Anna Ferruta
C.P. F. – Convegno su “IL SILENZIO IN PSICOANALISI” – 6 Ottobre 2012
Il silenzio è qualcuno che ascolta
Il silenzio dell’analista in stanza di analisi è stato spesso oggetto di racconti con accenti ironici, paradossali, crudeli. Come se il silenzio dell’analista fosse simile a quello di una divinità inaccessibile alla cui attenzione deve essere rivolto lo sforzo dell’analizzando. Tale concezione rispecchia una dimensione dell’analisi non più attuale. La psicoanalisi è diventata relazionale, interattiva, intersoggettiva, al punto che l’analista non solo interviene spesso, ma parla di sé, delle sue emozioni, fa outing… E i pazienti finiscono per sentire troppe voci, dei persecutori, delle figure autorevoli, non interiorizzate ma proiettate all’esterno, e di altri ancora…
Cerchiamo allora di addentrarci nelle voci del silenzio per capire qualcosa di più.
Freud (1912) ha parlato della posizione mentale dell’analista come quella di uno specchio opaco, che porge l’ascolto del suo inconscio come un apparecchio ricevente pronto ad accogliere le comunicazioni del paziente, senza introdurvi interferenze proprie, in un ascolto dell’altro aperto, senza pregiudizi, come un organo ricevente. Queste affermazioni di Freud sono il fondamento della psicoanalisi, che è spazio e tempo per ascoltare ciò che viene da un’altra parte.
Enzo Morpurgo (1998) ha descritto in sapienti e poetici saggi questa qualità analitica, proprio lui che si è dedicato alla dimensione sociale della psicoanalisi con l’ambulatorio popolare gratuito di Niguarda, come pure allo studio della dimensione filosofica del sapere psicoanalitico e alla poesia, là dove la parola è tutto1. Morpurgo differenzia il dialogo mondano, attento all’interazione media comune, ritenuta patogena, e il dialogo analitico, che dà spazio a ciò che nel mondano quotidiano non ha udienza, aperto all’ascolto della sofferenza dell’altro come portatore di un bisogno, quello di mettere il male nell’altro e di apparire come un individuo diverso dal se stesso abituale. 2
L’analista offre un ascolto ampio e senza pregiudizi per dare la possibilità al paziente di entrare in contatto con le voci di dentro, con ciò che viene da un’altra parte ed è soffocato e sopraffatto da ingombri interiori e esteriori, per potere avere esperienze dirette e personali, per trovare ‘le parole per dirlo’ (Cardinal, 1975).
Sappiamo che la sordità produce come conseguenza il mutismo. Ricordo una paziente siciliana venuta a Milano per frequentare il dottorato all’Università, che alla caduta della prima neve si meravigliò che la neve calpestata producesse un suono, quello sottile dei cristallini dei fiocchi che cedono sotto la pressione del piede. La neve ha una voce. Così pure ricordo il racconto-video davvero emozionante di un paziente sordo dalla nascita, trapiantato dal prof Gregorio Babighian, un otorino tunisino che ogni anno torna nel deserto per sentire le voci che lì parlano nel silenzio. Nel video il paziente raccontava il risveglio dall’operazione di impianto cocleare di una protesi elettronica: il primo suono che udì fu quello del carrello del pranzo che sferragliante veniva portato dagli inservienti nel reparto. Tra i suoni sconosciuti che non si aspettava che esistessero fu una sorpresa quello dello scricchiolio delle foglie secche durante la prima passeggiata nel bosco, diversa da come l’aveva sempre conosciuta, con un accompagnamento di suoni. L’ascolto delle voci degli altri, nel film di Henckel Le vite degli altri (2006), ascoltate per controllo persecutorio da parte dei servizi segreti, genera nel solerte e spietato agente della Stasi l’apertura ad altri mondi del suo intimo sentire. E infine, non si può tacere, nell’anno anniversario dei 100 anni dalla nascita, l’ascolto straordinario di Alan Turing, decifratore del codice Enigma, a cui dobbiamo gran parte della nostra sopravvivenza e libertà, capace di ascoltare e decifrare con intelligenza e passione il codice segreto del Terzo Reich. Al contrario, lui nella sua diversità non trovò spazio e ascolto per il suo segreto, ma venne denunciato per omosessualità, allora reato in Inghilterra, e costretto a scegliere tra prigione e castrazione chimica. Scelse la seconda, ma dopo due anni si tolse la vita, affondando i denti in una mela intrisa di cianuro. Così pure fu “tagliata la gola” ai sette monaci trappisti dell’abbazia di Tibhirine in Algeria, uccisi dal fanatismo religioso, perché davano ascolto e ospitalità nella loro foresteria al diverso 3.
Quindi il silenzio significa ascoltare, o produrre silenzio, facendo tacere gli altri? Oggi molte terapie e molti provvedimenti educativi sono indirizzati a tacitare le voci della sofferenza, della mancanza, dell’assenza, della diversità (Petrella, 1998). Vengono offerti e cercati ‘silenziatori’, nella forma di cibo, droghe, istruzioni dettagliate ad assoggettarsi a percorsi già tracciati, tappi usati in modo simile a quello indicato scherzosamente da Winnicott (1968) per i succhiotti come come ‘passifiers’ invece ‘pacifiers’, citati in un bel lavoro di Renata Gaddini (1986) su “I precursori dell’oggetto e dei fenomeni transizionali 4. Occorre invece offrire un ascolto che dia spazio e tempo perché, come dice Masud Kahn (1979), “ le capacità biologiche innate possano attualizzarsi in uno spazio psichico personalizzato”.
Propongo di pensare al silenzio in analisi come la via di accesso a ciò che non è immediatamente percepibile, e all’analista, come dice Bollas (1999), come una tela parlante, un ascolto che dà voce e parola alla costruzione del soggetto altro da sé. L’analista dà la parola ad aspetti muti e difficilmente accessibili. Il fatto che l’analista non risponda alle domande del paziente può risultare difficile da capire per chi è fuori dalla dimensione analitica. L’analista non risponde alle domande per sadismo, snobismo, ignoranza, per infliggere salutari frustrazioni ?
Mi viene in mente un giovane e brillante paziente, che viene in analisi perché si è bloccato al termine degli studi ed è attraversato da profonde angosce ipocondriache, che tenta di placare sommergendo me analista di domande e quesiti: non sa che cosa vuol fare, che strada intraprendere, se i disturbi fisici che accusa (insonnia, impotenza, gastrite) sono dovuti a cause organiche, se deve restare isolato in quanto non si riconosce nelle pratiche quotidiane dei coetanei, o se deve sopportare la tensione psichica e muscolare, fino al tremore, che il rapporto con gli altri gli richiede, se il suo stato è stato determinato dall’assunzione prolungata di psicofarmaci, se ne è stato rovinato per sempre, e altro ancora. La peculiarità di questo trattamento consiste nel fatto che il soggetto è colto e bene informato di che cosa è l’analisi, e da solo dice a se stesso, subito dopo avere formulato una domanda, che sa che in analisi non si devono fare domande, ma non ne può fare a meno. Gli dico che se sente l’esigenza di fare domande non può che seguire questa urgenza interiore. Il problema di se e come rispondere è affar mio, mentre lui vorrebbe sollevarmi da questa difficoltà, così come ha fatto con i suoi bravi genitori, cercando di fare il meglio che poteva. Penso che ha interiorizzato un oggetto che sa e che dà risposte competenti, e ripete con me la stessa modalità: mi fa domande perché sa che io ho la risposta. Nel controtransfert mi accade di sentire che trovo dentro di me la risposta ai suoi quesiti con un grado alto di certezza, con un impulso urgente a dire, a intervenire, per toglierlo dall’impasse: io so, e lui no. Riconosco in questo impulso urgente e quasi evacuativo una dinamica narcisistica di annullamento dell’altro: non c’è posto per due menti, per un incontro. La competenza di qualità narcisistica dell’uno annulla quella dell’altro. Quindi gli dico che nel fare le domande trascura e dimentica quello che lui sa e che potrebbe mettere in comune con quello che io so, per trovare una risposta ai suoi giusti interrogativi, una risposta non annientante ma creativa. E’ emozionante per me la prima volta nella quale pone in seduta una domanda per la quale non ho una risposta (mi chiede come e di che cosa sono fatti i doner kebab, che gli piacciono molto ma che teme siano nocivi perché fabbricati con scarti), risposta che poi si rende conto di conoscere. E un’altra volta, nella quale racconta di avere scoperto un’officina nella quale si trovano i pezzi di ricambio e gli attrezzi per le biciclette dove uno può ripararle con i suoi mezzi. A quel punto qualcosa è cambiato, lui è entrato in una relazione nella quale ha qualcosa da dare e da unire a quello che ho io. Ora, quando racconta un sogno e tenta un’interpretazione, usa questa espressione:”La sparo?!”, come se nel rompere il silenzio della stanza di analisi sentisse un rischio di annientare l’altro che tace, l’analista, ma anche il piacere e la forza della sua soggettività. Non mi uccide ma mi dà il suo sperma simbolico, senza annientamento narcisistico dell’altro da sé.
Mi voglio soffermare ora in particolare su due particolari aree che vengono silenziate: Zone del silenzio e Legami fraterni.
Zone del silenzio evitate
Talvolta ci imbattiamo in cartelli che indicano che stiamo attraversando zone del silenzio nelle quali l’uso dei clacson o di altri dispositivi rumorosi è vietato, in genere in vicinanza di ospedali o case di cura. L’intento è quello di non disturbare i malati che hanno bisogno di riposo e tranquillità. Ma tale invito può essere inteso anche come rivolto a tacere della sofferenza umana, a evitarla, a fare come se non ci fosse. Il legame con l’altro che soffre rappresenta simbolicamente la sofferenza che è depositata nel cuore di ognuno come dimensione umana inevitabile, per l’esistenza del corpo e della relazione con gli altri, mortali.
Quando la psicoanalisi comparve come disciplina agli inizi del 900 una zona del silenzio evitata e annidata nei sintomi isterici era la sessualità. Oggi, con i mutamenti sociali avvenuti e in atto, possiamo chiederci quali sono le zone del silenzio tacitate, a cui il paziente che viene in analisi chiede che venga data voce.
Le patologie narcisistiche si moltiplicano, con sofferenza-insofferenza della presenza e della realtà dell’altro da sé, che non rientra nella costruzione del soggetto. Kaës (2008) ha messo in evidenza come molti problemi individuali e sociali siano collegati alla costruzione di patti narcisistici denegativi, costruiti sulla base del diniego del legame necessario che la personalità individuale ha con l’altro. Ssst!
Kaës usa spesso il termine diniego e denegativo: l’alleanza denegativa riguarda ciò che per essere cancellato richiede il concorso dell’altro, necessario perché il legame con l’altro possa mantenersi, in una complementarietà di interessi. L’alleanza denegativa è una metadifesa, crea delle zone del silenzio, delle sacche di intossicazione, che mantengono un soggetto estraneo alla propria storia e alla storia dell’altro.
Ne troviamo un esempio nel libro La notte di Elie Wiesel (1958), quando racconta il ritorno al villaggio di Sighet, quello in cui viveva da ragazzo Elie Wiesel, prima che l’Olocausto e lo stermino accadessero, di Moshé, il primo deportato, solo perché straniero, sopravvissuto all’esecuzione di massa sotto il mucchio dei cadaveri. Moshé cerca di spiegare agli altri del villaggio quanto è accaduto e sta per accadere, ma non trova un ascolto, non riesce a stabilire quel legame vivo e sano con una socialità che aiuti a sopravvivere:
“Tu non puoi capire. Sono salvo per miracolo, sono riuscito a tornare fin qui. Da dove ho preso questa forza? Ho voluto tornare a Sighet per raccontarvi la mia morte, perché possiate prepararvi finché c’è ancora tempo. Vivere? Non ci tengo più alla vita. Sono solo. Ma ho voluto tornare, e avvertirvi. Ed ecco che nessuno mi ascolta.” (15).
Il narcisismo come malattia costruita sul silenzio del legame costitutivo del soggetto e sull’estraneità alla malattia e alla morte, che riguardano sempre l’altro.
Legame fraterno
La psicoanalisi ha molto contribuito a rendere consapevoli tutti, anche a livello della cultura condivisa non specialistica, della forza e importanza dei legami parentali che uniscono genitori e figli. L’Edipo e quindi la rivalità con i genitori, l’incesto desiderato e condannato, la violenza transgenerazionale sono conosciuti e non silenziati. La rivalità con i genitori è accettata e bonificata attraverso l’identificazione e il diventare a propria volta genitori e procreatori.
Il silenzio invece sembra gravare ancora sul legame fraterno che ci unisce e che richiede di lasciare un posto per l’altro, anche se non riveste una posizione di autorità generazionale o sociale. L’altro, il fratello, sembra una dimensione silenziata, ed esposta alla violazione, non salvaguardata dalle leggi della polis.
Silvana Borutti nel suo intervento al Congresso SPI di Roma 2012 su Realtà psichica e regole sociali parla della philìa come legame fraterno costitutivo del soggetto, che, a mio parere, viene denegato spesso, per motivi narcisistici, quelli di non voler fare posto all’altro in un legame di reciprocità, invece che di gerarchia transgenerazionale.
Dice Borutti: “Se non si comprende quella che chiamerei la regola originaria, cioè la necessità di riconoscere la nostra costituzione originariamente eterologica – per cui la relazione non sopravviene a unire soggettività monadiche, ma è costitutiva dell’essere stesso della soggettività – non si comprendono le regole, non se ne comprende il senso.
Su questa faccenda dell’incompiutezza originaria e del riconoscimento dell’altro nel sé i Greci hanno una parola-concetto fondamentale, che non è eros, ma philìa. Attraverso questo concetto, arrivano a pensare l’altro nella costituzione del soggetto.” 5“In Platone l’amico non è un alter ego, ma è l’altro che ci altera. La concezione di Platone è più drammatica, perché egli pone lo scarto e la mancanza alla radice dei rapporti interpersonali.” (21-22)
Il richiamare il legame fraterno, dal patto denegativo inconscio alla vita della coscienza attraverso una regressione al legame di sangue arcaico, sarebbe un rituffarlo nel silenzio, affidato solo alla legge del sangue, non condiviso con la parola. E allora si tratta di ascoltare l’altro anche quando non ha posizione di autorità, ma come elemento fondativo del vivere condiviso, che limita la libertà individuale e la allarga a quello che di noi non conosciamo e non sappiamo che saremmo diventati (Bollas, 1987).
La reciprocità come dimensione che include differenza e rispecchiamento, capacità di transitare nei due sensi, tra sé e l’altro, senza perdersi. Occorre un Crossing the bridge (Ferruta, 2008) tra Asia e Europa, più e più volte, una psicoanalisi davvero dinamica che sappia unire piacere dell’incontro con l’altro e sufficiente coesione del sé.
Per questo il lavoro analitico si configura come uno dei territori dell’intermedio, come l’arte e il gioco: un’attività che continuamente trasforma il silenzio in parola cocostruita e condivisa, frutto dell’incontro (Ferro, 2007), terzo analitico intersoggettivo (Ogden, 2009). Le parole dell’analisi sono qualcosa che prima non esisteva, come la parola della poesia, la nota della musica, la pennellata del pittore.
Qualcosa che nasce nell’ascolto di chi è capace di fare silenzio del proprio narcisismo per incontrare l’altro, ascoltare la voce ignota, mai udita, il suono della neve e delle foglie sotto il piede, il timbro de Il flauto magico, come lo abbiamo sentito nell’ultima rappresentazione di Peter Brook, una nota sola vibrata dal triangolo, una nota sola, che illumina e amplia l’universo. In un’intervista in occasione del debutto del Flauto Magico Brook osserva: “Oggi si cerca di spiegare tutto, di chiarire tutto: eppure la forza di ciò che chiamiamo poesia, l’energia di ciò che chiamiamo musica, sta nel loro travalicare quel limite, poiché esse iniziano in quel preciso istante oltre il quale la spiegazione razionale non può procedere.”
L’analisi apre all’ascolto di quelle note creative che scaturiscono da un incontro, nel venire meno di spiegazioni e prescrizioni, per lasciare posto al suono, alla danza, alla parola evocativa della poesia.
L’esile flauto, sospeso a mezz’aria, che poi svanisce nel finale della scenografia, è magico, perché capace di fare sparire magicamente le categorie di ammaestramento, e permette ai personaggi di presentarsi come portatori di un’essenzialità, quella della musica dell’anima che risuona dentro, con poche note, altrettanto essenziali: saggezza, amore, amicizia, non altro. Il suo Flauto è uno spazio aperto, senza ingombri, come potrebbe essere la mente di un analista che si apre all’incontro con un soggetto non conosciuto. Un analista che ascolta lo scricchiolio della neve e delle foglie sotto i piedi di un soggetto che si muove nel mondo, che non è immobilizzato in una diagnosi o in una relazione transferale che coattivamente ripete. Richiede ascolto e passione creativa.
Bibliografia
Bollas C. (1987). L’ombra dell’oggetto. Borla, Roma, 1989
Bollas, C. (1999). Il mistero delle cose. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
Borutti S. (2012). La philìa come regola originaria. Relazione presentata al Congresso SPI, su Realtà psichica e regole sociali, Roma.
Brook P. (2010). Intervista a cura di ARTE, in occasione del debutto di Un flauto magico (Parigi, 10 novembre 2010, nel teatro delle Bouffes du Nord).
Cardinal M. (1975). Le parole per dirlo. Bompiani, Milano.
Chenu B. ( a cura di). (1996). Più forti dell’odio. Piemme, Casale Monferrato.
Ferro A. (2007). Evitare le emozioni, vivere le emozioni. Milano, Raffaello Cortina Editore.
Ferruta A. (2008). Crossing the bridge. Identità e cambiamento. Rivista di Psicoanalisi, 4, 905-921.
Freud S. (1912). Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico. O.S.F., 6.
Gaddini De Benedetti R. (in collaborazione con Gaddini E.) (1970). Transitional Objects and the Process of Individuation: a study in three different social groups. J. Am. Acad. Child Psychiatry, 9, 347-365.
Gaddini De Benedetti R.(1986). I precursori dell’oggetto e dei fenomeni transizionali. Riv. Psicoan., 2, 281-295.
Kaës R. (2008).Un singolare plurale. Borla, Roma.
Khan M. ( 1979). Enfance, solitude et folie, Nouvelle Revue de Psychanalyse,19.
Morpurgo E. (1998). Chi racconta a chi? Angeli, Milano.
Ogden T. H. (2009). Riscoprire la psicoanalisi. Milano, CIS.
Petrella F. (1998). L’ascolto e l’ostacolo. In Egidi Morpurgo V. , Morpurgo E. ( a cura di). La forma segreta. Angeli, Milano.
Wiesel E (1958). La notte. Giuntina, Firenze.
Winnicott D. W. (1968). Corrispondenza non pubblicata con R. Gaddini.
Winnicott D.W. (1970). Vivere creativamente. In: (1986). Dal luogo delle origini. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1990
1Ecco un esempio di psicoanalisi kleiniana: “Scindo, proietto e nego/ e in fondo me ne frego”.
2“ Se già il porsi il problema dell’altro è per tutti filosoficamente complesso e esistenzialmente altrettanto complesso, credo che tutto cambi radicalmente quando l’accettazione dell’altro diventa accettazione del dolore dell’altro e del suo bisogno di trovare conforto. Credo che in una coppia o in un gruppo l’espressione del disagio interiore crei nell’ascoltatore un’immagine sostanzialmente destabilizzante dell’idea preconscia della identità del soggetto nel tempo. Io credo che questa alterità dell’altro sofferente sia la fonte del carattere patogeno della risposta. (…) Che magari è il partner della coppia analitica, cioè lo psicoanalista. Che è meglio attrezzato del partner di vita, e protetto dal setting per affrontare l’espressione di dolore, ma è esposto comunque alla tentazione di respingerla. Magari con teorie raffinate, come spesso mi sembra sia accaduto anche in autori che hanno teorizzato l’empatia con il paziente. (…) Utilizzava così la sua teoria -quale che fosse- per difendersi anziché più semplicemente, ma quanto più faticosamente, accettare, ricevere e tollerare il dolore del paziente. Dando al paziente e a se stesso tutto il tempo necessario per capire o magari per non capire mai; o per capire e non potere fare niente per il disagio o della sofferenza espressi; ché anche questo significa accettare ‘orizzonte della morte in seduta, come segno del limite, del non esserci garanzia certa di riuscita dell’impresa psicoanalitica”. (1998, 202-04)
3 Il foglio di presentazione del monastero agli ospiti così recita: “Ospiti del popolo algerino, musulmano nella sua quasi totalità, questi fratelli vorrebbero contribuire a testimoniare che la pace tra i popoli è un dono di Dio fatto agli uomini di ogni luogo e ogni tempo e che spetta ai credenti, qui e ora, rendere manifesto questo dono inalienabile, in particolar modo attraverso la qualità del loro rispetto reciproco e il sostegno esigente di una sana e feconda competizione spirituale. (…) La foresteria- o casa riservata agli ospiti- appartiene a questa stessa vocazione di accoglienza e condivisione, di ascolto e di lode, di silenzio e di unità.”(29-30)
4“Ciò che di solito accade con i succhiotti, da Winnicott indicati scherzosamente “passifiers”, invece che “pacifiers” (Winnicott D. W., 1968) (cioè passivizzanti invece che pacificanti), è che le madri li “schiaffano” (shove) in bocca al bambino in modo tale che il bambino non ha alternativa se non quella di quietarsi. “Ciò che è completamente assente nella tecnica del succhiotto è il cercare del bambino, il suo muovere verso qualcosa… In altre parole non viene dato nessun credito alla capacità creativa del bambino, che si manifesta in termini, per esempio, di una mano che può raggiungere un oggetto, o di una bocca che può andare verso un oggetto con la saliva” (Winnicott, 1968; Gaddini R., 1970)”.(281)
5“Vorrei qui sostenere che la philia di Antigone esprime la legge dell’incompiutezza del soggetto e della sua costituzione eterologica. Non vorrei cioè mantenere il concetto di philia di Antigone entro l’opposizione polis/ghenos, città/famiglia: per cui al soggetto costituito dall’appartenenza alla legge della città Antigone opporrebbe il soggetto costituito dall’appartenenza di sangue. Vorrei dire che Antigone esprime piuttosto la legge dell’incompiutezza del soggetto.”