C.P. F. – Convegno su “IL SILENZIO IN PSICOANALISI” – 6 Ottobre 2012
IL SILENZIO DELL’ ANALISTA CREDENTE – Arrigo Bigi
Il titolo dell’intervento che mi è stato assegnato si presta a una riflessione preliminare.
E’ vero che si accenna al silenzio, tema di fondo di tutto il convegno, ma lo si coniuga all’analista che viene descritto con un aggettivo qualificativo, credente.
Non è raro , quando si parla di un dato psicoanalista, aggiungere una precisazione: è un analista freudiano, kleiniano, bioniano, junghiano, intersoggettivista. E l’elenco potrebbe continuare, data la multiforme espansione dei modelli teorico-clinici della psicoanalisi. Con queste qualificazioni intendiamo indicare come l’analista si muove nel suo lavoro clinico, quale modello teorico-clinico predilige, che cosa “fa”.
Ma qui si parla di analista credente: chiaramente non riguarda un ruolo, cosa fa, quanto piuttosto che cosa “è”, qualcosa che trascende il suo lavoro come analista, che lo investe come persona, un suo segno identitario.
Una persona che ha letto il programma del convegno mi ha detto: “Ho visto che lei parla dell’analista credente: ma…credente…come?”
Quel lieve palese imbarazzo che si notava, serviva a trovare lo spazio per esplicitare una risposta che era già sottintesa: credente nell’accezione comune della parola. Credente nel senso di professare una fede religiosa.
Il dialogo avrebbe potuto continuare così: “Come un analista credente? Ma Freud era ateo!”
D’accordo. Però questo non impedì la trentennale, profonda e sincera colleganza tra Freud ateo e lo psicoanalista svizzero Oskar Pfister, pastore protestante, per forza credente!, testimoniata da una nutrita corrispondenza come solo Freud sapeva fare, e che possiamo leggere nel carteggio pubblicato (Freud,1970). E’ una piacevole, preziosa lettura dove si vedono due persone che sul concetto di religione si trovano su posizioni del tutto opposte; si confrontano, dibattono, scrivono, pubblicano, tutto nel più assoluto rispetto delle convinzioni dell’altro.
E’ chiaro che ciascuno è convinto di affermare una propria verità, ma nessuno – che sa ascoltare l’altro – pretende di possedere “la” verità, di farne un’arma ideologica per colpire l’ avversario. Sotto questo aspetto, nelle lettere di Freud non si trova mai una parola che metta in dubbio, che invalidi la credibilità di Pfister come psicoanalista, data la sua dichiarata e professata religiosità.
Anzi, già nella seconda lettera (9 febb. 1909), Freud si perita di cogliere quel che succede di positivo nei trattamenti che Pfister conduce: ritiene che i suoi pazienti – si tratta in genere di giovani – saranno “ben disposti verso la Sua persona” e “pronti alla sublimazione, precisamente nella forma più comoda, la sublimazione religiosa”.
E del transfert erotico verso l’analista, Freud suggerisce a Pfister: “..Lei si trova nella felice situazione di condurre quel transfert a Dio”.
Nella lettera c’è anche un riferimento interessante sull’ utilizzo della psicoanalisi, qui presa come pratica clinica: “La psicoanalisi in se stessa non è né religiosa, né irreligiosa, bensì uno strumento imparziale di cui può servirsi sia il religioso che il laico, purchè venga usato unicamente per liberare l’uomo dalle sofferenze.
Sono rimasto molto colpito nel rendermi conto che non avevo pensato all’aiuto straordinario che il metodo psicoanalitico può fornire alla cura delle anime, ma questo è certo successo perché un malvagio eretico come me è troppo lontano da questa sfera di idee”.
Col trascorrere degli anni la colleganza tra i due acquista anche il colore, e il calore, di una sincera amicizia, con Pfister che frequenta la casa di Freud e Anna1 che sottolinea i sentimenti affettuosi che si generavano in quelle occasioni.
Col viatico immaginario di un Freud che rinnova ora il dialogo con un collega credente, mi soffermo brevemente sullo specifico del significato del credere , anche tenendo conto della tavola rotonda del pomeriggio, imperniata sul rapporto tra psicoanalisi e fede sempre sul tema del silenzio. Mi limiterò a delle riflessioni generali che, ritengo, possono costituire una introduzione alle esposizioni che i colleghi faranno oggi , confrontandosi attraverso le loro personali esperienze.
Credere è un aspetto della attività cognitiva, è un modo per metterci in rapporto con la realtà. Nella vita di tutti i giorni è una attività abbastanza comune. Crediamo nelle cose che debbono avvenire quando non c’è sicurezza, dove siamo animati dal dubbio, dal timore, da una speranza. Crediamo nelle persone quando accettiamo per vero quello che ci dicono; crediamo nelle costruzioni fantastiche che ci facciamo, bypassando l’esigenza di controlli ragionativi, perché è più facile credere, anzi, è più bello credere.
In termini evolutivi si ritiene che la selezione degli umani abbia plasmato dei meccanismi cognitivi che “fabbricano” le credenze. Ne sono convinti Girotto, Pievani, Vallortigara (2008), autori di “Nati per credere”, che affermano: ”Noi personalmente, autori di questo libretto, riteniamo che l’idea che la vita mentale sia qualcosa di diverso dall’attività materiale del cervello sia sbagliata. Ma riteniamo anche che noi tutti, esseri umani, siamo stati progettati e costruiti dalla selezione naturale in modo tale per cui risulta facile credere che tale idea sia vera”[mia sottolineatura].
Onde il titolo: siamo nati, siamo stati fatti ,per credere. Credere: l’esperienza più pervasiva dell’esistenza dell’uomo. E’ stato fatto osservare che una rilevazione sociologica non avrebbe difficoltà a mostrare che, nel comportamento delle persone, gli atti compiuti per fede nelle quotidianità sono di gran lunga più frequenti di quelli sottoposti al controllo dell’ autoconsapevolezza critica.
Legrenzi (2008) parla di “vantaggi evolutivi”. Scrive: “L’ipotesi, per dirla in modo sommario e ipersemplificato, è che una specie che crede si adatta meglio al mondo di una che non crede: che i nostri antenati più disposti a credere siano riusciti a sopravvivere meglio in ambienti pericolosi, incerti, competitivi”.
Alcuni anni fa, nel 2006 per la precisione, sono usciti due volumi dallo stesso titolo: “Bisogno di credere”. Le autrici sono due psicoanaliste: Sophie De Mijolla, Julia Kristeva.
Dai vantaggi ai bisogni: si avverte un linguaggio di casa nostra!
E’ interessante questa coincidenza di messaggi; stesso titolo, stesso anno, cioè stesso momento storico. Due donne…è un caso? C’è una sensibilità diversa, più pronta a cogliere il bisogno? Il bisogno del bisogno?
L’anno prima, 2005, sempre in Francia, un’altra psicoanalista, Marie Balmary, fa uscire un testo: “Il monaco e la psicanalista”. Sottotitolo: “In dialogo per una autentica libertà interiore”. Marie Balmary la conosciamo: di lei avevo in casa un altro libro: “Il sacrificio interdetto”, sottotitolo “Freud e la Bibbia”. Dice Balmary nella introduzione: “Sono anni ormai che leggo l’opera di Freud e che leggo la Bibbia senza pensare di abbandonare né l’una né l’altra.”
Citare Balmary mi serve per rientrare nello specifico del mio titolo: accennare ai rapporti tra psicoanalisi e fede, in un’ottica dove si articolano e a volte si fondono “due letture…legate all’esperienza di vita”2.
Alcuni cenni sul bisogno di credere.
Secondo Sophie De Mijolla il “credere” riguarda una conoscenza che non può essere posseduta, ma è considerata possibile e necessaria. E’ ipotetica, perché si pone al di fuori dei limiti degli strumenti umani per conoscere. Questo vuoto conoscitivo viene riempito con una attività di tipo creativo che può essere definita credenza o fede.
Però essa è soggetta alle distorsioni e agli inganni.
Per De Mijolla una delle più importanti fonti del bisogno di credere non è la colpevolezza nei confronti del padre, né il desiderio di essere da lui protetto, ma il bisogno di stabilire una controforza che può opporsi alla melancolia, nata dalla perdita delle illusioni riguardanti, allo tesso tempo, sia l’onnipotenza infantile , sia le capacità genitoriali di relizzare un tale ideale.
L’altra autrice, Julia Kristeva, analizza il bisogno di credere da un punto di vista laico, quale essenziale attributo della vita umana, ma che finisce per diventare un bisogno di tipo “pre—religioso”.
Il bisogno di credere si struttura su due esperienze di fondo che corrispondono alle tappe in cui si forma l’apparato mentale.
La prima esperienza rimanda al “sentimento oceanico” di Romain Rolland, quale forma di una “intima unione dell’ Io con il mondo circostante, avvertita come una certezza assoluta di soddisfazione , di sicurezza”: su di essa si articola il bisogno di credere, di credere in una verità ultima che non si dimostra logicamente, che non si prova scientificamente, ma “che mi cade addosso”, perché la sento fonte di vita, assoluta e indiscutibile.
La seconda tappa consiste nella esperienza, ripetuta e profonda, che il mio essere è condizionato dalla accoglienza e dal riconoscimento di una presenza che mi ama.
Ritorno per un attimo a Marie Balmary e al suo “Il monaco e la psicanalista”.
E’ un avvincente racconto, scritto in forma di dialogo – da cui il sottotitolo – tra una giovane donna, psicoanalista, ebrea, agnostica, e un monaco benedettino.
Molto autobiografico, perché nella realtà Balmary è psicanalista lacaniana, credente cattolica e il monaco allude al fratello minore di Lacan, Marc-François, appunto monaco benedettino, con cui, sempre nella realtà, Balmary ebbe un incontro.
Che, da quel che dice nella introduzione, definirei tranchant, sconvolgente, una di quelle esperienze che buttano all’aria certi schemi che tu hai per leggere la realtà e creare una nuova comprensione.
Come dice il sottotitolo, in dialogo per una autentica libertà interiore.
Questo è lo scopo: tre parole, libertà, come un modo di dare senso, di concepire la vita; interiore, all’interno di te, nella realtà psichica; autentica, non solamente formale, di facciata, difensiva.
Avvertite come il linguaggio si approssima al senso di un’analisi?
Un piccolo inserto personale. Due anni fa, in un convegno, allo Stensen mi pare, sulle difficoltà di rispondere alle richieste dei pazienti oggi, feci un intervento in cui cercavo di precisare le peculiarità di un trattamento analitico, descrivendo tre snodi fondamentali che lo esprimono: dicevo che ogni trattamento
- propone un percorso di liberazione;
- permette e produce un processo di cambiamento;
- fa vivere una esperienza di relazione.
Liberazione, cambiamento, ma sempre all’interno di una relazione.
Balmary, sempre nella introduzione, dice: “Se ho scelto la forma del dialogo, non è solo per ripetere quanto ho vissuto, ma per collocarmi, anche con l’immaginazione,nel campo della parola che circola tra coloro che si ascoltano”[mia sottolineatura].
Due che si ascoltano: espansione del modello clinico della vicenda psicoanalitica dove ci sono – ricordate Luciana Nissim? – “Due persone che parlano in una stanza” (Nissim,L.,1992).
Non vorrei aver perso il filo del mio discorso: il punto è discutere sull’ analista credente, colui, abbiamo detto, che professa una fede religiosa. Che ne è, di questa fede, nella relazione analitica?
C’è una puntualizzazione da fare, prima: si possono distinguere due modi di professare una fede.
C’è una dimensione conoscitiva della fede ( o credenza) in cui predomina l’accoglienza della verità, accolta per la fiducia posta in una persona autorevole.
Credo in Dio, cioè credo nella esistenza di Dio; lo attesta la Bibbia. Credo nelle verità, nelle dottrine affermate dal magistero della Chiesa,.
In senso tecnico, si parla di fides quae (= la fede che si crede). Alcuni la indicano come fede noetica (dal gr. noûs= mente, intelletto: una fede che si vive col cervello!).
C’è poi una dimensione vitale, esperienziale della fede, in cui prevale un atteggiamento di accoglienza, di coinvolgimento, di impegno, di sequela. Credo in Dio, cioè nell’atto personale di adesione a Lui, come ricerca di tradurre in esperienze di vita i propri convincimenti di fede. In senso tecnico si parla di fides qua ( = la fede con cui si crede). Alcuni la indicano come fede fiduciale (una fede/fiducia che si vive con il cuore!).
Se pensiamo allo sviluppo di una persona, è chiaro che l’incontro con la fede che avviene in età infantile sarà prevalentemente attraverso una fede di tipo noetico: fatta di ingenua accettazione, marcata obbedienza, dipendenza, ricerca della protezione, timore per le trasgressioni, presenza di sensi di colpa. Il tutto mutuato dalla caratteristica delle relazioni infantili coi genitori, ora alla ricerca di un buon contenitore materno, ora legate alla attività di un Super-Io severo.
Viceversa, se la fede si mantiene in età adulta ci sarà certamente una spinta a cogliere l’altra dimensione della fede, quella fiduciale. E’ una fede che supera lo scoglio della adolescenza, dove viene a prevalere il desiderio di affrancarsi dalla dipendenza, con la legittima esigenza di prendere la vita nelle proprie mani e decidere del proprio futuro. Una fede fiduciale che può aprirsi, allora, a vivere le relazioni con altri, con la scoperta della socialità: relazioni improntate ai valori del bene comune, della reciprocità, del saper donare.
Riprendo l’interrogativo: che ne è della fede di un analista credente.
E’ innegabile che la fede investe la persona, forma delle convinzioni più o meno forti, si colloca tra gli aspetti che uno utilizza per dare un senso alla propria vita, può diventare un ideale e farsi trascinatrice di un certo modo di vivere.
Quando devo parlare della mia fede, a me piace precisare che sono credente e praticante.
Credente: cioè uomo di fede, ma di una fede che si nutre anche di dubbi e di incertezze, che non si riconosce in atteggiamenti fondamentalistici e neppure nella adesione acritica a rigide visioni dogmatiche imposte dall’ alto.
Praticante: inteso non tanto come partecipazione ai riti che la sua chiesa gli propone, quanto come ricerca di tradurre in esperienza di vita i convincimenti della fede: praticante = che mette in pratica.
Come Vattimo (1996) commenta: “E’ impossibile produrre discorsi religiosi senza assumersi il rischio di un impegno diretto verso le esperienze e i contenuti di cui parla”.
L’analista credente, come qualunque altro analista, porta il suo aspetto personale nel suo lavoro, specie in quello clinico; porta di conseguenza anche la sua fede, che è incarnata nella persona.
Subito si alza la paletta dell’altolà freudiano della neutralità. Laplanche e Pontalis (1993) così sintetizzano: ”L’ analista deve essere neutro quanto ai valori religiosi, morali e sociali, cioè non deve dirigere la cura in funzione di un qualsiasi ideale e deve astenersi da qualunque giudizio” 3.
Il problema della neutralità ha fatto, come si dice, scorrere fiumi d’inchiostro.
Fu impostata da Freud in modo rigido e perentorio – ma lui voleva solo difendere la sua creatura! -: lui parlò di analista specchio opaco, di un analista che doveva operare con la freddezza del chirurgo, temeva la comparsa del controtransfert.
Oggi la pensiamo diversamente. Il controtransfert, ad esempio, è diventato il nostro migliore strumento di lavoro.
La persona dell’analista è per forza presente quando si fa un’analisi, e produce degli effetti. L’analista ne è cosciente e sta a lui continuamente cogliere tutto quanto succede dentro di sé e che ruolo sta giocando. La formazione dell’analista – la migliore possibile – è il presupposto teorico-pratico della riuscita di questa continua vigilanza.
La fede: ho detto che la fede è incarnata nella persona, proprio per sottolinearne la radicale presenza, così è per la fede di un analista.
E’ una presenza cognitiva che riguarda l’adesione razionale a un credo, ma è soprattutto una presenza affettiva che muove emozioni profonde, esiti di come l’analista ha vissuto e strutturato le sue relazioni primarie.
Questa presenza affettiva gioca un ruolo molto importane, a volte insidioso perché, se non percepita dall’ analista, può finire per essere usata, agita, “contro” una corretta relazione.
Ricordo un paziente che diceva di me che gli era capitato un analista catto-freudiano. Venne da me non più giovanissimo; per tutta la vita aveva combattuto il suo orientamento sessuale, ma capiva di avere contraffatto la sua identità e si trovava come senza nulla dentro.
Quando si presentò e raccontò la sua situazione disse alla fine: “Che cosa voglio? Non essere consolato. Non che mi dica cosa fare. Ma…non so…sono qui.”
E’ chiaro: voleva ascolto.
Era persona molto sensibile e perspicace.
Capita, durate l’analisi, che aveva colto, in certi miei interventi, una mancanza di asetticità nei confronti dell’universo omosessuale: niente di diretto, ma una sfumatura di una espressione poco pertinente, o una aggettivazione poco appropriata, o forse un tono di voce particolare.
Ma tanto da fargli pensare che io dovessi appartenere a un mondo che condanna l’omosessuale, dunque che ero cattolico. E questo era vero.
In questo modo, la parte “cattolica” dell’analista non poteva che considerarlo un peccatore, per la parte “freudiana” era solo un malato da curare.
Così si era fregato: “peccatore e malato” non poteva ricevere l’ascolto accogliente desiderato.
Le diverse scuole di pensiero della psicoanalisi hanno trattato il concetto di neutralità in modo diverso. Direi che la maggior parte di esse lo mantiene, seppure considerato in una versione più attenuata, rispetto alla rigidità freudiana. Si parla per lo più di una neutralità benevola. Ad esempio, Green (2004) osserva che “la benevolenza non è in contraddizione con la neutralità. La benevolenza consiste essenzialmente in un atteggiamento di recettività comprensiva (senza per questo virare nella complicità)”. Ma subito dopo è costretto ad ammettere che “Recettività,disponibilità, uniformità d’umore, formano senza dubbio la configurazione psichica di un analista ideale che non esiste se non nei libri e nello spirito dell’analista”.
All’altro estremo c’è invece il pensiero della corrente intersoggettivista, che ritiene che, nella conduzione di un’analisi, non ci sia spazio alcuno per la neutralità; anzi, che il concetto non sia neppure possibile come ideale o come principio, perfino come umana possibilità (Renik, 1998 ). Alcuni di loro, i più intransigenti, si spingono a ritenere che il controtransfert è così profondamente inserito nel processo analitico che sarebbe corretto considerare ogni atteggiamento dell’analista come un enacment (Friedmann e Natherson,1999).
A differenza di quanto storicamente avvenne tra Freud e Pfister, dove la contrapposizione di pensiero sulla religione rimase a livello teorico, la neutralità è stata a volte utilizzata per confutare la possibilità del lavoro analitico di un analista credente.
Ne avemmo un esempio all’interno della SPI: nel Convegno a Seminari Multipli del 1987 venne proposto da parte di J. Amati Mehler e J. Canestri, un seminario che portava questo titolo: “Religiosità ed altre trascendenze: sono compatibili con la neutralità e con l’identità psicoanalitica?” Nell’abstract di presentazione la neutralità era definita un atteggiamento scientifico-oggettivante, necessario per l’operare psicoanalitico, e ci si chiedeva:
Possiamo pensare – seguendo Freud – [??!!] che un analista che professa in modo praticante una religione o coltiva modalità fideistiche o mistiche di pensiero, non sia condizionato da organizzazioni o difese psichiche che intralciano la necessaria neutralità profonda?”
Certo, pensare alla neutralità nei termini di un “atteggiamento scientifico-oggettivante” significa lasciare poco poco spazio alla persona dell’analista!
Ma può servire per rispondere affermativamente al secondo quesito: perbacco, un analista credente è condizionato da organizzazioni e difese psichiche che intralciano la necessaria neutralità profonda! Il timore è che questa secca affermazione suonasse: “dunque non è un analista”.
Ho ricordato questo convegno, intanto perché fu occasione di animato dibattito tra chi aveva posizioni diverse4, poi perchè diede lo spunto a me per attivarmi – sempre in un convegno a seminari multipli – e presentarmi per un seminario che ebbe questo titolo: “I dilemmi di un analista credente”. Frutto di quel seminario è stata la creazione di un gruppo di ricerca su “Psicoanalisi e Fede” che dura tuttora.
Vi avevo prima parlato dei due modi di professare una fede, quella noetica e quella fiduciale. Avevo fatto capire che la fede fiduciale è quella più espressiva di una persona adulta, dunque quella che dovrebbe essere assegnata a un analista credente ,che è adulto!, perché non se ne serva “contro” l’analisi. Ma non è così. Ci si mette “contro” l’analisi anche quando, ad esempio, si è troppo animati da sentimenti di fare del bene, il bene del paziente, ma che non è quello che pensiamo noi. Perché dimentichiamo che la nostra presenza nella stanza ha solo lo scopo di rendere possibile “il percorso di liberazione e il processo di cambiamento” del paziente, ma secondo strategie da lui scelte.
Dice Schafer: (1984): “Una delle tentazioni dell’analista, di cui ben approfitta l’analizzando indeciso, è quella di elagire saggezza, quando sarebbe più opportuno, per il lavoro che si sta facendo, analizzare saggiamente [mia sottolineatura]”.
E’ una tentazione che ci fa scadere all’operato del medico che risponde alla richiesta di cura del malato e gli prescrive pillole; così anche noi, che alle richieste del paziente rispondiamo elargendo pillole di saggezza, magari con una risposta puramente astratta di come funziona per lui la psicoanalisi in quel momento, ovvero sottoforma di buone parole, rassicurazioni, consigli.
Vengo alla seconda parte della relazione: l’attenzione va al silenzio, tema del convegno. Nello specifico, il silenzio dell’ analista credente.
Il silenzio è una delle condizioni che permettono alla parola di essere viva ed espressione di relazione. La parola detta sottintende un interlocutore che ascolta: di questo ci ha parlato Anna Ferruta.
I talk-show della TV, quelli politici soprattutto, dove chi parla viene sopraffatto dalle parole dell’ascoltatore,( mi correggo, non c’è uno che ascolta ), sopraffatto dalle parole dell’ interlocutore, è il triste negativo di una relazione. Le parole sono gettate contro , sempre più urlate, destinate solo a proclamare una propria verità, per offuscare le ragioni dell’altro.
Anna ci ha parlato del valore dell’ascolto, come un momento ricettivo di una relazione, in cui la mente si allarga per l’accoglienza delle parole dell’altro.
Parto da qui e mi metto nei panni di un analista credente che si trova nella particolare situazione di essere in silenzio, anzi, nella modalità di un ascolto silenzioso.
E’ un ascolto particolare quello di un analista credente ? Non penso proprio.
E il silenzio? Vorrei lasciare la risposta ai Colleghi che animano la tavola rotonda di oggi.
Mi limito a offrire qualche osservazione generale sul tema, caso mai interrogandomi come penso di esercitare il mio mestiere di analista.
Abbiamo detto che il silenzio dell’analista aiuta l’ascolto della parola del paziente. L’analista, a sua volta, parla, fa interpretazioni, che vanno a completare lo specifico del metodo psicoanalitico.
La relazione, i quei momenti si modifica: per l’analista non c’è più solo un ascolto ricettivo, interviene la sua parola, una parola che si dà, che si dona: una parola donativa.
Ritorno all’ascolto silenzioso : all’ascolto ricettivo nel silenzio.
Che cosa stiamo ascoltando? La parola del paziente. Una parola talora sofferente che chiede, una parola rabbiosa che si ribella, una parola seduttiva che cerca, una parola vuota che chiude.
La mia mente ascolta e costruisce rappresentazioni e immagini del paziente che sta parlando. Nel mio lasciarmi andare, nella rêverie bioniana, la mia mente può incontrare altre immagini, che riguardano ora me stesso ora altre realtà. Queste immagini si intrecciano a quelle del paziente. Tutto questo –come i sogni della veglia secondo Ferro5 – si offre alla mia vista, alla mia vista mentale, per dire che l’ascolto silenzioso ricettivo si arricchisce di un guardare, che mi fa incontrare più da vicino il paziente. Non è uno sguardo neutrale, perché è colorato di miei affetti ed emozioni, che rendono la relazione più intima.
In questi momenti non sono solo ricettivo (c’è l’ascolto nel silenzio), offro qualcosa di me al paziente, attraverso uno sguardo che diventa donativo, sempre nel silenzio ascoltante.
Ecco, sono forse momenti in cui l’analista è più vulnerabile rispetto alle sue coordinate personali e può far trasparire qualcosa nella relazione, nel caso particolare qualcosa legato alla sua fede. Se si tratta di quel tipo di fede che ho chiamato fiduciale, può essere più facile trovarsi a lavorare nella relazione con uno sguardo donativo.
Provo a spiegare i caratteri di questo sguardo con alcuni esempi.
Il primo esempio lo traggo da un ricordo personale. Ero agli inizi della carriera medica, ero divenuto neuro-psichiatra, lavoravo alla clinica Neuro dell’università.
Erano i tempi dell’ avvento dei primi psicofarmaci, fantastica illusione di dominare la malattia mentale. Non era ancora incominciata la rivoluzione basagliana, però si capiva che la cura del malato mentale doveva prendere in considerazione la persona del malato, per uscire dalle secche di una medicina tradizionale, dominata dal medico che dà la cura e il paziente che passivamente si adegua.
Ero molto sensibile a quelle tematiche, ed ero aiutato dalle letture, che cominciavano anche a parlare di psicoterapie. Erano psicoterapie di sostegno, dove abbondavano i consigli, gli incoraggiamenti, le prescrizioni. Si cercava di stimolare la collaborazione del malato a uscire dalla consueta posizione di dipendenza e prendersi cura di sé. Naturalmente non avevo alcuna preparazione teorica, impostavo i colloqui in modo del tutto naïf, animato a mia volta dal desiderio di fare il bene del malato.
Tra le letture, feci il felice incontro con Jaspers, col suo “Psicologia delle visioni del mondo” (1950). Testo che mi influenzò parecchio, tutto teso a presentare l’uomo in tutte le sue componenti vitali, anzi esistenziali – Karl Jaspers fu infatti, oltrechè psichiatra, un esimio filosofo esistenzialista -. Era diventato per me un prezioso vademecum da cui traevo ispirazione per il mio lavoro in Clinica Neuro.
Jaspers, fin dalla premessa, precisa che il suo testo “non vuole spiegare come si deve vivere”, né “dire ciò che nella vita conta”. Non vuole essere un testo pedagogico, che insegni a vivere. Cito solo un passaggio della premessa per far capire le suggestioni che mi dava.
“Il libro ha un significato esclusivamente per gli uomini che principiano a meravigliarsi, a riflettere su se stessi, a scorgere gli aspetti problematici del mondo dell’ esistenza, e, inoltre, esclusivamente per gli uomini che fanno esperienza della vita come di una responsabilità personale, irrazionale, una responsabilità che non può essere tolta di mezzo da nessuna cosa al mondo. Esso fa appello alla libera spiritualità e attività della vita, con l’ offrire dei mezzi di orientazione, ma non cerca di creare e insegnare vita”.
Sottolineo alcune parole: il principiare a meravigliarsi; la responsabilità personale, ma anche irrazionale; la spiritualità libera. Funzionavano in me come segnali indicatori quando mi muovevo nella attività di psichiatra.
C’è attinenza col discorso che ho fatto sul legame tra ascolto ricettivo e sguardo donativo? Sì!
A quel tempo non avevo ancora scoperto la psicoanalisi, non sapevo nulla di setting analitico, di transfert e controtransfert, ma di certo, per creare un incontro efficace col malato, usavo, di me, qualcosa, che , a ripensarci, collego con l’ espressione “sguardo donativo”. Volevo incontrare il malato in un modo diverso, nuovo, come lo desideravo: uno sguardo donativo, in cui proiettavo miei affetti ed emozioni.
In particolare, volevo pensare che quel malato avrebbe trovato in sé forze sufficienti per aiutarsi nella cura, finivo per nutrire verso di lui più fiducia. Ecco, era uno sguardo “fiducioso”.
Un secondo esempio: con un salto di quasi mezzo secolo, mi porto ai giorni d’oggi.
C’è un bel libro di Ambrosiano-Gaburri, “La spinta ad esistere” (2008), dal quale traggo un concetto che mi è sembrato molto connesso col nostro lavoro: Laura Ambrosiano parla di “tenerezza”. L’assunto principale del testo – come dice il titolo – è liberare e proteggere la spinta ad esistere, prima di tutto nel bambino, ma si può pensare questo di ogni persona che viene a farsi analizzare.
Dice Laura: “Noi intendiamo la tenerezza come una curiosità e un trasporto verso il bambino da parte di adulti che non si aspettano nulla in cambio. La tenerezza ha un accento di gratuità che corrisponde al bisogno del bambino di essere accudito senza dovere nulla in cambio”.
Una curiosità e un trasporto verso: qualcosa che parte dall’adulto, quel particolare stato d’animo chiamato tenerezza. Ma tenerezza accompagnata da un atteggiamento fondamenale: non mi aspetto nulla in cambio. Ecco la straordinaria novità, che ribalta la violenza di un rapporto possessivo, narcisistico.: “ se ti amo, tu mi devi amare”, “se ho un desiderio –come dice Piera Aulagner, tu devi essere il mio desiderio”.
Diventa una tenerezza donata, gratuita, che non esige niente in cambio.
Il bambino avverte che lo sguardo tenero del genitore gli lascia la libertà di seguire “la spinta ad esistere”, a vivere la propria vita.
Sto parlando del rapporto adulto-bambino, potrei dire le stesse cose per il rapporto analista-paziente. Uno sguardo tenero , che non vuole impadronirsi del futuro del paziente, diventa un altro modo per completare l’atteggiamento dell’analista , fatto di ascolto ricettivo nel silenzio.
Anche per il terzo esempio mi servo di un testo, questo è un testo letterario molto noto: “La leggenda del Grande Inquisitore”. E’ un breve racconto inserito nel romanzo “I fratelli Karamazov”, di Dostoevskij, stupendo per la intensità narrativa. Ha un trama semplicissima, in quanto si tratta unicamente di un incontro, che avviene in una prigione, tra due uomini, che poi si capisce che non sono due persone qualsiasi.
Riassumo la situazione. Siamo nella Spagna del ‘500, a Siviglia, “nel periodo più tremendo della Inquisizione”. Nella grande piazza sono stati bruciati sul rogo “un centinaio di eretici”. Il giorno dopo, sempre nella piazza, compare un uomo che passa silenzioso tra la folla, “con un lieve sorriso di infinita compassione”. E la folla, “attratta da una forza irresistibile”, lo riconosce. “E’ Lui…..è lui..”
Dice il testo: “Nella sua infinita misericordia passa ancora una volta fra gli uomini, nello stesso aspetto umano con cui, quindici secoli addietro, è passato tra loro per tre anni”. E’ chiara l’allusione ai Vangeli: Gesù Cristo è tornato sulla terra.
La gente si affolla attorno all’ uomo, grida, esulta, canta, invoca la “sua forza risanatrice”, e lui compie cose prodigiose, le stesse raccontate nei Vangeli.
All’improvviso, dalla cattedrale esce il Cardinale, il Grande Inquisitore, un vecchio novantenne. Guarda, intuisce, si incupisce, dice alle guardie di prendere l’uomo e portarlo in prigione.
Viene la notte: il Grande Inquisitore scende nella cella del prigioniero. E qui si svolge la drammatica scena dell’ incontro. Perché il Grande Inquisitore pone la domanda essenziale: “Sei tu? Sei tu?”, ma il prigioniero tace, limitandosi a guardarlo negli occhi.
Il Grande Inquisitore è così trascinato a fare un monologo, dove esprime – dice il testo- “il bisogno di rivelare finalmente tutto ciò che in novant’anni si è portato dentro, di dire ad alta voce tutto ciò che ha taciuto per novant’anni”.
E il prigioniero? Continua a guardarlo in silenzio: non è un silenzio neutro, passivo.
Il cardinale, nel suo solitario parlare , dichiara la sua concezione dell’uomo: gli uomini vogliono la libertà ma non la sanno usare e divengono angosciati. Rimangono bambini che vanno protetti; solo così saranno felici.
Ora qui non ci interessa il messaggio contenuto nel nucleo teorico delle argomentazioni del vecchio; è la modalità particolare dell’ incontro che ci attira e ci intriga.
Il prigioniero, “Lui”, ascolta in silenzio e fissa negli occhi il Grande Inquisitore. Il vecchio cardinale è disturbato da quello sguardo perché avverte che gli sta comunicando qualcosa.
Una prima volta si ferma durante la sua perorazione e dice: “Non lo credi? Mi guardi con dolcezza senza degnarmi neppure del tuo risentimento?”
E più avanti: “ E perché resti in silenzio fissandomi con questo tuo sguardo soave?
Arrabbiati, non voglio il tuo amore perché io stesso non ti amo”.
Il monologo finisce in modo drammaticamente shoccante.
Il Grande Inquisitore pronunzia la sentenza. Dice: “Giacchè se qualcuno più di tutti ha mai meritato il nostro rogo,…quello sei Tu! Domani ti consegnerò alle fiamme! Ho detto!”
E il testo così finisce:
L’Inquisitore tace, e per un po’ aspetta che il prigioniero gli risponda. Il suo silenzio gli pesa.
Fino a quel momento il prigioniero è rimasto in ascolto, fissandolo con uno sguardo dolce e penetrante, evidentemente deciso a non muovergli alcuna obiezione.
Il vecchio vorrebbe che gli dicesse qualcosa, foss’ anche qualcosa di crudele, di tremendo.
Ma all’improvviso, il prigioniero si avvicina al vecchio senza dir nulla, e sempre in silenzio bacia le sue labbra esangui, di novantenne.
Il vecchio sussulta. Gli angoli della sua bocca sono scossi da un fremito; si dirige verso la porta,la apre e dice al prigioniero: “Vattene, e non venire più…non venire mai..più”.
Be’, cari amici, non vi pare che possiamo leggere la scena come il racconto di una seduta analitica, una drammatica seduta analitica?
Dove il silenzio del prigioniero-analista è venuto incontro al bisogno del cardinale-paziente di dare finalmente voce a quanto aveva represso e inibito per tutta la vita?
Dove l’ascolto ricettivo nel silenzio del prigioniero-analista è stato accompagnato da una forte tensione emotiva che scaricava intensi sentimenti positivi che il cardinale-paziente percepiva e viveva addosso a sé?
E dove il prigioniero–analista era capace di stare vicino al cardinale-paziente, tollerare la sua rabbia e il suo odio, convertendoli in uno ”sguardo carico di amore”?
Spero di aver meglio chiarito, con questi tre esempi, l’ipotesi fatta, di un modo particolare del lavoro della mente dell’analista, che chiamo “esprimere uno sguardo donativo”. Ho detto che è un modo di pensare il paziente, un modo per essere a contatto con lui, quando l’analista privilegia il suo proprio sentire, fatto di affetti ed emozioni.
Esemplificando, ho parlato di uno sguardo fiducioso, oppure di uno sguardo tenero, o ancora di uno sguardo carico d’amore.
Nella angolazione del discorso fatto stamane, che è incentrata sul silenzio, ho precisato che lo sguardo donativo viene ad intrecciarsi col particolare modo con cui l’analista vive il suo silenzio (con ascolto ricettivo). Ma non sostengo che debba esserci il silenzio per produrre uno sguardo donativo. Sono piuttosto dinamiche particolari della coppia analitica che producono momenti favorevoli per poter esprimere sguardi donativi.
Prendiamo il terzo esempio. Certo, quel prigioniero è un analista molto molto particolare! Con grande acume psicologico, Dostoevskij dipinge gli sguardi in modo sublime: lo sguardo è dolce, è soave, poi ancora dolce e penetrante, con l’exploit finale del bacio, che materializza -mi vien da pensare – “uno sguardo carico di amore”.
Il Grande Inquisitore ha sentenziato: “Domandi ti mando al rogo”. “Lui” risponde con un bacio.
Dal racconto si intuisce che in quella interazione cardinale-prigioniero esistevano i “momenti favorevoli”. Per fare un confronto, nel rapporto col paziente che mi chiamava analista “catto-freudiano”, la coppia al lavoro, in quel momento del processo, non produceva quei “momenti favorevoli”.
Quello sguardo particolare che il cardinale percepisce e che alla fine lo sconvolge (il momento del bacio) rappresenta la risposta non violenta del prigioniero alla violenza espressa dal cardinale.
Ricordando chi è quel prigioniero, la risposta non violenta appartiene al messaggio universale d’amore che in lui si incarna e che si manifesta proprio nel momento in cui è condannato al rogo (= proprio nel momento in cui, quindici secoli prima, era stato condannato alla morte in croce).
Parafrasando il testo, mi permetto di considerare una coppia analitica in cui l’analista ha aiutato il paziente a esprimere tutta la carica di rabbia e odio che sta in lui, utilizzando anche sue proprie emozioni e affetti. Lo sguardo donativo aiuta il paziente a lavorare sulla propria aggressività, per poterla finalmente depotenziare della sua componente distruttiva.
Non penso di considerare la figura del prigioniero come un possibile modello per l’operare dell’analista credente, né a farne il patrono della confraternita degli analisti credenti!
La forza suggestiva del racconto, però, mi aiuta a considerare che la fede – ho detto incarnata nella persona dell’ analista – non è una presenza muta, ma che può trovare momenti favorevoli in cui esprimersi, come aiuto al paziente.
Tutto qui.
Grazie di avermi ascoltato.
Anche con uno sguardo? Spero uno sguardo di attenzione.
Riassunto
Viene precisato il senso dell’aggettivo “credente”.
Una rapida scorsa al significato del credere a livello antropologico.
La fede come atteggiamento di vita della credenza religiosa.
Nella pratica clinica, l’analista credente ha inevitabilmente a che fare con la propria fede, come ogni altro valore o ideale che investono la persona.
Il concetto di neutralità viene a volte indebitamente utilizzato per confutare la presenza della fede, come intralcio all’operare analitico.
Nella seconda parte viene esaminato se il silenzio dell’analista credente possa avere una specificità.
Viene elaborata l’ipotesi che nel silenzio, accanto all’ ascolto ricettivo, operi una possibilità “altra”, denominata “sguardo donativo”, in cui vengono espressi stati d’animo dell’analista che danno maggiore senso alla relazione analista-paziente.
Tre esempi vogliono chiarire la ipotesi.
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1¹ vedi le parole di Anna Freud nella prefazione del “carteggio” citato: “Nell’ambito domestico di Freud, lontano da ogni vita religiosa, Pfister – col suo abito ecclesiastico e con l’aria e i modi di un pastore – era l’apparizione di un mondo estraneo. Non c’era niente in lui di quell’atteggiamento quasi passionale e impaziente verso la scienza proprio ad altri pionieri dell’analisi che consideravano il tempo trascorso intorno al desco familiare soltanto come una sgradita interruzione delle loro discussioni teoriche e cliniche.
Al contrario, il suo calore umano e il suo entusiasmo, la sua capacità di partecipare vivamente anche ai piccoli eventi quotidiani affascinava i bambini della casa a faceva di lui un ospite sempre gradito, una figura umana a suo modo unica. Per i bambini egli era, secondo un’espressione scherzosa di Freud, non un “sant’ uomo” bensì una specie di “pifferaio di Hameling” al quale bastava suonare il suo strumento per vedersi seguito da una folta schiera assai ben disposta”.
2 M. Balmary precisa: “Quanto a me, mi sembra necessario, se intendo comunicare a mia volta il risultato attuale delle mie ricerche, non farlo senza raccontare nello stesso tempo il mio itinerario, sia come lettrice degli scritti biblici e psicoanalitici, sia come persona, per cui le due letture sono legate all’esperienza di vita. E, del resto, psicoanalisi e tradizione biblica non sono forse entrambe fondate su racconti che rendono conto rispettivamente di esperienze dell’inconscio e di esperienze del <divino>, termine vago che appare opportuno in questo avvio di percorso?”[mia sottolineatura].
3 Ricorda le parole taglienti di Freud , dette al Congresso di Budapest,1918: “Noi ci siamo decisamente rifiutati di fare del malato che si mette nelle nostre mani in cerca di aiuto, una nostra proprietà privata, di decidere del suo destino, di imporgli i nostri ideali e, con l’orgoglio del creatore, di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza per far piacere a noi stessi”.
4 Di quel Convegno abbiamo fortunatamente un resoconto, firmato da Emanuele Bonasia, apparso sul Notiziario SPI dell’ottobre 1987.
La maggior parte dei presenti dichiarò i propri dubbi e le proprie riserve – sotto varie angolature – sulla possibilità che un analista credente potesse essere veramente libero nell’esercizio della sua attività clinica.
Ci sono i nomi di Fossi, A.Kluzer, Flegenheimer, Schwarz, Caponeri, P.Kluzer, Bonasia e i due proponenti.
Sacerdoti, Semi e Baglivo fecero interventi teorici sui rapporti tra religioni e cultura e sul valore dei miti.
Venne anche letta una dichiarazione di Servadio sull’importanza delle religioni orientali per lo sviluppo dell’uomo.
Il resoconto dice anche: “Alla vivacità della discussione che è seguita hanno contribuito anche alcuni colleghi che hanno dichiarato la propria fede religiosa”. E questi furono Bigi, Riccio e Sommaruga.
5 E’ indicativa la predilezione di Ferro di utilizzare forme iconiche per descrivere il suo modello di funzionamento della mente, pieno di immagini, simboli, diagrammi, grafi, foto, per arrivare all’idea del pittogramma, nella formazione dei derivati narrativi. E’ veramente un pensare per immagini, sorretto dalla pulsione del guardare!
Un esempio: parlando della interazione tra identificazioni proiettive e rêverie, Ferro (2006)scrive: “Questa continua interazione è ciò che porta alla formazione di un contenitore e alla formazione di contenuti, così come la costante oscillazione tra posizione schizoparanoide e depressiva, cioè tra stati emozionali disaggregati (la tavolozza del pittore con tutti i colori) e stati d’animo definiti e compiuti (il quadro a cui l’artista dà vita utilizzando i colori)”.
Oppure, parlando di trasformazioni, Ferro scrive: “Alla base di queste operazioni c’è sempre la trasformatizzazione alfabetizzante che implica un processo trasformativo dalla sensorialità in immagini. E’ come se passassimo da una psicoanalisi che si occupa di filati a una psicoanalisi che si occupa degli strumenti per produrre i filati, o ancora più a monte, delle materie prime per costruire i telai”.