Andrea Marzi
Commento a La stanza profonda.
Romanzo di Vanni Santoni
Laterza Solaris, Bari, 2017
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Sono molti i pensieri e gli stati d’animo che sorgono alla lettura di questo nuovo libro di Vanni Santoni. Ci sarebbero molte cose da dire anche sul piano strettamente letterario, ma ragioni di spazio e “di incarico” mi inducono a focalizzare l’attenzione su aspetti che generino qualche riflessione psicoanalitica.
Ci sono due caratteristiche che mi hanno colpito subito: la prima riguarda la (ri)scoperta di una condizione ludico-immersiva ante litteram che emerge dai Giochi di Ruolo (GDR) a tavolino e che si espanderà esponenzialmente coi videogiochi, a testimonianza che immersione, personaggi fittizi, avatar e via dicendo non sono sorti dal nulla in Internet, bensì si radicano in esperienze precedenti e si trasformano acquisendo dimensioni via e via preponderanti nel tempo. Il videogioco (o condizioni simili che richiedano immersività in ambienti digitali) incrementa e macropantografa quindi caratteristiche già esistenti. Le facce concentrate sulla possibilità di tessere un mondo che possa esistere “nello spazio mentale condiviso” fa riflettere proprio sul continuum tra GDR e ludicità digitale, tra il contatto di menti del GDR e quello esistente nella virtualità. Ancora una volta siamo invitati con forza a riflettere sulla relazione che intercorre tra spazio mentale e spazio virtuale, e su quanto di potenzialità (secondo l’accezione di Winnicott, per esempio) possa esistere in questi spazi, ampliabili come volumi o riducibili a mera mono o bidimensionalità, con gravi conseguenze psicopatologiche. Per inciso, il libro non è facile da seguire negli innumerevoli dettagli sui Giochi, a partire dai nomi. C’è bisogno di conoscere preventivamente tutto questo mondo, averlo un po’ frequentato, oppure vissuto attraverso i figli che, crescendo, hanno giocato così, poi sono passati alle Magic, poi ai videogiochi.
La seconda è una suggestione ambientale: l’ambientazione nel Valdarno risuona storicamente ed emotivamente in me con memorie rigogliose su fatti, luoghi, ambienti di una parte del mio passato remoto, inducendo emozioni e stati d’animo.
Ecco, mi pare che in effetti la memoria, il fluire del tempo dal passato al presente siano caratteristiche fondanti il libro: memoria, flash mnestici da elementi parafigurativi elencati, luoghi, volti, personaggi, ambienti che si rincorrono e ritornano sempre in un luogo sentito come ancestrale: la stanza profonda, vivibile a piacimento come ambiente del profondo in varie fogge. Le prime pagine sono in questo senso evocative, e si dipanano come una carrellata quasi semivisiva, di certo non schiettamente o puramente verbale. Anche il linguaggio del libro spesso somiglia a quello dei video, ai rapper, evocativo, con pennellate in successione che qua e là mi hanno addirittura ricordato quelle, lontane, di Canzone per l’estate di De André, con quell’uso programmatico della seconda persona singolare rivolto al protagonista che è davvero una sorta di perdurante Avatar dell’Autore.
Del resto nel libro risuona anche il Paolo Di Paolo di Dove eravate tutti, nello stile e nel contenuto. Aleggia anche il fantasma di Amarcord, mi sembra, giocato nella nota ripetuta del GDR, ombelico del mondo, luogo metafora, matrice per simbolizzazioni diversificate, ambiente dove i pre-Avatar da tavolo si incontrano, giocano, resistono forse, si oppongono ad un esterno che non riconoscono più e che non li riconosce.
Disincanto? Sì, di sicuro, ma anche affiorante disperazione, magari solo parzialmente consapevole. La Madeleine proustiana versione provincia, fattasi dado da lanciare, invece che infrangere notti insonni con l’apertura di mondi nel tempo, genera un vuoto che non è comprensibile, che spiazza e stranisce. I luoghi diventano privi di una pienezza precedente, riempiti magari da extracomunitari cui niente può dire niente, essendone estranei per storia ed esperienza: “la Collegiata non dice niente”, sottolinea Santoni, con aggravio di decentramento e di angoscia. Insieme con Santoni rivedevo tutti quei luoghi conosciuti e anche io vivevo un’immersività profonda, non nuova come quella offerta dal digitale, bensì antica, insieme con un senso di desolazione e di perenne smarrimento, di impossibilità di riconoscimento del conosciuto. Un perturbante dove il ritorno del già noto è tutto interiore, perché l’esterno è trasformato o perso. Qui si viene risucchiati dalla parola scritta del romanzo partecipando al mondo dello scrittore, risuonando con lui, dialogando con lui: su tutto questo la psicoanalisi, si sa, ha potuto offrire contributi rilevanti.
Questi momenti psicologici ed esistenziali, che nel romanzo realizzano un deciso controcanto rispetto al gioco, per molto tempo denso di significato o creduto forse tale, avrebbero forse meritato un maggiore approfondimento, un tessitura drammatica più scavante, un pipe-line riflessivo che invece si arresta, lascia solo alcune pennellate, certo formidabili. Fortemente risonante è il senso perciò di una incisiva perdita di senso, una perdita che sembra non avere sostituzione, che fa germinare un sentimento di inutilità e di insinuante disperazione e che trova in alcune pagine un riscontro intenso. La centralità di questi temi, tanto densi da poter sviluppare un corposo contenuto dalle valenze ampie e multiformi (storiche, politiche, antropologiche e via dicendo), talora rimane appunto allo stato di enunciazione, talvolta diluendosi nella dimensione di provincia. Nasce qui un pericolo sempre presente nelle produzioni toscane (letterarie o cinemtografiche che siano): quello del bozzettismo. Santoni lo evita il più delle volte, ma non sempre. E’ un terreno scivoloso dove molte creazioni artistiche degli ultimi 50 anni sono cadute, affogando in una palude francamente insopportabile (vedi per es. molti film della “generazione toscana”, o le innumerevoli commedie vernacolari che affliggono i programmi delle televisioni private stralocali).
Si capisce quanto questi temi siano centrali: la carrellata sull’esistenzialità diacronica che si snocciola facendo perno sul GDR e suoi sviluppi; la memoria storica del sorgere e tramontare di epoche e ambienti; l’affiancamento o la sostituzione di familiarità pregresse con nuove presenze solo apparentemente integrate, ma in realtà insediatesi in luoghi di inappartenenza esistenziale e storica causate dalle migrazioni drammatiche figlie di guerre, carestie, ma soprattutto di globalizzazioni spesso utili solo al capitale e non all’uomo.
I registri emotivi e di pensiero si dipanano e si sovrappongono, e così accade per i vari stati d’animo del lettore. La stanza profonda è perciò un luogo interpretabile e fruibile in molti modi, non solo con la fin troppo facile accezione di una profondità psichica attribuibile, di scuola, alla mente, alla madre ancestrale, a profondità uterine prenatali e via dicendo: tutto vero e accettabile, ma la stanza profonda, coi suoi personaggi, gli oggetti, i ragni, la droga, i mille documenti del gioco, è, nonostante il sovraffollamento, una sorta di tabula rasa che si offre al singolo lettore per una fruizione psichica personale, individuale. Anche nella conclusione tronca dell’ultima partita, invasa dall’ariete inaspettato dei Carabinieri in cerca di chissà che droga. Nulla si sa del prosieguo, come a dire che alla fine c’è una continuazione, o una circolarità di eventi che sembrano non avere più sbocco se non nella definitiva abolizione del GDR stesso, nella presa d’atto o di coscienza che esiste la conclusione definitiva.
Qui forse è dato ipotizzare che, se esiste un sogno dell’Autore che si spalma lungo tutto il racconto, esso si possa dispiegare proprio riguardo alla dimensione dell’addio necessario, dove l’arrivo delle Forze dell’Ordine sta a testimoniare un potente invito al comprendere che continuare per una certa strada è come drogarsi di essa invece che nutrirsi con adeguatezza e piacere.
E’ in quest’ottica che si riesce a accettare meglio l’assunzione del GDR a metafora dello sviluppo del mondo o dello sviluppo umano: rappresentazione eccessiva, in fondo, se lasciata a una metaforizzazione universale, acquista una verità più solida e corposa se assume una dimensione più intima e personale, se lascia spazio proprio alla dimensione corale intrisa di una sorta di rito di passaggio denso di significati multiformi e di conseguenze: Santoni sottolinea tutto questo col pennarello della scrittura e della trama, distribuendo nei personaggi che mette in campo mille modi di esperire e di sentire.
Verso la conclusione del romanzo Santoni rivela uno dei significati centrali della stanza profonda: “Chiudersi e produrre senso proprio perché fuori ce n’era sempre meno” (P.131). E come in conseguenza di questo, la stanza è il luogo di ibridazione del virtuale col reale, di sovrapposizione e forse di indistinzione, dove il reale sembra naufragare nella narrazione postmoderna, denaturando il terreno della pura fantasia. E’ un altro dei nodi centrali del romanzo, che lancia verso riflessioni “a più mani” intorno a uno dei fenomeni più insidiosi che vediamo prendere campo sia nel singolo che nel contesto sociale dell’attualità: in termini Bioniani, lo si potrebbe pensare come una sempre più difficile genesi della barriera di contatto, a tutto vantaggio forse dell’inversione della funzione α fino alla formazione dello schermo di elementi β.