Testo presentato ai SEMINARI CLINICI 2006 DEL CENTRO PSICOANALITICO DI FIRENZE sul CONTROTRANSFERT
Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”, Via S. Egidio 23/1 Firenze – Sabato 25 febbraio 2006
Oggi credo e in un certo senso spero di deludervi, perché penso che molte delle cose che dirò siano scontate. Studiamo tutti da parecchi anni la nostra psicoanalisi e dunque, fortunatamente, abbiamo alle spalle letture e studi in una certa parte comuni – soprattutto nella parte freudiana. Ma la delusione può venire anche da un’altra fonte, perché penso anche che la teoria freudiana del transfert sia di per sé una teoria che si colloca – per usare un luogo comune freudiano – al di là del principio di piacere, ossia che si tratti di una teoria insoddisfacente, in tutti i sensi. Da ogni teoria, in fondo, ci attendiamo un qualche appagamento di desiderio, ci attendiamo che si introduca chiarezza là dove c’era oscurità, coerenza là dov’era disordine e così via, fino anche ad accontentarci di una maggiore chiarezza nel porre il problema, nel suscitare interrogativi, nel chiarire i termini. Ma la teoria freudiana del transfert è, ahinoi, una teoria insoddisfacente e vedremo se, più specificamente, almeno ci si dia la possibilità di mettere in luce gli elementi della insoddisfazione. Sarebbe già qualcosa.
Del resto, scrivere e parlare del transfert è quanto di più difficile ma anche quanto di più quotidiano ci possa essere per uno psicoanalista. Del transfert, infatti, sembra proprio che non riusciamo a fare a meno di parlare, tant’è che, se si consulta la bibliografia o anche l’immancabile rassegna su “Google”, si trovano milioni di pagine (11.800.000 al 6 gennaio 2006 alla voce “transfert” ma saltando Uebertragung o transference etc.). Eppure moltissime di queste pagine sono dedicate, oltre che alle cose più stravaganti, anche alla difficoltà di affrontare e comprendere il transfert oppure ne sono la testimonianza. Perché il transfert, benché all’apparenza conosciutissimo in quanto fenomeno generale, costituisce un grattacapo costante per gli psicoanalisti, sia nel lavoro clinico sia in quello – altrettanto necessario – teorico, ai diversi livelli in cui si articolano le nostre teorie. E dunque figurarsi per gli altri.
Nessuna meraviglia, dunque, che abbia costituito un notevole grattacapo per Sigmund Freud, che per primo andava elaborando la scoperta, una comprensione clinica ed una teorizzazione del fenomeno. E che non poteva che fare tutte le tre cose insieme.
Io credo che, se consideriamo oggigiorno l’opera di Freud, possiamo osservare nel loro divenire queste tre fasi concomitanti del lavoro psicoanalitico ma ben sapendo che stiamo facendo un’operazione che ha un valore euristico e necessariamente transitorio: la realtà psichica, che poi non ci fa mai sconti, è quella di una contemporaneità e reciproca interdipendenza di queste tre fasi – sia a livello inconscio sia a quello conscio.
Per me è importante sottolinearlo, perché in questa relazione segnalerò anche il particolarissimo ruolo che il controtransfert ha nell’ottica freudiana e – lo anticipo qui ma lo spiegherò in seguito – il fatto che ogni teoria psicoanalitica, così com’è una teoria sessuale, sia anche una teoria transferale.
Proprio perché ho questo scopo particolare, dei tre momenti – scoperta, comprensione clinica, teorizzazione – su indicati sceglierò come principale quello della teorizzazione, essendo la teorizzazione una attività che appartiene al sistema conscio del pensiero e che ha molti livelli, che vanno dalla “semplice” descrizione alle formulazioni più astratte, nel nostro caso quelle della metapsicologia, ma e soprattutto essendo la teorizzazione una attività che è implicata qui e ora, tra me e voi. Convenzionalmente, qui e ora parliamo di concetti, idee, affetti, parliamo di opinioni variamente organizzate, di pensieri a diversi livelli di astrazione ma non parliamo dell’hic et nunc e dei fenomeni di transfert tra noi, perché, se lo facessimo, cadremmo inevitabilmente in una situazione caotica. Ne teniamo conto, sappiamo che ci sono, ma parliamo a livello dello scambio conscio.
Com’è noto, Freud si è soffermato spesso sul problema della teoria e, in modo più specifico, nell’inizio del saggio su Pulsioni e loro destini. In questo saggio, Freud constata come già nell’ambito descrittivo non si possa fare a meno di applicare al materiale delle idee astratte, le quali – egli nota – sono ricavate da qualche parte e non certo solo dalla nuova esperienza. Queste idee, queste idee astratte che non derivano dalla nuova esperienza (cosciente e non solo), diventano i concetti fondamentali di una scienza. Si tratta di idee che hanno un carattere convenzionale ma che “non sono scelte arbitrariamente, ma sono stabilite attraverso relazioni significative con il materiale empirico, relazioni che si suppone di indovinare prima ancora di poterle conoscere e dimostrare”. Dunque relazioni significative ma indovinate, stabilite tra elementi dell’esperienza e idee astratte che non si sa esattamente da dove vengano. Se ci pensiamo un attimo, ci accorgiamo che questa descrizione iniziale di Freud è sovrapponibile alla descrizione di un fenomeno di transfert: c’è una nuova esperienza – nella clinica – e ci sono delle idee astratte che ci vengono lì per lì in seduta: indovinare le relazioni tra queste idee e l’esperienza in corso significa comprendere il transfert. Ma, appunto, notiamo che qui Freud sta invece parlando della costruzione delle teoria.
Naturalmente, non appena facciamo questa osservazione, ci viene da chiederci se la teoria in sé stessa non sia qualcosa che testimonia della irresolvibilità del transfert o, ancora prima, se la teoria non rappresenti alla coscienza dell’analista quel che manca alla sua esperienza conscia. Ma qui si dovrebbe arrivare alla fine di questa relazione, saltando i passaggi intermedi, perché ci si potrebbe chiedere d’emblée se in questo caso di transfert o di controtransfert si tratta e, in quest’ultimo caso, di che tipo di controtransfert; nel primo caso, invece, quello del transfert, ci si può chiedere di chi sia questo transfert. Riprenderò dunque questi interrogativi alla fine.
Iniziamo ora, con queste premesse, a vedere come il concetto di traslazione si sia man mano formato nel pensiero di Freud in due modi: per restrizione e per allargamento.
Per restrizione, innanzitutto, da concetti generalissimi come quelli di spostamento e di trasferimento, per allargamento poi, quando l’esperienza del transfert, resa anche possibile dalle rappresentazioni ausiliarie che man mano erano state elaborate, ne dimostrava la pressocché ubiquitaria presenza, anche se in forme mascherate e di difficile riconoscimento.
Mi soffermo un attimo sulla questione della restrizione, perché mi sembra che possa mostrare quello che è un criterio economico (discendente forse dalla conoscenza del “rasoio di Occam”) seguito da Freud costantemente. Se era possibile, egli non aggiungeva nuovi concetti, tendendo piuttosto a rimodellare i precedenti, a trasformarli, a riciclarli – il che, detto tra parentesi, può essere stato un criterio utile ma non ci ha reso la vita facile. Ora, un concetto fondamentale nella teoresi freudiana – che si può documentare a partire dal “Progetto” e dalle lettere di quel periodo a Fliess – è quello della mobilità psichica e della trasferibilità delle cariche energetiche (a livello inconscio) da una rappresentazione ad un’altra o, più ampiamente, da un sistema ad un altro. Così come, ad un altro livello topico, è un concetto fondamentale quello della trasferibilità di un affetto da una rappresentazione ad un’altra.
Intendo dire che il processo di trasferibilità psichica è un processo fondamentale per Freud e che, all’interno delle varie costruzioni teoriche, essa ha sempre uno spazio adeguato. Che si tratti dello spostamento lungo catene di rappresentazioni fino a stabilire una distanza dal nucleo rimosso tale da ingannare la censura e da poter guadagnare l’accesso al preconscio o che si tratti di garantire un criterio di energia mobile in un sistema e di spiegare quando e come questa energia viene legata o ancora che si tratti del processo percettivo e del passaggio dei suoi derivati attraverso i vari sistemi o le varie istanze, sempre l’elemento di base a volte implicito più spesso esplicito è quello della mobilità e della trasferibilità delle cariche energetiche, così come del cambiamento di significato assunto da rappresentazioni a seguito di un differente investimento o di un particolare collegamento che si viene a stabilire in una qualche regione psichica o ancora del cambiamento di statuto che una rappresentazione ha nel passare da un sistema all’altro o, infine ma non meno importante, della mobilità delle relazioni – cioè di un elemento puramente psichico – che vengono istituite nell’apparato psichico tra catene di rappresentazioni diverse.
Questa idea della mobilità e della trasferibilità viene man mano specificata e dettagliata, in modo da spiegare ora la genesi del sintomo isterico ora la costituzione di una fobia, ora la comparsa di una crisi d’angoscia. E in questo senso, mentre alle spalle rimane il criterio generalissimo della mobilità, man mano si restringe il concetto applicandolo a situazioni delimitate chea loro volta lo delimitano. E, ovviamente, l’idea della mobilità possibile è alla base del metodo delle libere associazioni.
Non ci sarebbero grossi guai se non comparisse dell’altro: il transfert appunto. Specificare – cioè costruire una specificità del come avvenga quello specifico trasferimento che chiamiamo transfert non è affatto semplice. Certo, si può pensare che, come avviene nella fobia, uno spostamento progressivo lungo catene di rappresentazioni inconsce tra loro collegate consenta di costituire un oggetto intrapsichico che può successivamente essere “accolto” in qualche modo nel preconscio o che può essere dall’inconscio direttamente proiettato all’esterno, su un oggetto – che può essere l’analista – idoneo a raffigurare nella realtà esterna la tendenza libidica o aggressiva interiore. Ma il problema che si pone – e che non è un problema solo teorico ma anche tecnico – deriva dal fatto che, proprio mentre si deve supporre e salvare un concetto di mobilità psichica, bisogna giocoforza ammettere che qui la mobilità è saltata e che qualcosa di stabile e di violentemente contrario ad ogni mutamento si è manifestato: non solo, ma che non vuole mollare la presa e solo si adatta ad ogni oggetto significativo per potersi esprimere.
Mentre le interruzioni o le deviazioni delle catene associative possono essere per così dire microscopicamente analizzate pezzetto per pezzetto, qui ci troviamo di fronte ad un blocco, un tutto unico, che certamente può apparire per particolari ma che induce anche il senso di una globalità.
E il problema della mobilità-immobilità del transfert è inquietante. Tutti sappiamo gli interrogativi che tutti ci siamo posti sulla fine analisi e sulla possibilità o meno di superare il transfert: lo si può “liquidare”, risolvere, superare appunto o invece bisogna arrendersi anche al fatto che si tratta di un fenomeno i cui contenuti sono in qualche misura, spesso ampia, modificabili ma che di per sé è irresolubile?
O bisogna addirittura pensare che “questo” transfert, cioè quello sorto in occasione di una determinata analisi, costituisca qualcosa di fondamentalmente non superabile perché ha permesso un possesso dell’oggetto (psichico) che in precedenza non era stato consentito? E che allora sia difficile ricondurre l’hic et nunc all’alibi et tunc per il semplice fatto che – prima – quest’esperienza non era stata per nulla concepibile (e dico qui concepibile nel senso di “inconsciamente concepibile”)? E che però si tratti di un’esperienza non liquidabile?
Come vedete, sto ponendo una serie di interrogativi che attraversano la storia della psicoanalisi e che sono stati variamente risolti. Avete sentito che, dentro, c’è la questione della mobilità ma anche quella della pulsione di impossessamento, che c’è la questione della relazione ma anche quella della pulsione. E che il transfert è, in questo senso, un “guaio”, una difficoltà, documentata dalla stessa ampiezza della letteratura al riguardo.
Per ritornare a Freud, il “guaio” del transfert appare nei primi casi clinici e – segnatamente – in quello di Dora. Nel quarto capitolo del caso di Dora, il Poscritto, Freud si sofferma sul transfert non analizzato di Dora su di lui, afferma che “questa parte del lavoro è decisamente la più difficile” (p.397) sottolinea che “la traslazione dev’essere intuita dal medico senza l’aiuto del malato, sulla base di piccoli indizi e guardandosi dai giudizi arbitrari” (ibid.) [1] e ricorda che comunque il transfert c’è, in tutti i trattamenti medici ed anche in quelli ipnotici e che dunque la psicoanalisi non lo crea, ma si limita a scoprirlo. Fino alla frase famosa per cui “La traslazione, destinata a divenire il più grave ostacolo per la psicoanalisi [ecco qui il “guaio”!], diviene il suo migliore alleato se si riesce ogni volta ad intuirla e a tradurne il senso al malato” (p.398). Freud letteralmente dice “sie jedesmal zu erraten”, cioè se si riesce ogni volta ad indovinarla [2].
Se facciamo un salto di qualche anno, da Dora agli scritti tecnici, vediamo che la consapevolezza del fenomeno del transfert si era acuita nel frattempo fino ad indurre in Freud una particolarissima precauzione: nel saggio sull’Inizio del trattamento (1913) che fa parte dei Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi (1913-14) Freud scrive che “Lunghe conversazioni preliminari prima dell’inizio del trattamento analitico […] hanno particolari conseguenze sfavorevoli alle quali bisogna essere preparati. Queste situazioni fanno infatti sì – aggiunge Freud – che il paziente si ponga di fronte al medico in un atteggiamento di traslazione già definito, atteggiamento che il medico è costretto a scoprire soltanto lentamente, anziché avere l’opportunità di osservare il crescere e il divenire della traslazione fin dal suo inizio. In tal modo il paziente ha per un certo tempo un vantaggio sul medico che solo a malincuore gli è concesso durante la cura.” (OSF, VII, p.335). Il passo citato mette in evidenza da un lato la differenza tra nevrosi conclamata di transfert e fenomeni di transfert (è a questi che si riferisce Freud), dall’altro il fatto che questi iniziano subito e che – per via del metodo psicoanalitico – l’analista può scoprirli solo più tardi. Ancora una volta il transfert non controllabile o comprensibile viene visto come un guaio e – di più – come un “vantaggio” che il paziente acquisisce. Dove sta il vantaggio del paziente? Vedremo che, nella concezione del transfert che Freud man mano sviluppa, esso si situa – paradossalmente – nell’analista, che diventa per così dire e anche senza voler drammatizzare troppo le cose, preda del paziente.
Ma questo passo mette in evidenza, per noi, l’altro aspetto dell’elaborazione del concetto, quello dell’allargamento. Una volta scoperto, il transfert si trova dappertutto, ab initio , ma il problema è quello di poterlo giocare senza esserne giocati, come amava dire un mio maestro, il professor Sacerdoti. Anche su questa faccenda dell’allargamento, ovviamente, ci sarebbe molto da dire, nel senso che non solo il concetto di transfert si è allargato nell’opera e nell’esperienza clinica di Freud, ma questo movimento è continuato in tutta la storia della psicoanalisi, tanto da fare passare in secondo piano per importanza la questione delle libere associazioni. E questo è un effetto del transfert, come vedremo più avanti e come sostiene anche, ad esempio, Anton Kris [3] . Ossia si ribalta sulla teoria della tecnica una difficoltà che Freud segnala – senza risolverla – fin dall’inizio: il transfert blocca le libere associazioni e sembra che anche la teoria del transfert blocchi la teoria delle libere associazioni. Di fatto, oggi il dibattito e la ricerca sul metodo delle libere associazioni è almeno quantitativamente minoritario rispetto al dibattito ed alla ricerca sul transfert.
Torniamo allora alla questione transfert tra stabilità e mobilità. La possibilità di quest’ultima (o del ripristino di quest’ultima) è, evidentemente, alla base del metodo delle libere associazioni e il metodo interpretativo dovrebbe consentire una mobilità intersistemica (e poi anche strutturale) sempre maggiore. Ebbene: proprio la stabilità del transfert tende a interferire con questa possibile mobilità. In effetti, il problema della compatibilità del transfert e del metodo psicoanalitico si pone poi in tutti gli scritti tecnici freudiani e il problema della risolvibilità del transfert – che è connesso come notavo sopra, a quello della fine analisi – attraversa tutta la letteratura contemporanea, con le differenti opzioni man mano elaborate da gruppi diversi di analisti, opzioni che vanno nella pratica dal mantenimento delle regole tecniche del metodo psicoanalitico fino a mutamenti pratici non indifferenti (come la self-disclosure) e che hanno, ovviamente, i loro corrispettivi teorici.
Ma qui volevo sottolineare il pezzo subito seguente a quello che vi avevo letto prima dal caso di Dora, perché ci riguarda da vicino: “Dovevo parlare della traslazione – scrive Freud – perché solo con questo fattore posso spiegare le particolarità dell’analisi di Dora. Ciò che costituisce la principale caratteristica di quest’analisi e che la rende adatta per una prima pubblicazione introduttiva, la sua particolare chiarezza, è in stretto rapporto con il suo grave difetto, quello che ne causò l’interruzione prematura. Non riuscii a rendermi tempestivamente padrone della traslazione; la prontezza con cui la paziente mise durante la cura a mia disposizione una parte del materiale patogeno, distolse la mia attenzione dai primi segni della traslazione ch’ella andava preparando con un’altra parte del materiale, a me ancora ignota.” (p.398, corsivo mio).
E’ un’affermazione particolarmente importante, perché qui Freud segnala come l’elaborazione teorico-clinica sia in stretto rapporto con un grave difetto della comprensione clinica, in questo caso addirittura con ciò che ne ha causato l’interruzione. Beninteso: ogni scrittura di un caso clinico è sempre parziale e il fatto che qui la comprensione di una parte del materiale sia consentita dal fatto che essa, nel suo insieme, è servita come copertura o resistenza contro un’altra parte del materiale non diminuisce di per sé il valore euristico della elaborazione praticamente effettuata.
Però, dal punto di vista psicoanalitico, significa anche che il transfert ha funzionato “a vantaggio” (molto tra virgolette) della paziente ma dentro Freud. Lo stesso Freud che poi ha scritto il saggio sul caso di Dora. Ossia che questa scrittura, con la particolare chiarezza dell’analisi del materiale esposto, è ancora una scrittura transferale, un modo per cercare di elaborare una situazione nella quale, si potrebbe dire, chi spinge a scrivere è Dora.
Il fatto è che il transfert è, per Freud, un fenomeno inconscio e, certo, la nevrosi di transfert, nella misura in cui delle propaggini dell’inconscio conquistano il diritto di accesso al preconscio e a volte anche alla coscienza, è anche uno strumento di rivelazione, ma, sostanzialmente, la massima parte del transfert e della nevrosi di transfert resta inconscia. Tanto più questa affermazione va tenuta in debito conto, se si considera che gli atteggiamenti coscienti del paziente o le letture per analogia del materiale coscientemente fornito dal paziente costituiscono materiale di dubbio valore, eccessivamente passato attraverso la elaborazione secondaria, nel primo caso del solo paziente, nel secondo – quello della lettura per analogia – del paziente e dell’analista. Proprio perciò “La traslazione – riprendo il passo di Freud citato prima – dev’essere intuita dal medico senza l’aiuto del malato, sulla base di piccoli indizi e guardandosi dai giudizi arbitrari”, essendo i giudizi arbitrari massimamente possibili allorché si tratta di indovinare [4].
Ma, sulla collocazione topica del transfert, bisogna aggiungere che la collocazione inconscia è duplice: nel paziente e nell’analista.
Le preoccupazioni tecniche, teoriche e cliniche di Freud a questo proposito si vedono chiaramente, oltre che in Dinamica della traslazione (1912) nello scritto Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico (1912) e nelle Osservazioni sull’amore di traslazione di due anni dopo. E’ particolarmente interessante, a mio avviso e per lo scopo di oggi, lo scritto sui “consigli al medico” perché qui Freud parla dell’analista e formula nel modo più chiaro la regola dell’attenzione fluttuante. Come ricorderete, nel § f, Freud stabilisce la necessità dell’analisi personale dell’analista proprio perché l’analista deve potersi servire dell’inconscio. Subito prima, aveva sviluppato il paragone con il telefono. L’analista, scriveva, “deve disporsi rispetto all’analizzato come il ricevitore del telefono rispetto al microfono trasmittente. Come il ricevitore ritrasforma in onde sonore le oscillazioni elettriche della linea telefonica che erano state prodotte da onde sonore, così l’inconscio del medico è capace di ristabilire a partire dai derivati dell’inconscio che gli sono stati comunicati, questo stesso inconscio che ha determinato le associazioni del malato” (OSF, VI, p.536-7, corsivi miei). A parte il valore per così dire antilacaniano di questo passo, che afferma che il linguaggio è strutturato come l’inconscio e non viceversa, possiamo forse sorridere, oggi, dell’ottimismo freudiano rispetto alla possibilità che la “purificazione psicoanalitica” [5] consenta che questo passaggio avvenga senza eccessive distorsioni, ma prima di farlo è meglio riflettere sulla collocazione inconscia – nell’inconscio dell’analista – di materiali inconsci del paziente.
Che significa dire che “l’inconscio del medico” è capace di ristabilire lo stesso inconscio che ha determinato le associazioni del malato? Certo non è pensabile che si costituiscano sacche inconsce dedicate ad un paziente o ad un altro, un pò come le ampolle delle anime nella luna dell’Ariosto. A meno che l’analista non abbia gravi, veramente patologiche resistenze. E’ più pensabile viceversa che d’abitudine l’iceberg [6] la cui punta è costituita dalla comunicazione percepibile coscientemente entri direttamente nell’analista e lì dispieghi i suoi effetti inconsci utilizzando anche il materiale rappresentativo, le dinamiche e l’energia pulsionale dell’analista. In questo senso, chi pensa nell’inconscio dell’analista è il paziente, anche se attraverso le forme dell’analista e l’analista si trova nella curiosa situazione di ospitare qualcuno che lo fa pensare e, nello stesso tempo, di dover rendersi conto di “essere pensato” e di dover osservare il proprio inconscio come espressione del pensiero di un altro.
Anche a questo proposito Freud non manca di fare un’osservazione sulla teoria: se l’analista non riesce a districare quanto è del paziente e quanto è dei propri conflitti inconsci irrisolti, “egli cadrà facilmente nella tentazione di proiettare nella scienza, sotto forma di teoria universalmente valida, quanto egli, in un’opaca autopercezione, riconosce delle peculiarità della propria persona” (p.538) [7]. Come vedete, qui la teoria assume una funzione del tutto singolare: essa rappresenta il tentativo dell’analista di poter affermare “Io”, di poter parlare in prima persona, di esprimere un pensiero personale, di contro al fatto che, in analisi, qualcosa di im-personale, di non-proprio, di altrui si è introdotto in lui e lo ha fatto pensare. La teoria dunque può essere un tentativo patologico di reintegrazione narcisistica a fronte dello spossessamento avvenuto in analisi e, in questo senso, una reazione contro il materiale del paziente. Da notare che, in questo senso e in questo caso, la pretesa di fondare una teoria “universalmente valida” ha un valore sintomatico e, più precisamente, manifesta il ritorno del rimosso nel rimovente: si afferma “Io”, dunque qualcosa di personale ma, contemporaneamente, si sostiene un qualcosa di impersonale perché universalmente valido. E non a caso ho detto “poter affermare “Io”” perché il problema – se andiamo ancora avanti negli anni, alla psicoanalisi freudiana seguente la elaborazione de L’Io e l’Es – non è solo quello della collocazione topica ma, dal punto di vista strutturale, della istanza che è qui messa in questione: l’Io, appunto, dell’analista.
A questo punto m’è venuto in mente che forse dovevo alleggerire il discorso con un esempio clinico. Ma non so da dove mi venga questo pensiero e ve lo dico perché questa osservazione sta in tema. E non so neppure se, alla fin fine, l’esempio alleggerisca. Vediamo un pò.
E’ un esempio di vita quotidiana analitica, utile proprio per mettere in evidenza da un lato le caratteristiche di base, quotidiane appunto, del metodo che adopera le due famose regole, dall’altro il fenomeno del trasferimento.
Il paziente – un signore di quarant’anni al suo terzo anno d’analisi, sposato, con figli, attualmente imprenditore ma con studi e lauree di matematica alle spalle – giunge rapidissimo in seduta (è un lunedì mattina) e inizia dicendo:
“Notte difficile… ah, questa settimana avrei bisogno di un cambio di seduta… giovedì… volevo partire prima, c’è una gara, devo portare Mario [un figlio tredicenne che fa dello sci] in Val Badia… beh, dopo vediamo. Va proprio male. Stamattina i miei figli sono stati tranquillissimi, li ho portati a scuola senza il minimo litigio, niente storie. Quando si alzava mia moglie era una guerra infinita… non ci sa fare, non ci sa fare. Ma io sto male, non ho dormito… cioè no, ho dormito solo che mi sono svegliato alle quattro e non c’è stato niente da fare, una crisi di agitazione, mi viene da sudare, devo alzarmi. Poi, quando mi alzo, finisce tutto. Per modo di dire, sa, è che mi metto a preparare questo e quello, poi si sveglia Giorgio, l’altro urla di lasciarlo in pace, poi tocca a Mario, mica c’è tempo di stare lì a pensarci sopra.”
“Io mi sento molto riposato, viceversa. Mentre parla mi irrita un pò questo suo chiedere uno spostamento della seduta ma poi mi vien in mente uno spostamento di un appuntamento che devo chiedere anch’io, e un pò mi secca perché avevo chiesto da tempo di trovarmi con questa persona – non per un fatto professionale – e un grattacapo imprevisto mi obbliga ora a spostare o annullare l’incontro. Mi ricordo anche del sogno di stanotte e meccanicamente penso che forse lui ha fatto un sogno brutto, che l’ha svegliato. Penso che sono proprio deformato dal mestiere, questo pensar meccanicamente che lui abbia rimosso un incubo… solo perché m’è venuto in mente il mio sogno.”
“Un-due, un-due – dice nel frattempo il paziente – mia moglie proprio non capisce che con i ragazzi non bisogna fare i sergenti. Loro si arrabbiano, mettono il doppio del tempo a lavarsi, far colazione.”
“Troppo meccanico” dico io, senza pensarci troppo.
“Ecco cos’era il sogno – dice lui – ero nella mia casa in campagna, no, è la casa dei miei ma per me è la mia, ci ho passato le estati più belle della mia vita. Avevo il Meccano che mi avevano regalato… non riuscivo… era come se tutti i pezzi fossero di dimensioni diverse, proprio quando dovevo metterli assieme. Ero come sono adesso e non riuscivo a fare una cosa che da ragazzino facevo in un amen. C’era un silenzio spaventoso, non c’era nessuno.”
“Desiderava esser qui, dove cerchiamo di metter a posto i pezzi e quindi s’è svegliato per venire qui: venerdì – si ricorda? – aveva detto che questa stanza in fin dei conti è solo sua, che non poteva pensare che fosse di altri. Solo che, se è solo sua, rischia di sentirsi solo. Come quando dice che vorrebbe esser solo e, contemporaneamente, sentire che Elena [la moglie] è sua. Pensiero conciso. “solo” e “sua”.”
E’ una sequenza banale. Ma ha di interessante due fatti: il primo è la parola “meccanicamente”, il secondo il mio commento (“troppo meccanico”) che, se vogliamo, è inadeguato o inutile. Avrei potuto, se avessi voluto, dire “militaresco”, commentare qualcosa sullo stile da caserma o sulle difficoltà di organizzare tre maschietti che in un’ora devono essere contemporaneamente preparati per andare a scuola. O, più semplicemente, avrei potuto stare zitto. Perché fare dei commenti irrilevanti? Perché interrompere il flusso delle libere associazioni del paziente?
Qui, quel che mi interessa segnalare è che la parola “meccanicamente” che mi viene in mente mentre lui parla non sembra in alcun modo aver a che fare con il discorso che lui sta facendo. Non c’è, voglio dire, alcun richiamo evidente, fonetico, lessicale, proprio a questa parola. Eppure la parola c’entra eccome, perché – come si vede – il sogno riguarda il “Meccano” cioè un gioco di costruzioni meccaniche molto in voga un tempo. Di più: quando – per così dire – trovo il modo di pronunciare la parola “meccanico”, il paziente ha a disposizione la parola che si connette alla sua rappresentazione finora inesprimibile e che gli fa venire in mente il sogno dal quale si è svegliato alle quattro di mattina.
In questo, mi sento molto freudiano: le onde sonore si sono ricomposte dentro di me in un messaggio che non ho compreso ma che nel mio inconscio evidentemente si è sintonizzato in modo tale da configurare un qualcosa che consente di passare le barriere intersistemiche fino a giungere a conquistare la coscienza. La quale, peraltro, fa subito tutto un lavorio di coerentizzazione ed inserisce “meccanico” in un discorso abbastanza organizzato, addirittura con un interrogativo autocritico che farebbe pensare che sia “Io” a pensare il tutto.
E’ anche un esempio di incapacità, beninteso. Non sono stato in grado di scostarmi quel tanto che serve dal mio stesso pensiero ed ho agito in seduta la parte di qualcuno che con il “meccano” aveva avuto a che fare. Intendo dire che si può porre l’interrogativo su chi parlasse quando è stato pronunciato il commento “Troppo meccanico”. Per carità, non me ne vergogno più di tanto, sono cose che succedono e, in questo caso, non ha prodotto grandi danni. Però qualche danno sì: come sarebbe andato il discorso associativo del paziente se non l’avessi fermato e deviato con il mio microintervento?
Qui va notato un fenomeno: il transfert del paziente sull’analista blocca appunto il processo associativo. E già non è poco. Ma, di più, il transfert si manifesta nell’analista, il quale può anche non accorgersene e ritenere che quel pensiero lì sia “suo”. Mentre è l’altro che glielo fa fare, spingendolo a bloccare il processo associativo.
Naturalmente, è molto diversa la situazione di chi ha come scopo quello di condurre un trattamento secondo il metodo psicoanalitico delle libere associazioni e quella invece di chi pone in secondo piano (o a volte in soffitta) questo metodo e tende invece a centrare la propria attenzione sulla relazione e sull’analisi del transfert: in quest’ultimo caso, forse non avrei nemmeno sbagliato perché – di riffe o di raffe – è saltato fuori proprio il materiale onirico che conteneva qualcosa che ci riguardava direttamente.
Tuttavia qui parlo dal mio punto di vista – che è freudiano – e dunque di sbaglio si tratta. Beninteso, se ne fossi stato capace, avrei potuto fare un’interpretazione del transfert che si stava componendo dentro di me. O, quanto meno, avrei potuto osservarlo per valutare se e come e quando interpretarlo.
Debbo dire che, personalmente, sono sempre affascinato e incuriosito dagli effetti di questo procedimento conseguente al gioco delle due regole, quella dell’attenzione fluttuante e quella delle libere associazioni. Ma che esso non manca di inquietarmi. Perché, inevitabilmente, il fatto che questo procedimento funzioni e possa essere reso utile in una situazione definita dal contratto e dal setting nel suo insieme, non significa che il processo che lo rende possibile non agisca anche durante la vita quotidiana. Perciò, ogni tanto, mi sorprendo, al di fuori del lavoro clinico, a riprendere certi pensieri e a chiedermi se sono miei o se sono altrui, da dove mi vengono. Peggio. Chi sta pensando dentro di me. O a chiedermi cosa sto comunicando e con chi, quando parlo con una persona. Poi, naturalmente, prevalgono le convenzioni e le barriere e mi attengo alla realtà. Ma credo che non vada dimenticato o rimosso questo fatto e perciò, all’inizio di questa relazione, vi avevo segnalato che convenzionalmente, qui e ora parliamo di concetti, idee, affetti, parliamo di opinioni variamente organizzate, di pensieri a diversi livelli di astrazione ma non parliamo dell’ hic et nunc e dei fenomeni di transfert tra noi, perché, se lo facessimo, cadremmo inevitabilmente in una situazione caotica. Ne teniamo conto, sappiamo che ci sono, ma parliamo a livello dello scambio conscio.
Credo che l’autoanalisi serva anche ad una reintegrazione narcisistica che non consiste solo nel riconoscere quel che è proprio e quel che si è introdotto per così dire furtivamente dentro di noi, ma nel riconoscere che è nostro proprio quel che viene dall’altro e che, in tal modo, vengono anche espresse e riprese vicende nostre, conflitti vecchi e magari incistati, residui di grattacapi che ci sembrava di aver superato.
Penso dunque che ai nostri fini questo esempio possa essere utile perché fa vedere come avvenga il passaggio dei derivati dell’inconscio nell’inconscio dell’analista e come l’analista possa utilizzare l’ascolto dei pensieri che così gli vengono (da dentro) per ripristinare una continuità di pensiero del paziente. Continuità che ho recuperato – e un pò maldestramente – solo un pò più tardi. Qui, infatti, il collegamento era con la seduta di venerdì, cioè la seduta precedente, che era quella che il paziente voleva in effetti rimuovere – chiedendomi di spostare una seduta futura. Come possiamo raffigurarci la situazione? Venerdì il paziente aveva sentito con una particolare intensità (forse anche dovuta alla pausa del week-end) quanto sentiva sua la stanza d’analisi: anzi, quanto la sentiva solo sua. Questo pensiero lo aveva messo a disagio perché aveva provato coscientemente un sentimento di tenerezza per questo mio studio e poi anche per me.
Ora, nell’inconscio questa fonte di dispiacere dev’essere eliminata: se potessi cancellare la seduta di venerdì, pensa il paziente nel suo inconscio, potrei tornare alla seduta, lunedì, in tutta calma. Invece questo pensiero non mi dà pace. Nel sogno, cerca di eliminarmi – è a casa sua, che però è dei genitori, ma non c’è nessuno – ma non riesce a comporre il conflitto tra il desiderio di stare in mia compagnia – magari giocando a metter insieme i pezzi – e quello di stare solo e trionfante, dopo essersi impossessato del mio studio.
Lasciamo – e con dispiacere – il paziente per tornare a noi e alla questione del transfert. Citavo prima Freud chiedendomi se non si possa dire che, quando egli scrive che, se l’analista cade “nella tentazione di proiettare nella scienza, sotto forma di teoria universalmente valida, quanto egli, in un’opaca autopercezione, riconosce delle peculiarità della propria persona”, questo psicoanalista costruisce forse una teoria controtransferale (nel senso freudiano del termine). E’ una domanda che non ci possiamo non porre. Ed è una domanda che questo esempio consente perché il contro-transfert (nel senso freudiano del termine) qui consisteva – per effetto di un’opaca autopercezione – nel pensare che quel “meccanico” fosse “mio”. Per buffo che sia, un avvertimento del mio inconscio – che mi stava dicendo “attento, c’è qualcosa che ha a che fare con “meccanico”” – veniva trasformato in una considerazione apparentemente autocritica (nella quale c’era ancora un avvertimento dell’inconscio) che avrebbe potuto essere convertita per esempio in uno spunto per un articolo. Per esempio avrei potuto teorizzare il rischio delle teorie per l’analista, l’uso difensivo – meccanico – delle teorie nelle interpretazioni per analogia.
Beh, fin là non sono arrivato, ma l’interrogativo resta. Quanto di transferale e di controtransferale hanno le teorie?
Prima di rispondere a questa domanda, conviene onestamente sottolineare che nel passo precedentemente citato (quello del telefono) Freud parla del materiale del paziente senza sottolineare la questione del transfert. Nel saggio precedente a questo, però, cioè nel saggio sulla dinamica della traslazione, aveva sottolineato come il transfert si opponga alle libere associazioni, le interrompa: quando esse vengono meno, nel senso che mancano effettivamente, le si può ripristinare – osservava – “mediante l’assicurazione che egli si trova in quel momento sotto il dominio di un’associazione che ha a che fare con la persona del medico o con qualcosa che lo riguarda” (p.525). Qui il transfert blocca le comunicazioni associative , “per via telefonica”, notate. A volte le blocca l’analista, che esprime allora il transfert, a volte il paziente. Tuttavia a fronte del transfert, non è che necessariamente si imponga il silenzio, quanto piuttosto che si arresta il processo associativo, sostituito da un discorso “normale”, logico, coerente, descrittivo etc. Il contesto del processo associativo consente di osservare l’arresto e quindi la resistenza di transfert. Ma, ancora una volta, il transfert blocca.
Altre volte il transfert si afferma invece palesemente: ma, anche qui, in che modo? Solo conquistando la coscienza del paziente? D’abitudine si manifesta in entrambi i membri della psicoanalisi – paziente e analista – benché magari in forme diverse tra di loro. Il saggio sulle Osservazioni sull’amore di transfert è, a questo proposito, assai interessante. Perché anche qui Freud parla dell’analista e del controtransfert [8]. Freud qui, com’è noto, circoscrive il tema al caso dell’innamoramento palese e dichiarato di una paziente donna verso un analista di sesso maschile. Ma possiamo sbizzarrirci a pensare tutte le diverse possibilità senza che il risultato cambi, solo aumentando le difficoltà. Dunque qui si tratta di un caso circoscritto, palese e relativamente semplice. Bene. Freud elenca le diverse reazioni possibili del medico.
A cominciare dalla reazione (egli parla di “insuperbirsi di una tale “conquista””) più banale perché più evidente. La controtraslazione sta, qui, nel considerare l’innamoramento come una conseguenza delle prerogative della propria persona, nel sentirsi bello, attraente. Ma il transfert, invece, dove sta? Bisognerebbe rispondere: appunto nel far sentire bello e attraente l’analista. Solo che è diverso poter osservare questo proprio stato d’animo e giudicare questo insieme affettivo e ideativo come “proprio”. Si tratta di una reazione narcisistica – l’ “insuperbirsi di una tale “conquista” – che consente di evitare allo psicoanalista di affrontare il dilemma relativo al “chi è innamorato di chi” e di evitare la frustrazione collegata all’avvertire che perfino una situazione così umana e così autentica come l’innamoramento – e per giunta magari corrisposto – può essere qualcos’altro o, meglio, può essere di qualcun altro. Tutto il saggio sull’amore di traslazione può essere letto in questi termini ed è interessante che Freud qui si soffermi su possibili reazioni dannose dell’analista che sono quasi sempre reazioni narcisistiche [9]. Il medico che corrisponde all’amore della paziente, quello che addirittura (illudendosi perversamente di poterne godere) stimola l’innamoramento della stessa, quello che si ritira sdegnato o sconfitto, quello che invita la paziente a reprimere, rinunciare o sublimare le proprie pulsioni, quello che corrisponde sì i sentimenti della paziente, ma fino ad un certo punto.
Qui insomma il controtransfert viene visto come una esigenza narcisistica dell’analista di affermare un proprio copyright sui propri pensieri. Il che è esattamente l’opposto, cioè, di quello cui aveva invitato Freud giusto due anni prima, circa la necessità che l’inconscio dell’analista fungesse da ricevitore dei derivati inconsci del paziente, ossia circa la necessità che l’analista riconosca che pensieri da lui percepiti in seduta non sono suoi. Proprio perciò, alla fine del saggio sull’amore di traslazione, egli ricorda che un tratto distintivo dell’amore di transfert consiste nel fatto che esso sia ancora “più cieco nella valutazione della persona amata, di quanto siamo abituati a pensare di un innamoramento normale” (p.371). Frase che rischia di potersi applicare anche all’analista, se egli non ha la capacità di conservare la tanto deprecata “freddezza del chirurgo” nei propri confronti [10]. Gli altri tratti distintivi dell’amore di transfert, com’è noto, sono il fatto che esso è provocato dalla situazione analitica ed è esaltato dalla resistenza che domina quella situazione.
Che diremmo, seguendo il ragionamento di Freud, di un ricevitore che, anziché ri-produrre il messaggio giunto in forma di oscillazione elettrica fino a lui, servisse a riprodurre la voce dell’ascoltatore?
Fin qui, naturalmente, il problema della mobilità e della stabilità sembra costituire una serie di interrogativi che possono preludere ad una soluzione. C’è qualcosa di mobile – a livello del discorso associativo – e qualcosa che a questa mobilità si oppone – il transfert. E c’è l’interrogativo circa la possibilità di – se permettete il bisticcio – trasferire il materiale del blocco nell’area della mobilità.
Ma il pensiero di Freud negli anni va avanti e affronta, con la svolta degli anni ’20, con Al di là del principio di piacere, con L’Io e l’Es, con Inibizione, sintomo e angoscia, in maniera più drammatica e secondo alcuni più pessimistica la questione del transfert, perché all’interno della seconda topica, della costruzione delle istanze e della revisione della teoria delle pulsioni, alle spalle della relativa stabilità del transfert e del suo opporsi all’applicazione del metodo psicoanalitico si disegna l’ombra della coazione a ripetere e, ad essa collegato, il volto inquietante della pulsione di morte. Non è un caso – ed è stato sottolineato da più parti, da ultimo anche da Green (2002) – che l’intervallo di tempo tra la svolta “strutturale” e gli ultimi scritti di tecnica psicoanalitica sia lunghissimo: Analisi terminabile e interminabile e Costruzioni nell’analisi compaiono solo nel 1937, si direbbe in extremis.
Opportunamente, Green ricorda lo scoraggiamento cui questi articoli diedero luogo e la reazione che provocarono. Comunque qui voglio ricordare che, ancora una volta, è in questi articoli che vengono posti problemi teorici di grandissimo rilievo. E problemi tecnici di altrettanto grandissimo livello. Fin dove si può arrivare con l’analisi? Si può “guarire” in modo definitivo? E proprio in Analisi terminabile e interminabile Freud (p.510) cita Mefistofele: “e allora non c’è che la strega”‘. La nostra strega metapsicologia. Cioè che, ancora una volta, la teoria si ripresenta con tutta la sua forza alla ribalta.
Ora, io posso anche – e lo faccio volentieri – risparmiarvi tutta la carrellata di citazioni relative alla concezione freudiana del transfert nella seconda topica, ma non posso tacere di dirvi almeno una mia impressione – peraltro largamente condivisa da autori così diversi come possono essere Racker e Green, per non parlare di Pontalis e Laplanche. E cioè che Freud non solo non superi ma anzi acuisca la distinzione tra materiale passato attraverso le libere associazioni all’inconscio dell’analista e “blocco” transferale (blocco nel doppio senso di un tutt’uno e di qualcosa che arresta), come se ci trovassimo di fronte a due modalità di transfert o, addirittura, a due transfert diversi, il primo collegato a qualcosa di più mite e positivo, il secondo collegato a qualcosa di irriducibile, violento, non trasformabile ma solo assumibile soggettivamente come forma propria di esistenza non negoziabile ma all’interno della quale solamente si colloca l’impresa largamente inconscia dell’Io nel giungere a conquistare qualche zolla dell’Es.
E’, questo secondo tipo di transfert, sempre da indovinare proprio perché le forme che assume esprimono il lavoro soggettivo, unico appiglio sul quale possiamo lavorare assieme ma è, questo secondo tipo di transfert, sempre a rischio proprio perché sembra delineare destini comuni, sembra fare apparire sempre gli stessi fantasmi (quelli originari), alla fin fine le stesse pulsioni e dunque induce nell’analista la tentazione di ritenere di sapere già come stiano le cose, estremo tentativo narcisistico di collocare nella propria teoria qualcosa che salvi il proprio pensiero [11].
Molto si è giocato – sulla scia di Freud – a questo proposito, cioè a proposito di questo tipo di transfert, sulla concezione dell’oggetto. Che ruolo, che importanza ha l’oggetto nella concezione del transfert? E’ il transfert qualcosa di così direttamente legato alle dinamiche pulsionali da rendere l’oggetto relativamente poco importante e da porre solo un problema di idoneità dell’oggetto a raffigurare le dinamiche pulsionali inconsce o, viceversa, le caratteristiche dell’oggetto del transfert sono fondamentali nel permettere una transizione verso soluzioni creative dei conflitti di base di ciascun individuo in analisi?
Bisogna dire che qui la concezione dell’oggetto è fondamentale. Ma non bisogna dimenticare che anche la concezione del transfert può risentirne.
A me qui preme sottolineare il fenomeno della duplicità del transfert perché questo fenomeno e le relative teorizzazioni ci interroga e interroga e interroga senza che finora, a mio avviso, si sia trovata una soluzione soddisfacente.
Racker, parlando della nevrosi di controtransfert, (p.143) sottolinea come l’analista abbia il doppio ruolo di interprete dei processi inconsci e di oggetto di questi stessi processi e come, conseguentemente, egli abbia un duplice ruolo di controtransfert. Penso che qui si ripresenti appunto la duplicità del transfert.
Green, dal canto suo, in uno dei lavori più problematici e forse meno riusciti, quello del 1984 su Il linguaggio nella psicoanalisi che non a caso è tale, perché cerca di regolare i conti con Lacan e dunque reca le tracce e anche qualcosa di più di un conflitto per certi versi insuperabile o comunque non superato, ha cercato di recuperare il fenomeno e di proporre una concezione complessa del doppio transfert. Anni dopo, nel 2002, cioè quasi vent’anni dopo ha recuperato questa idea, semplificandola alquanto, nel testo di Idee per una psicoanalisi contemporanea.
Qui egli scrive che secondo tale concezione conviene articolare (a) un transfert sulla parola e (b) un transfert sull’oggetto. Quest’ultimo implica l’idea che il transfert abbia delle dimensioni che non possono essere contenute nel discorso. Ancora una volta, dunque, compare un elemento non compatibile con il metodo psicoanalitico classico. Ma Green fa di più e aggiunge con nonchalance che “Per dirla altrimenti, la catena del discorso è una catena collegata a istanze del conscio e del preconscio della prima topica e appartiene all’Io e al Super-io consci e preconsci nella seconda, mentre la catena del transfert sull’oggetto deve essere collegata all’inconscio della prima topica e all’Es, all’Io e al Super-io inconsci della seconda.” (p.59)
Qui, a me sembra, il ricorso a due spiegazioni teoriche metapsicologiche mostra la problematicità sussistente. E’ bensì vero che queste due concezioni metapsicologiche sono complementari e faticosamente integrabili una con l’altra, ma è vero anche ci troviamo di fronte ad una teoria che si fa carico di una irriducibilità di un transfert all’altro tramite un doppio sistema di riferimenti teorici.
Potrei fermarmi qui, accontentandomi del fatto di poter aver scosso delle certezze e di aver controbattuto a dei pregiudizi (anche sullo stesso Freud o sulla pretesa sua scarsa attenzione al transfert ed al controtransfert) se non avessi anche una fantasia teorica da comunicarvi. Una fantasia che mi fa un pò sorridere, perché, dopo quanto ho detto della possibilità che la costruzione teorica relativa al transfert sia una teoria transferale o – peggio – controtransferale, inevitabilmente il fatto di aver la tentazione di proporre una piccola costruzione teorica mi appare del tutto interna a queste dinamiche. Con queste premesse autocritiche, tuttavia, mi sento in un ambiente sufficientemente amichevole (ecco qui l’importanza dell’oggetto) da potervela dire.
A me sembra che questa faccenda del doppio transfert, della mobilità e della stabilità, se vogliamo della storia come espressione di scelte e della storia come espressione del destino, si presti in analisi ad una considerazione sul controtransfert: quando si ha il transfert di pensieri e affetti e quindi conflitti inconsci tramite il discorso associativo del paziente, la reazione controtransferale primaria è quella narcisistica (come già notava Freud) consistente nel negare che i pensieri pensati da sé siano pensieri del paziente e nel cercare magari disperatamente di attribuirseli. Mentre quando si ha a che fare con il transfert-blocco, con il transfert che chiamerei globale, con il transfert che è narcisistico perché comunque afferma “Io sono così”, con il transfert che si oppone alle associazioni e violentemente permea di sé lo studio dell’analista, il rischio primario (cioè precedente una adeguata elaborazione) è quello di una reazione controtransferale conflittuale (spesso avvertita consciamente e spesso dibattuta in letteratura, soprattutto per quanto riguarda i sentimenti ostili).
Nel primo caso, la reazione controtransferale narcisistica è una difesa della propria identità cosciente e inconscia di individuo, (o, se volete, di una particolare concezione di individuo, del resto fisiologica) attaccata dall’interno dai pensieri del paziente, nella seconda, la reazione controtransferale conflittuale è una difesa ancora una volta narcisistica che rappresenta nella coscienza dell’analista la necessità di salvare la propria capacità conflittuale a fronte di chi, transferalmente, ci chiede semplicemente di sparire come oggetto con una propria capacità soggettiva e di essere solo l’altro.
Il problema è dato dal fatto che il transfert è un procedimento fisiologico ma intollerabile, sicché si può affermare che il controtransfert è un procedimento altrettanto fisiologico ma tollerabile, perché comunque ripristina la possibilità di affermare “Io”. Perché il transfert è intollerabile? Perché dalla nascita in poi cerchiamo di e riusciamo a costruire barriere, dogane, confini, limiti, in modo da poter comunque vivere. Se fossimo sommersi dalla valanga di pensieri che girano nel nostro inconscio e nelle nostre comunicazioni, non solo non saremmo in grado di padroneggiare almeno un pò la realtà, ma non saremmo neppure in grado di usare la prima persona singolare. Intendo dire che la dinamica transfert/controtransfert per come si appalesa nel nostro laboratorio analitico è ciò che si può vedere di una grandissima attività – spesso conflittuale – che ogni essere umano compie quotidianamente per diventare quel che è, cioè un individuo, diverso da tutti gli altri.
E che bisogna tener conto del fatto che la psicoanalisi, da questo punto di vista, è un tentativo innaturale di andare contro la costruzione di barriere, limiti, confini. Certo, noi sappiamo che anche i confini producono sofferenza e patologia ma non dovremmo sottovalutare il fatto che essi, comunque, anche quando sono i più patologici possibili, si inseriscono in una tendenza per così dire fisiologica, mentre il nostro lavoro può suonare come opposto ad essa. Se vogliamo ora riprendere l’interrogativo iniziale, relativo alle caratteristiche transferali e controtransferali della teoria, bisogna allora avanzare una risposta precisa: se la teoria è controtransferale (nel senso freudiano) non è una teoria ma un delirio o qualcosa di simile, e lo è perché un pensiero proprio si sovrappone all’esperienza per coprirla e nasconderla, anziché per cercare di comprenderla. Viceversa, la teoria è sempre anche transferale, ma allora la distinzione fondamentale è quella topica: se inconsciamente il o i transfert dei pazienti si aggirano dentro di noi facendoci pensare, questo non vuol dire che la teoria – che è un prodotto finale del sistema conscio – debba diventare un guazzabuglio di idee tra loro incompatibili, ossia la teoria deve rappresentare il transfert ma i transfert non debbono potersi rappresentare da sé. E’, in altri termini, necessario che la teoria sia coerentemente incompleta ma sufficientemente critica: allora, il fatto che essa abbia tra le sue radici anche il transfert altrui non ne mina la consistenza, anzi ne aumenta lo spessore.
Resta il fatto, a mio avviso, che questi due transfert non sempre possono essere distinti nella pratica e che questa operazione euristica – compresa questa relazione – ha solo il valore, assolutamente provvisorio, di segnalare un fenomeno che non siamo riusciti finora a pensare in modo soddisfacente. Può essere, questo un segno della necessaria incompletezza della teoria la quale deve rappresentare anche l’incompletezza della natura umana. Ma ci resta sempre la speranza – alla quale non possiamo però non pensare con qualche ironia – di una teorizzazione più soddisfacente.
Non possiamo dimenticare del resto che proprio Freud, in Al di là del principio di piacere (1920) dopo aver indicato ancora una volta il problema libere associazioni/ nevrosi di transfert ed aver sostenuto che “il medico [si sforza] di restringere al massimo – notate – l’ambito di questa nevrosi di traslazione, di convogliare quanto più materiale possibile nella sfera dei ricordi e di fare in modo che una parte minima di esso riemerga sotto forma di ripetizione” (p.204-5), si è lasciato andare ad una speculazione imponente ed ancor oggi fondamentale per noi che però si conclude, come concludo anch’io, con una citazione da Rückert:
“Ciò che non si può raggiungere volando
Bisogna raggiungere zoppicando.”
NOTE
[1] Vedi più avanti, relativamente al blocco del discorso associativo in presenza di un fenomeno di transfert.
[2] Sull’indovinare cfr. M. Gribinski “Deviner à peu près” Rev. Franç.Psychanal., 3/2004, 897-915.
[3] A. Kris (1982) Free Association.Yale Univ. Press, New Haven & London.
[4] Cfr. Green (2004), p.49 ed.it.: “Esiste molto spesso una difesa imponente contro il riconoscimento del transfert che, tuttavia, può essere /sollevata/ riconosciuta in determinati momenti, in occasione di certe comunicazioni indirette (messaggi scritti o telefonici ecc.)”. [ tra barre una correzione mia alla trad. it., cfr. ed. fr. p.65]. questo passo è riferito ai trattamenti delle “strutture non nevrotiche” e segnala dunque che, oggi, forse la difficoltà si è spostata (ma per chi? per gli analisti o per i pazienti?).
[5] Che dovrebbe consentire il superamento delle “macchie cieche” indicate già da Stekel (1911) in un articolo su “Le diverse forme del transfert” e pubblicato sulla Zentralblatt (II, 2, 26) come causa di incomprensione da parte dell’analista.
[6] Ma ci si potrebbe qui anche riferire, fuor di metafora, al concetto di “messaggio enigmatico” di Laplanche.
[7] Si noti che qui il riferimento all’autopercezione non è casuale: nella Psicopatologia della vita quotidiana (1901) il capitolo 12, dedicato a Determinismo, credenza nel caso e superstizione – Punti di vista, culmina nella analisi della “concezione mitologica del mondo” come “psicologia proiettata sul mondo esterno” (il corsivo è di Freud). “L’oscura conoscenza (per così dire la percezione endopsichica) di fattori e rapporti psichici inerenti all’inconscio si rispecchia – è difficile dire diversamente, l’analogia con la paranoia deve qui esserci di aiuto – nella costruzione di una realtà soprasensibile, che la scienza deve ritrasformare in psicologia dell’inconscio.” (p.279-80). Il problema è quello di tradurre, dice subito dopo Freud, la metafisica in metapsicologia. Ma la metapsicologia, così, si manifesta come una costruzione a rischio, del qual rischio occorre essere consapevoli.
[8] In un certo senso, tutti gli scritti di tecnica di Freud sono studi sul controtransfert (nel senso freudiano del termine).
[9] E non è un caso, credo, che le Osservazioni sull’amore di traslazione e la Introduzioneal narcisismo siano state scritte nel medesimo anno (1914).
[11] Da notare che, in questo senso, si può addirittura pensare (con Neyraut Le transfert, PUF, Paris, 1974 ) che il contro-transfert, nel senso freudiano del termine, venga addirittura prima del transfert.