Seminario in collaborazione con AFPP, AMHPPIA, SIPP
sabato 19 Ottobre 2013
ore 9.00 – Sala del Giardino d’Inverno, Istituto Montedomini, Via de’ Malcontenti 6, Firenze
Introduzione di Nicoletta Collu (SIPP)
Intervengono Isabella Lapi (AFPP) e Antonella Sessarego (SPI)
Ronny Jaffé
Psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista. Membro Ordinario con funzioni di training della SPI e dell’IPA.
Già vice-presidente della Federazione Psicoanalitica Europea (F.E.P.)
E’ stato membro dell’Esecutivo del CMP e responsabile del Servizio Clinico.
E’ stato redattore della “Rivista di Psicoanalisi” Da quest’anno segretario del Comitato locale di Training della sezione milanese.
Oltre all’attività privata, ha lavorato per anni in Psichiatria e in servizi di neuro-psichiatria infantile con attività di consultazioni, di psicoterapie individuali e di gruppo (avendo avuto una formazione nel campo gruppale presso l’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo).
Da diversi anni fa parte di un gruppo di studio italo-inglese sul corpo ed è membro da di dieci di un gruppo di ricerca della FEP sulla consultazione.
Ha pubblicato, tra le altre cose, diversi lavori su temi relativi alla consultazione, al lavoro analitico con bambini ed adolescenti e al tema del gruppo. Ha presentato diversi lavori ai congressi della SPI; della FEP, dell’IPA su temi relativi al rapporto corpo-mente, sulla consultazione, sul rapporto individuo-gruppo, su temi di natura psico-sociale come il pregiudizio ed il razzismo.
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Testo della relazione di R.Jaffè, che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore
Quando due personalità si incontrano, si crea una tempesta emotiva. Se fanno sufficiente contatto da essere consapevoli l’una dell’altra, o anche dal non esserlo, dalla conduzione di questi due individui, si produce uno stato emotivo (Bion, 1989, 238)
PREMESSA
La psicoanalisi è confrontata con una questione epistemologica di base relativa al fatto che vi sono paradigmi teorico-clinici differenti: tali paradigmi sviluppano diversi approcci per affrontare le vicende cliniche a partire già dal primo incontro con un paziente.”
Ritengo necessaria questa premessa perché, nel mia relazione non farò riferimento diretto né alla funzione diagnostica, nè alla valutazione, nè al tema delle indicazioni e delle controindicazioni per una psicoanalisi, ma, come già indica il titolo, tratterò, attraverso la presentazione di materiale clinico discusso in un gruppo di colleghi, cosa significa per due soggetti (analista e potenziale analizzando), fino a quel momento sconosciuti, vivere un’esperienza psicoanalitica fin dal primo istante.
Secondo Odgen, Green e molti altri autori la funzione dell’analista non è tanto quella diagnostica ma considerare che un paziente che chiede aiuto è in una condizione di disagio esistenziale che necessita un cambiamento al suo stato di sofferenza. Solitamente il motivo che conduce un individuo a chiedere aiuto è collegabile al fatto che gli aspetti difensivi che hanno tenuto nel corso del tempo e nel rapporto con la vita reale vengono meno e compaiono le aree di malessere del suo mondo interno. Competenza dell’analista è quello di fare sentire che all’analizzando, che si è in due persone ad affrontare la sua condizione di sofferenza.
Cercherò di indicare, attraverso un caso clinico, se la funzione di questa esperienza psicoanalitica è un fattore che origina la possibilità di un successivo percorso analitico qualora ve ne sia la necessità.
Secondo quest’ottica, il nostro gruppo di ricerca WPIP della FEP in un lavoro pubblicato sul Bulletin della FEP (n 64, 2010, 63), ha messo a fuoco , tra il ventaglio di competenze dell’analista, specificatamente due di queste
1) favorire la possibilità di operare un cambio di livello (switching the level) che da una comunicazione manifesta vada in direzione di un discorso fondato sulle libere associazioni (Semi 2011, 61)
2) aprire un spazio a pensieri inediti e ad emozioni attraverso comunicazioni dell’analista che “tocchino il paziente” (Quinodoz) con un “ascolto rispettoso” (Nissim Momigliano) senza operare violenze interpretative o interventistiche avendo nella memoria il lavoro fondamentale di Piera Aulagnier “La violenza dell’interpretazione”.
ESPERIENZA PSICOANALITICA NEL PRIMO INCONTRO
Penso che una larga maggioranza degli psicoanalisti concordi con questa posizione mentre vi è una certa differenza di vertici circa il fatto se un primo colloquio è, ab origine, un’esperienza psicoanalitica oppure è un luogo con suo tempo specifico, contiguo ma diverso dall’eventuale e successivo processo di analisi, un luogo sul confine, per dirla con Racalbuto.
Vi sono autori come Klauber ed Odgen che non pongono alcuna differenza tra il primo incontro e l’eventuale successiva analisi “nel primo incontro l’analista non è né più né meno che un’analista, l’analizzando non è né più né meno che un analizzando”(Odgen, 173) ed il primo incontro è un incontro di analisi in “cui entrare in contatto con le emozioni inconsce” (Klauber, 61); altri autori invece come per esempio Bollas, Donnet, Racalbuto ritengono che il primo incontro ha un sua collocazione specifica che si differenzia dall’analisi successiva.
Mi sento più in sintonia con la prima opzione che cercherò di indicare durante la presentazione di un caso clinico, ma ritengo importante illustrare brevemente anche questa seconda opzione.
Racalbuto usa il termine di confine, riferito al primo incontro, perché è nel confine che “può nascere l’originario e può avere luogo il possibile inizio di un processo (63)” ma dove poi non vi è garanzia che questo confine si snodi nel vasto territorio dell’analisi soprattutto quando non vi sono le condizioni di una presa in carico.
Donnet ritiene, in modo pertinente, che una differenza tra il primo colloquio e l’analisi consiste nel fatto “che il setting non è ancora esplicitato e che l’elemento della temporalità” (Donnet, 127) ha connotazioni diverse. Le consultazioni sono circoscritte laddove il tempo dell’analisi tra i due soggetti è un elemento non conoscibile fino a quando essa non giunge a sua terminazione. D’altra parte, in linea con molti autori, ritiene fondamentale il coinvolgimento contratransferale (133): è un fattore che permette di accompagnare un analizzando verso l’analisi e favorisce il superamento di talune resistenze presenti in pazienti che affrontano per la prima volta il proprio disagio psicologico con qualcuno.
Se l’analista è l’oggetto dei sentimenti transferali del paziente ancora prima del primo incontro –Green usa il termine specifico di pre-transfert -, ricordiamoci che ciò vale anche per i primi abbozzi controtransferali dell’analista che certamente si costituirà delle fantasie sul paziente sulle prime tracce che questi gli fornisce. (voce al telefono, inviante e così via).
Anche Bollas ritiene che il controtransfert è un elemento fondamentale poiché questi è insito nell’autobiografia professionale dell’analista (Ambrosiano) e nella sua identità: quindi è inevitabile scrive Bollas che l’incontro con l’analista è un incontro con l’analisi. In modo più radicale Bollas scrive “essere analista significa essere in analisi (76). Ma se questo è vero per l’analista non lo è necessariamente per un eventuale analizzando: questi può possedere “una sorta di filogenetica pre-concezione della psicoanalisi” (78) che lo porta “a richiedere che l’altro –l’analista – sia trasformativo per liberarlo dalla sofferenza” (81); sarà poi l’analista nell’hic et nunc dell’incontro a realizzare il passaggio “dal mondo esterno al mondo psicoanalitico, dal discorso del quotidiano ad un discorso assolutamente unico e peculiare” (77) che crei spazio per l’intimità: “switching the level” (Reith)appunto. L’attraversamento di questo passaggio di livello può consentire l’accesso ad libera narrazione della propria storia personale, intessuta di ricordi, sogni, associazioni diversa da una cronistoria scevra di fantasie, affetti ed emozioni.
CAMBIO DI COMUNICAZIONE E REALIZZAZIONE NATURALE DI TURBOLENZE EMOTIVE
Se l’analista può adempiere a questo cambio possiamo osservare l’origine di una turbolenza emotiva che coinvolge entrambi i soggetti ma che è potenzialmente già in nuce ancora prima dell’incontro, come confermato dai numerosi casi su cui abbiamo lavorato in dettaglio per molti anni nel nostro gruppo.
Il pre-transfert, cui accennavo prima, è già intriso da cariche affettive, emotive e pulsionali che di primo acchito, nell’incontro, possono restate sopite e nascoste da resistenze e difese. Tutto queste spinte energetiche e contro-spinte difensive creano una pressione sull’analista, che può venire pervaso e affetto dall’insieme di queste forze: l’incontro con tali pressioni determina nell’analista l’emergere di affetti ed emozioni, di spinte pulsionali, di sensazioni regressive nonché l’inevitabile accensione della potenza degli stati e degli elementi controtransferali che prima dell’incontro potevano essere abbozzi pre-controtransferali e delle possibili contro-identifcazioni proiettive: l’insieme di questi elementi potrebbero portare ad impattare con l’analizzando attraverso enactment ed acting out.
“La combinazione di pensieri, istinti, emozioni, sensazioni e memorie (Bollas, 84) che sotto pelle l’analizzando trasferisce all’analista” sono geografie del sé che potranno venire visualizzate e comprese nel corso dell’eventuale analisi. Terremoti, maremoti, vulcani, isole, deserti, fuochi e ghiacci dell’analizzando si impatteranno con quelli che sono stati i corrispettivi dell’analista venendo a determinare quelle situazioni di turbolenza, che se adeguatamente vissute e monitorate dall’analista, possono originare inedite e creative nuove geografie.
Accogliere, metabolizzare e bonificare tali elementi è possibile grazie al lungo e profondo percorso svolto dall’analista nella sua propria analisi, strumento privilegiato per poter poi adeguatamente vivere il proprio contro transfert nell’incontro col paziente.
Di conseguenza questi impatti, queste turbolenze, queste tempeste
.che appartengono ai luoghi primari delle identificazioni primitive e basiche di entrambi i soggetti, non vanno demonizzate, anzi, fanno parte del nostro vivere quotidiano nella stanza d’analisi: quindi si tratta di viverle dentro di noi insieme all’altro ma capaci di agganciarci e stare a contatto con le nostre funzioni di natura più egoica tenendo saldi nella tempesta i timoni delle funzioni di contenimento, di terzietà, di riflessione, di capacità di rappresentazione sulle nostre turbolenze per arrivare a dare senso a quanto accade nell’analizzando, nell’analista, nell’incontro.
Talvolta l’analista è messo a dura prova con sé stesso quando non è in grado, ad attingere alla funzione di pensabilità e di rappresentazione soprattutto quando incontra pazienti gravi o entra in relazione con parti psicotiche del paziente: solitamente la funzione analitica collassa perché si è a contatto con zone che corrispondono all’irrappresentabile, a buchi, ai vuoti, agli stati di confusione e di frammentazione che dal paziente possono propagarsi e contagiare l’analista secondo meccanismi identificatori molto primitivi. Questo evenienza può essere marcata soprattutto se vi sono elementi di specularità e di corrispondenza tra parti del paziente e parti silenti ed oscurate nell’analista. Questi contatti tra parti che non riescono a dare accesso al pensiero, possono destare ansia nell’ analista: in queste situazioni conviene porsi in una posizione di sospensione in attesa di un pensiero che verrà; si tratta di fare appello a quella capacità negativa (Bion, Ferro) in cui “sgombrare la propria mente in attesa di un elemento che possa emergere come significativo, finchè si configura come fatto selezionato (Ferro, 261).
Diversamente lo stato d’ansia dell’analista nel tentativo di dare qualche risposta, dire qualcosa, appellarsi alle proprie teorie per confermare delle ipotesi può portarlo ad agire l’ansia attraverso enacment, acting-out, interventi fuori tempo e fuori luogo.
Ricordiamoci che già i pazienti che chiedono un primo incontro con un analista hanno sempre una certa quota d’ansia, una quota d’ansia che, a detta di Odgen, deve restare viva nel rapporto con l’analista in quanto è in essa implicita una spinta vitale nel prendersi carico della propria sofferenza, una quota d’ansia che si canalizzerà nei confronti dell’analista; quest’ultimo non ha da sopirla, ma deve attraversarla e viverla come si fa con le turbolenze;d’altra parte egli non deve consentire che essa si espanda e si propaghi in uno stato di angoscia; questo rischio e questa evenienza solitamente avviene quando la funzione di contenimento dell’analista si collassa in preda alla sua stessa ansia che impatta con quella del paziente: quindi il primo incontro (a questo punto direi l’ultimo) si trasforma in un crollo, o in una rottura o in’esplosione del contenitore. (-Tk e –To). Si tratta di situazioni e fasi molti difficili che implicano il fatto, come sostiene Racalbuto che “non è vero che c’è sempre una coppia al lavoro. Talvolta l’analista si può trovare da solo” (69)in presenza dell’analizzando: penso che trovarsi nella presenza assente, vuota o confusionale dell’altro sia davvero un’ esperienza angosciante che cimenta duramente l’analista a tenere vive le proprie funzioni.
FARE SPAZIO E FUNZIONE TRASFORMATIVA
Bolognini in modo evocativo e efficace fa riferimento al fatto che dobbiamo concepire il primo incontro anche nei termini di un vuoto aspirato- “aspirated vacuum” (151); in queste condizioni di vuoto – ma anche di troppo pieno e confuso – una delle nostre funzioni più utili è quella recettiva e “concava” in antitesi ad posizione convessa (ibd.)
Fare spazio al vuoto, al pieno, alla confusione – mi riferisco qui agli aspetti più difficili della comunicazione – consente di attingere ai nostri pensieri narrativi sul paziente, su quanto proviamo per lui, su quanto sta accadendo nella relazione per mettere in circolo ed in moto elementi dotati di senso e di pensiero. si tratta di una rigorosa libertà, esito del lavoro combinato di setting e di attenzione fluttuante , che ci permette di accogliere nella nostra mente quei pertinenti canali identificatori di natura inconscia ed opportune qualità empatiche che appartengono maggiormente al mondo del conscio e del preconscio.(Bolognini 154).
Secondo me non è solo fatica o cimento, ma vi è anche un piacere, una sfida nel poter operare un passaggio, una trasformazione per restituire al paziente un desiderio di vivere e di fare esistere le proprie emozioni ed i propri affetti. E’ il piacere del dialogo con il mondo dell’inconscio ed il desiderio di trasmettere al paziente il piacere di dialogare con il suo inconscio, con il non conosciuto dove solitamente si situa e si annida la sofferenza ma spesso anche il piacere punito, rimosso, scisso.
Si tratta di attingere a quel” sapere libidico-emotivo” (Racalbuto 60) e a quella spinta epistemofilica di cui ogni analista dovrebbe essere corredato.
La curiosità e la spinta alla conoscenza tuttavia non può essere invadente ed intrusiva alla ricerca di un significato a qualunque costo. Ricordiamoci come dice Bollas che “il discorso di un paziente non può che rappresentare la frazione di un dialogo interno” (84) che emerge come punta di una vita che si è costituita nel corso del tempo; di conseguenza sarebbe una pretesa onnipotente volere già restituire un discorso compiuto e finito del paziente in un primo incontro.
E non vi è soltanto il linguaggio delle parole, vi è anche il linguaggio della sensorialità. Gli indicatori di un malessere vanno oltre le parole per entrare a contatto con movimenti ed aspetti del corpo come un lieve arrossamento, un irrigidimento della postura, un impercettibile balbettio, una sudorazione, un sorriso, nuclei, fili, frammenti della polisemia inconscia che va al di là della rappresentazione ma che può condurre verso la rappresentazione. Ed anche il corpo dell’analista si presenta e parla attraverso ombre ed aperture del volto, sorrisi autentici ma talvolta seduttivi, retro-azioni che mettono distanza ed avvicinamenti troppo vicini.
Dobbiamo essere quindi consapevoli di quanto il nostro corpo parla all’analizzando che incontriamo la prima volta.