odiato venga fantasticato come espulso con le feci, e quindi distrutto, per essere successivamente, e regressivamente, reintroiettato secondo modalità orale cannibalica.
L’episodio depressivo adulto non sarebbe altro che la riedizione, stimolata da una perdita d’oggetto attuale, di una depressione infantile “originaria” che si sviluppa prima del superamento dei conflitti edipici in seguito ad una grave frustrazione orale, il cui modello di base è un brusco o inadeguato svezzamento. Ciò che portò Abraham anche a considerare la privazione del seno come una vera e propria esperienza originaria di castrazione. Sottolineò infine i punti che riteneva responsabili del futuro sviluppo della patologia depressiva: a) un esagerato rafforzamento, costituzionale, dell’erotismo orale; b) una conseguente fissazione della libido a questa fase; c) un’accentuata ambivalenza affettiva, che predispone alla perdita dell’oggetto d’amore; d) una delusione d’amore che precede il superamento dello stadio narcisistico della libido. Infine una ripetizione della delusione primaria nella vita adulta.
Tra i lavori di Abraham si situa un importante scritto di Freud, “Lutto e melanconia” (1915), inserito nel più vasto progetto della formulazione di una metapsicologia generale, sorta di trattato sui fenomeni psicologici inconsci. Riprendendo la teoria di Abraham che vede sia il lutto che la depressione come una reazione alla perdita di un oggetto amato, Freud collega più spesso la melanconia alla percezione inconscia della perdita immaginaria dell’oggetto che non ad una perdita reale. In più, l’oggetto non è necessariamente una persona amata, ma può consistere in un ideale, una astrazione, un valore conscio od inconscio che ne ha preso il posto o che da una persona può essere rappresentato. Anche egli ritiene che la presenza dell’odio nei confronti dell’oggetto dal quale si è subìto l’abbandono sia la discriminante per distinguere uno sviluppo melanconico da un normale lutto.
Al tempo stesso però l’Io si rifiuta di accettare la perdita: la libido rimasta libera non si sposta su un altro oggetto, ma viene utilizzata per operare una identificazione dell’io con l’oggetto abbandonante, una operazione psichica inconscia che consiste in una sorta di introiezione allo scopo di non perderlo. In sostanza, gli autorimproveri del depresso sarebbero in realtà rimproveri che egli rivolge all’oggetto che lo ha abbandonato, e nel quale egli parzialmente si è identificato. Per usare le parole di Freud, in questo modo “l’ombra dell’oggetto è caduta sull’Io, il quale da allora in avanti potrà essere giudicato da una istanza particolare come fosse un oggetto, e precisamente come l’oggetto perduto”. Questa istanza particolare viene in un altro passo identificata con la “coscienza morale”, primo abbozzo del concetto di Super-Io. Viene sottolineata l’importanza della ambivalenza affettiva, che può svilupparsi non necessariamente dalla effettiva perdita, ma da un insieme di esperienze che implicano una minaccia di perdita, provocando nell’inconscio una serie di conflitti intorno all’oggetto stesso.
Credo valga la pena soffermarsi un attimo sulla frase che ho appena citata, ben conosciuta da ogni psicoanalista ma spesso assunta superficialmente. In essa notiamo la compresenza dell’oggetto introiettato, l’oggetto genitoriale frustrante, e di una non meglio specificata “istanza particolare” connotata sadicamente, che lo giudica. Nel ’23 ne “L’Io e l’Es”, riprendendo il meccanismo della identificazione con l’oggetto perduto, Freud allargherà il significato di questo processo, fino a ritenere che esso concorra in misura notevole a configurare il “carattere” della persona, producendo una alterazione dell’Io ogni volta in cui esso debba rinunciare ad un oggetto investito libidicamente. Fino a concludere che “… l’esito più comune della fase sessuale dominata dal complesso edipico sia la configurazione nell’Io di un lascito di queste due identificazioni (con la madre e con il padre) in qualche modo tra loro congiunte”.
Questa alterazione dell’Io conserva la sua posizione particolare contrapponendosi al restante contenuto dell’Io come Ideale dell’Io, o Super-Io. Da questo momento Freud abbandonerà quasi del tutto l’uso del termine Ideale dell’Io, preferendogli il nuovo. Abbiamo visto quindi come dal concetto di introiezione dell’oggetto frustrante nel meccanismo della melanconia egli sia giunto alla formulazione di questa istanza psichica.
Ma allora, quella “istanza particolare” che prima abbiamo visto, e che sembra avere lei le ben note caratteristiche superegoiche, da dove viene, e che fine fa? In realtà era già comparsa, nell’ “Introduzione al narcisismo”, del 1914, lavoro nel quale Freud per la prima volta menziona l’Ideale dell’Io come sostituto del narcisismo perduto dell’infanzia, dell’epoca cioè in cui era egli stesso il proprio Ideale. A fianco di questo agirebbe una istanza che avrebbe il compito di vigilare affinchè a mezzo dell’Ideale dell’Io sia assicurato il soddisfacimento narcisistico, commisurando costantemente l’Io a questo Ideale. Questi, tuttavia, nel 1923 viene concepito non più come “progetto” di sviluppo, di origine narcisistica, ciò che quella istanza procura che venga realizzato come ideale “per sè”, ma più come imposto dall’esterno, attraverso i rimproveri genitoriali che lo spingono a prendere le distanze dal narcisismo primario.
Mi rendo conto che queste possono anche apparire come questioni di lana caprina, ma è rilevante osservare come Freud, sembri gradualmentepassare da un Ideale che il soggetto costituisce per se stesso (per riconquistare la perfezione perduta) e quello di un Super-Io fondato su modelli parentali. Freud alla fine sembra scegliere quest’ultima opzione, ma vedremo come l’idea primitiva, seguendo un percorso carsico, sotterraneo, finisca poi per ricomparire nei lavori e nella idea di autori successivi e di larga parte della psicoanalisi contemporanea. Basti per ora riportare l’opinione di Janine Chasseguet-Smirgel (1973), tra coloro che ritengono si debba operare una netta distinzione tra i due concetti: “… esiste una fondamentale differenza tra l’Ideale dell’Io, erede del narcisismo primario (ovverosia la sensazione di pienezza, di perfezione megalomanica di cui il bambino gode nello stato di fusione primitiva con la madre), e il Super-Io, erede del complesso di Edipo. Se il primo costituisce, per lo meno all’origine, un tentativo di recuperare l’onnipotenza perduta, il secondo è derivato, nella prospettiva freudiana, dal complesso di castrazione”. In altre parole, il Super-Io divide il bambino dalla madre, per paura della punizione paterna, e lo spinge a indirizzare le proprie pulsioni verso altri obbiettivi; mentre l’Ideale dell’Io lo spingerebbe a fondersi nuovamente con lei.
Io penso che si possa vedere qui l’origine di quella strada che porterà gradualmente a commisurare la caduta depressiva, oltre che ai ben noti ed espliciti sentimenti di colpa, a quelli più primitivi legati alla vergogna e al sentimento di perdita del Sè.
Cercherò di chiarire questo percorso.
Se vogliamo trovare in un singolo autore il punto di congiunzione e di partenza rispetto a concettualizzazioni distanti tra loro, non possiamo che riferirci all’opera di Melanie Klein (1934, 1940), indipendentemente dal fatto di condividerne la globalità dei suoi scritti. E’ nella sua visione del fenomeno depressivo infatti che sembrano fondersi due linee di sviluppo della ricerca psicoanalitica: quella clinica, attinente ai limiti di una diagnosi psichiatrica (la psicosi maniaco-depressiva), secondo la lezione di Abraham, e quella che, a partire da Freud, vede nella esperienza depressiva un organizzatore di sviluppo e crescita comune e necessario a tutti gli esseri umani. La Klein infatti ritiene la malattia dell’adulto come espressione del mancato superamento, nella propria infanzia, di una particolare vicenda esperienziale comune a tutti i bambini, da lei denominata “posizione depressiva”. Il termine “posizione”, a differenza delle “fasi” dello sviluppo libidico descritte da Freud e successivamente da Abraham, si riferisce alla modalità di rapporto che il bambino stabilisce con l’oggetto primario, con l’Altro-da-Sè.
Esaminando le primissime relazioni oggettuali dei bambini, segue il passaggio dalle più primitive relazioni con oggetti “parziali” (seno ideale e seno persecutorio), a quelle più mature con oggetti totali, separati da sè, esterni. Qui ella situa l’angoscia per la “perdita dell’oggetto amato”, tra i 4 e gli 8 mesi: rinforzandosi l’integrazione, il bambino comincia a riconoscere la madre come persona intera, dalla quale dipende. E’ l’inizio della posizione depressiva. Ora la madre “intera” è sentita come l’unica sorgente tanto delle gratificazioni quanto delle frustrazioni e del dolore dell’infante. L’amore per lei è molto ambivalente, ed essa è quindi avvertita come sottoposta al pericolo di venire attaccata e distrutta non solo dagli immaginari persecutori da cui il bambino vuole essere protetto, ma dall’odio e dal sadismo del lattante stesso (derivante dall’istinto di morte).
L’Io del bambino, che sempre più percepisce se stesso come “intero”, scoprendo la propria impotenza e dipendenza totale dalla madre, ai sentimenti di perdita, pena e sconforto aggiunge i sensi di colpa relativi alla fantasia di avere, col proprio sadismo, danneggiato o distrutto l’oggetto amato, e la fantasia di avere dentro di sè oggetti morenti o morti. (La Klein spiega così certe fobie alimentari e angosce ipocondriache degli adulti). L’infante che fallisce nel riuscire ad insediare nell’Io un oggetto interno totale, sufficientemente buono e caldo, non riesce a superare la posizione depressiva, e rimarrà esposto a malattie mentali di tipo paranoide o depressivo nella successiva vita adulta.
Le difese che entrano in gioco primitivamente sono la scissione e la idealizzazione dell’oggetto buono. Intensamente attive prima nella costituzione dell’oggetto totale, esse gradualmente si attenuano fino a rendere accettabile la integrazione e mettere in moto, attraverso il senso di colpa, il processo interno di riparazione dell’oggetto, messo in pericolo in questo stadio non solo dall’odio, ma anche dall’amore (connesso alla fantasia di incorporazione cannibalica, secondo la tesi di Abraham di cui Klein era allieva). Lo sforzo di salvare l’oggetto amato, ripararlo e restaurarlo, costituisce il fattore decisivo di tutte le sublimazioni e quindi della creatività e dello sviluppo dell’Io. Se viceversa i sentimenti di pena e l’angoscia per la dipendenza sono eccessivi, vengono messe in atto difese maniacali, quali il diniego della realtà psichica, della dipendenza dall’oggetto e della propria ambivalenza, e il controllo e il trionfo sull’oggetto, che sono di grave ostacolo per lo sviluppo. Un aspetto della teorizzazione kleiniana che non sempre viene messo in luce è la sottolineatura del ruolo e della influenza materna nell’attenuare e rendere sopportabile, oppure accentuare, l’ambivalenza del lattante. (Ciò che avrà una significativa evoluzione nel concetto bioniano di “ròverie” materna, che tanta diffusione ha avuto in anni recenti).
La posizione depressiva non è un passaggio che si affronta “una tantum” nel corso dello sviluppo: ogni volta che nella vita adulta ci si imbatte inesperienze dolorose di qualsiasi genere essa si riattiva, e superarla implica una elaborazione psichica analoga al lavoro del lutto, con lo stimolo delle sublimazioni e dei processi creativi. Essa è concepita così come il nodo centrale dello sviluppo dell’individuo, ciò che dalla prima infanzia ad ogni fase successiva di passaggio e cambiamento per gli eventi della vita costituisce il modello che regola il rapporto con gli oggetti.
Per quanto la Klein si muovesse pienamente nel mondo della colpa, tuttavia l’accento posto sul senso di dipendenza totale dalla madre non rimase senza ulteriori sviluppi. Man mano che l’esperienza clinica e gli studi procedevano e si arricchivano, altri autori hanno elaborato sistemazioni teoriche nuove e diverse, rese necessarie soprattutto dalla sempre maggiore pratica nel campo delle patologie cosiddette del Sè, dei processi psicotici e dei casi borderline. Si è così posto sempre più l’accento sul sentimento di frustrazione delle proprie aspirazioni narcisistiche, sulla intollerabilità del senso di fallimento e sul crollo di illusorie fantasie megalomaniche infantili.
Già nel 1945 Otto Fenichel aveva ipotizzato che nella genesi della depressione il senso di fallimento personale avesse un ruolo ancor più fondamentale della perdita dell’oggetto d’amore: l’elemento principale essendo la perdita di quelle risorse che accrescerebbero l’autostima. L’importanza dell’oggetto diventa determinante per uno sviluppo patologico solo quando esso è investito della autostima del soggetto, che vede in esso la propria massima fonte di prestigio. La base della depressione è ancora ritenuta l’introiezione di un oggetto amato, ma più come fonte di appoggio narcisistico che per conservare l’amore.
Ritorna così quella componente narcisistica del Super-Io, progettuale rispetto ad una immagine ideale di sè, che Freud aveva lasciato in secondo piano. Si apre un capitolo nuovo.
Nel 1953 Edward Bibring pubblica un lavoro intitolato “Il meccanismo della depressione”. In esso egli individua uno schema fondamentale comune a tutte le patologie depressive: l’Io si stente impotente perchè sottoposto al volere di potenze superiori, e nella impossibilità di evitarlo, oppure messo di fronte alla prova della propria intrinseca debolezza ed inferiorità. Il contemporaneo mantenimento di aspirazioni narcisistiche fortemente investite, suscita un profondo vissuto di fallimento. Viene così sottolineato in sostanza lo scarto tra le aspirazioni dell’Io-ideale e il riconoscimento dei propri limiti, col brusco crollo della fantasia megalomanica infantile, avvenuto in termini non fisiologici.
Bibring non rinnega completamente l’importanza della frustrazione e conseguente fissazione a livello orale, ma pone l’accento sui sentimenti crescenti del bambino di impotenza a far cessare lo stato ripetuto di frustrazione nonostante i ripetuti segnali mandati dall’ambiente. Complementare al senso di impotenza, è la consapevolezza della propria non-indipendenza, o meglio non autosufficienza. Definendo la depressione come “il correlato emozionale di un crollo completo o parziale dell’autostima dell’Io”, egli la considera essenzialmente indipendente dalle vicissitudini della aggressività, considerata semmai come secondaria al riattivarsi di quello che chiama lo “shock primario”. Essa non deriverebbe quindi da un conflitto tra l’Io e il Super-Io, bensì da un conflitto intrasistemico, interno all’Io stesso (o meglio, ci sembra di poter dire, tra l’Io e il suo Ideale, inteso non come struttura separata e sovrastante, ma come proiezione del proprio progetto narcisistico).
Edith Jacobson, che in quegli anni si sta dedicando intensamente alla terapia di pazienti borderline e psicotici, apprezza la posizione di Bibring pur non condividendola interamente; gli riconosce il merito di aver messo a fuoco che i conflitti possono essere all’interno dell’Io, tra le aspettative narcisistiche e l’incapacità dell’Io di realizzarle, ma gli rimprovera di aver trascurato il conflitto di ambivalenza presente, a suo parere, in tutte le depressioni. Ella sottolinea una distinzione tra stati depressivi nevrotici, borderline, psicotici o di altro tipo, avanzando l’ipotesi, per ciò che riguarda le depressioni psicotiche ( o endogene, secondo la classificazione in uso), che esse possano essere determinate da una sottostante patologia neurofisiologica; di qui la necessità di affrontare il problema secondo una modalità multifattoriale. In ciò, peraltro, preceduta dallo stesso Freud nei primi capoversi del lavoro che abbiamo esaminato, e seguita dalla letteratura più aggiornata (Gabbard, 1995 – Bleichmar, 1996). Riguardo a quella che chiama la “depressione fondamentale”, la propensione verso un umore di base melanconico, ella concorda con le osservazioni di M. Mahler (1966) sulle reazioni dell’infante alla separazione e al riavvicinamento, ritenendole il risultato di esperienze di frustrazione narcisistica, che generano rabbia e conducono a tentativi ostili di ottenere la gratificazione desiderata. Quando l’Io è incapace (per cause interne o esterne) di realizzare questo scopo, l’aggressività viene rivolta sull’immagine del Sè, con conseguente perdita dell’autostima. Tra le cause esterne sottolinea naturalmente la mancata accettazione e comprensione da parte della madre.
Nel 1971 Edith Jacobson pubblica sotto un unico titolo una sorta di summa, revisione e aggiunta ai punti di un ventennio di lavoro teorico e clinico sull’argomento. Nel decennio successivo assistiamo al fiorire di numerosi e significativi studi sull’argomento del narcisismo e del variegato insieme dei fenomeni patologici che lo riguardano. Tra questi, in particolar modo, i fenomeni depressivi che Ruth Lax (1989) chiamerà esplicitamente “depressioni narcisistiche”.
La psicoanalisi francese, che al suo interno conta numerosi sostenitori del mantenimento della distinzione tra i concetti di Super-Io e Ideale dell’Io (valga per tutti J. Chasseguet-Smirgel, la cui posizione abbiamo già avuto modo di vedere) ha in Bela Gruneberger uno dei suoi esponenti più interessanti.
Nell’ambito del suo studio del tutto originale sul narcisismo (1971) egli assimila la nozione di narcisismo primario di Freud, lo stadio in cui il bambino assume se stesso come oggetto d’amore prima di orientarsi sugli oggetti esterni, ad uno stato particolare da lui chiamato “stato elazionale (inconscio) prenatale”, e al senso di onnipotenza perinatale. Solo successivamente il bambino subisce un progressivo passaggio da un regime a-conflittuale onnipotente ad un regime in cui cessa l’automatismo dell’appagamento. L’infante è costretto così a fare la conoscenza del proprio corpo e delle pulsioni che da esso provengono, e, gradualmente, dal mondo oggettuale. L’obbligo di intraprendere questo faticoso lavoro di adattamento, di riconversione della elazione originaria in investimento narcisistico del proprio corpo e dell’Io per giungere a ciò che Gruneberger chiama “fase del narcisismo integrato” (l’amore di sè, base dell’autostima), costituisce una sorta di ferita narcisistica primaria che nella profondità della psiche rimarrà sempre aperta.
E’ la madre, necessariamente, che ha il compito di rendere questa ferita il meno dolorosa possibile, riparando il carattere negativo delle pulsioni (prodotto dalle inevitabili frustrazioni) e consentendo al bambino di poterle investire di libido narcisistica. In pratica favorendo lo stabilirsi di quell’amore per se stesso come individuo integrato che è alla base sia dell’autostima sia della successiva capacità di avere buone relazioni oggettuali. Il depresso, a differenza dello schizofrenico, è riuscito a costituire un Io corporeo e psichico integrato, ma non ha avuto sufficiente “conferma narcisistica” da parte della madre: sarà costretto così a proiettare all’esterno il proprio narcisismo, idealizzando un oggetto che lo confermi, supporto dell’Ideale dell’Io (quella che Gruneberger chiama “immagine fallica”, in entrambi i sessi). Questa soluzione, scelta per difendere la propria onnipotenza perduta, è destinata ad urtare contro un rifiuto profondo, il che porterà ad una ricerca senza fine, o a rendersi schiavo di oggetti vicarianti per mascherare la depressione: alcool, droga, gioco d’azzardo, sport, lavoro, misticismo o quant’altro.
Ma in sostanza il depresso, incapace di legarsi realmente ad un oggetto che non sia una immagine speculare di sè, se ne allontanerà ben presto, odiandolo come odia se stesso.
Il tema della “conferma” da parte materna è anche al centro della teorizzazione di Kobut (1971), nella quale non compare traccia del conflitto tra Io, Super-Io o Ideale dell’Io, ma considera il Sè in via di sviluppo nella sua globalità, in rapporto all’ambiente circostante. Esso ha specifici bisogni che vengono corrisposti dai genitori, che per primi gli danno un positivo senso di autostima e coesione.
Chiama questi bisogni risposte di “rispecchiamento”, come ricerca di ammirazione, validazione e affermazione di sè agli occhi della madre; “gemellanza” come bisogno del bambino di essere come gli altri; “idealizzazione”, come necessità di vedere i genitori come modelli desiderabili. Kobut chiama l’insieme di questi tre bisogni come necessità di un Oggetto-Sè. In altre parole, di un oggetto che serva primariamente a soddisfare i bisogni del Sè, prima di costituirsi come altro-da-sè. Egli ritiene che le risposte “oggetto-sè” continuino ad essere necessarie per tutta la vita per la salute emotiva, come l’ossigeno lo è per la salute fisica.
Secondo questa concezione, la depressione comporta la mancanza degli oggetti-sè nell’ambiente, che provvedono il sè del depresso della possibilità di risposte di rispecchiamento, gemellanza e idealizzazione, necessarie per sentirsi integrato e sostenuto. La forte perdita di autostima è considerata come un serio disturbo del legame tra sè e oggetti-sè.
Kobut si allontana in questo modo dalla teoria delle pulsioni e dei conflitti intra ed intersistemici, dando luogo ad un filone di studi che focalizza l’attenzione sui fenomeni interpersonali come principale dimensione dello sviluppo del Sè. Tuttora la cosiddetta psicoanalisi intersoggettiva costituisce materia di acceso e fertile dibattito all’interno della comunità psicoanalitica, l’approfondimento del quale esula comunque dal nostro contesto.
Più aderente alla teoria strutturale, e tentando di integrare la psicologia dell’Io con i contributi della Klein e della sua scuola, Kemberg (1975) differenzia le depressioni nelle quali c’è un vero e proprio senso di colpa da quelle causate da un senso di rabbia impotente, o di disperazione relative al crollo di una immagine idealizzata di sè. Mentre le prime sono più rimediabili in quanto presenti in pazienti con un Sè ben integrato e capace quindi di un buon investimento transferale con l’altro-da sè, più gravi sono quelle attribuibili alle personalità con narcisismo patologico. Descrive in particolare l’esperienza in cui predomina un penoso senso di vuoto e di inutilità della vita, e una perdita della normale capacità di sperimentare e superare la solitudine. Attribuisce l’esperienza del vuoto ad una “perdita temporanea o permanente del normale rapporto del Sè con le rappresentazioni oggettuali, vale a dire col mondo di oggetti interiori che fissa intrapsichicamente le esperienze significative con gli altri e costituisce una componente fondamentale dell’identità dell’Io”. Tale esperienza è particolarmente intensa nelle personalità narcisistiche, nelle quali la costituzione di un Sè-grandioso patologico costituisce il normale rapporto di interdipendenza tra un sè integrato e oggetti interiori integrati. Il vuoto, in definitiva, segnala il crollo del normale rapporto tra il Sè e gli oggetti, a volte seguito dal tentativo di sfuggirvi con l’uso di droghe, alcool, sesso, aggressività, attività coatta, magari socialmente accettata ma condotta freneticamente, etc., quelli cioè che Gruneberger chiama oggetti vicarianti.
Più recentemente, Ruth Lax ha sottolineato la predominanza, in quelle che chiama esplicitamente depressioni narcisistiche, dei sentimenti di umiliazione e vergogna su quelli di colpa, in situazioni in cui predominano tensioni tra l’Io e l’Ideale dell’Io. Queste si creano quando interviene un processo di identificazione con i genitori che costituisce una sorta di resa del Sè: “essere” ciò che i genitori desiderano (per es. essere un bambino pulito, ordinato), piuttosto che “fare” ciò che essi chiedono (lavarsi, mettere in ordine). Ciò può portare ad una modificazione dell’Io ideale, con la inconscia perpetuazione di fantasie infantili di fusione che assicurano la partecipazione alla grandiosità e l’onnipotenza parentali. Si potrebbe aprire, a questo punto, la complessa questione della personalità “come sè”, del “falso sè”, delle difese di carattere, materia possibile di numerosi altri incontri.
Senza voler condividere in toto la posizione piuttosto estrema di Brenner (1991), che ritiene l’affetto depressivo far parte di ogni conflitto patologico, al pari dell’angoscia, sia che appaia in modo manifesto, in superficie, oppure nascosto nel profondo, dando ad esso una importanza fondamentale e causativa in tutti i casi di malattia mentale, e non soltanto in quel certo gruppo che porta l’etichetta di malattia depressiva o reazione depressivà resta tuttavia il fatto che le differenze tra i diversi tipi di depressione non appaiono essere sufficientemente spiegate nemmeno dalle minuziose e brillanti descrizioni psichiatriche che individuano diverse entità sindromiche a sè stanti, tanto che Tanzi e Lugaro (1914), come riporta Semi nel suo Trattato di Psicoanalisi, ritennero insostenibile la tesi kraepeliniana, allora dominante, di un processo morboso unico e definito, una malattia nel senso stretto della parola. Parliamo allora di depressioni al plurale, ed abbiamo il coraggio di affermare che nè la psicoanalisi, nè qualsiasi altra disciplina che si occupi di problemi psichici, a tutt’oggi ha risolto il problema della melanconia, nè che appare possibile “risolverlo in un’ottica riduzionistica” (Semi, 1989). A partire da Freud, nessuno psicoanalista ha mai avuto la pretesa di unificare le manifestazioni depressive sotto lo schema di un unico meccanismo. Ma si possono comunque individuare costruzioni di modelli che consentono di collocare i contributi di autori diversi in una griglia ragionata di conoscenze, in modo tale da utilizzare le convergenze come punti relativamente fermi, e le divergenze come spunti di riflessione per possibili nuovi modelli.
Motivi di spazio mi hanno indotto a tralasciare volutamente autori maggiormente conosciuti nell’ ambito di una buona cultura psichiatrica, come Spitz e Bowlby, i cui lavori godono peraltro recentemente di un rinnovato interesse, oltre che nell’ambito della terapia cognitiva, anche tra gli psicoanalisti (Blatt,1998). Spero tuttavia di aver dato sufficiente motivo di riflessione sulla importanza di evitare, nell’approccio al malato depresso, una diagnosi affrettata sulla base di schemi precostituiti o scale valutative applicate meccanicamente. Aprirsi all’ascolto non è materia specifica dello psicoanalista, ma una precisa necessità tecnica che lo psichiatra non può eludere senza rischiare di cadere in grossolani errori terapeutici e prescrizioni farmacologiche controproducenti.
Sappiamo per dolorosa esperienza quanto sia difficile e a volte disperante la relazione con il paziente depresso. Per nessuno psichiatra questo può risultare una novità, ma nella pratica ambulatoriale i tempi stretti, gli impegni istituzionali e una fiducia eccessiva nella taumaturgica intermediazione del farmaco possono portare a trascurare un dialogo che non ha solo il significato di una doverosa, umana attenzione e partecipazione alla sofferenza, ma deve costituire un insostituibile strumento diagnostico differenziale per poter impostare una corretta terapia.
Per lo psicoanalista nel suo studio come per lo psichiatra nell’ambulatorio, si tratta di attraversare l’angoscia del vuoto, condividendo così l’esperienza del nostro paziente, senza farci travolgere dalla collera o dalla disperazione perchè non riusciamo ad afferrare una verità assoluta che ci ripaghi dei nostri sforzi. Di volta in volta, osservare singolarità e differenze, ascoltare e cogliere nuovi nessi, senza inseguire a tutti i costi la conferma di una pretesa ortodossia che rassicuri il nostro narcisismo. Nessuno dei punti di vista teorici accennati pretende di esaurire il problema, ma di ognuno di essi dobbiamo per ora tenere conto, senza temere noi lo sconforto della impotenza e la rabbia della sconfitta, ma evitando la colpa della superficialità e della trascuratezza.