Che cosa fa, parafrasando Bion de “Gli elementi della psicoanalisi”, di un’esperienza, un’esperienza psicoanalitica? Domanda, questa, che potremmo riformulare anche scomponendola nei seguenti modi:
Quali sono le condizioni specifiche per le quali l’esperienza psicoanalitica possa definirsi tale, e come tale costituirsi?
E, dunque, in che consiste, in fondo, un’esperienza psicoanalitica?
Ed ancora, in che modo di una simile esperienza può darsi comunicazione al di fuori di essa stessa?
La tensione conoscitiva ed anche etica che da un lato sottende questo triplice piano di interrogativi ed a cui dall’altro il tentare di proporvi risposte impegna, è ciò che impronta di sé, mi pare, tutto il pensiero psicoanalitico di Giovanni Hautmann, per come esso si dispiega, nei suoi scritti, dalla fine degli anni ’60 – primi anni ’70, ad oggi; oltre ad animare il suo lavoro clinico, instancabilmente ed invidiabilmente appassionato, concepito come indissolubile dalla dimensione teorica.
Seguire, di questa riflessione di Giovanni Hautmann, il filo nel suo progressivo estendersi ed approfondirsi, per come esso si è dipanato, dall’incontro ora coi pazienti – lungo l’oscillazione delle dimensioni simboliche – asimboliche della mente, nella dualità analitica così come nella molteplicità seminariale, dentro quindi la seduta e dentro il gruppo – ora con i colleghi nei seminari e nei gruppi di lavoro, ora con le teorie psicoanalitiche, ora invece con le istituzioni psicoanalitiche, ora con discipline altre, affini o meno alla psicoanalisi; cogliere, cioè, in tale riflessione i punti di avanzamento, i nodi fondamentali nella trama di un pensiero la cui qualità elaborativa procede per successive riepilogazioni, ma da vertici prospettici, ciascuno sempre spostato di qualche grado rispetto al precedente, sì da illuminare ulteriori particolari, negli scorci fino ad allora tenuti in penombra; o viceversa rintracciare l’ordito di questa stessa riflessione anche in tutti quei lavori che hanno per materia temi in apparenza da questa riflessione lontani, che prendono origine talvolta dalla clinica – la psicosi, i borderline, le psicosomatosi, il narcisismo, l’autismo, certe patologie organiche, – e che spaziano dalle questioni tecniche – i problemi del setting, le interpretazioni, l’identificazione e la controidentificazione proiettiva – agli argomenti più generalmente teorici – la realtà psichica, il sogno, il pensiero, gli affetti -, dalle problematiche sollevate dall’interfaccia tra psicoanalisi, psichiatria, neurofisiologia, e branche diverse della cultura, alle dinamiche istituzionali e alle vicende della formazione degli psicoanalisti: fare qualcosa di questo, dicevo, sarebbe compito non agevole anche solo a prospettarsi nel breve tempo concesso.
Ma di questa tensione a cercare di avvicinarsi alla qualità psicoanalitica dell’esperienza, tensione che nel pensiero di Giovanni Hautmann s’intreccia strettamente, fin quasi a sovrapporsi all’interesse per l’organizzarsi della mente, nelle sue due facce della formazione del sé e dell’abbozzarsi del pensiero, o meglio per come tale organizzarsi può essere colto e pensato nella situazione analitica, e da lì prestarsi a supporre inferenze, di questa tensione costante, ripeto, vorremmo provare, questa mattinata, con Andrea Marzi, a rendere una qualche idea, richiamando attraverso le parole di Giovanni Hautmann stesso quelli che ci sono parsi punti salienti, capisaldi per il nostro personale lavorare come psicoanalisti. Andrea Marzi in particolare si occuperà di sviluppare, compatibilmente con il tempo a disposizione, il versante della formazione del pensiero.
La situazione analitica
Il concetto di situazione analitica è al centro della teorizzazione di Giovanni Hautmann fino dalla prima metà degli anni ’70.
E’ la situazione analitica, per Giovanni Hautmann, l’unità elementare della psicoanalisi. Essa è da intendersi come un’unità vivente, analoga per la psicoanalisi a quello che è la cellula per la biologia. E’ essa che conferisce significatività ai tre parametri che con la loro interrelazione integrante la costituiscono.
In altre parole ciascuno di essi, la fantasia – che è l’oggetto del lavoro analitico – l’interpretazione – che è lo strumento del lavoro analitico – il setting – che è la condizione entro cui si svolge il lavoro analitico -, e la concettualizzazione a ciascuno di essi sottesa, possono essere assunti nel modo più comprensivo di tutto lo spessore che il pensiero psicoanalitico ha prodotto, produce e produrrà su ognuno di essi; ma nessuno dei tre in se stesso fonda la situazione analitica che è invece fondata soltanto dalla loro relazione integrativa, la quale trasformando ogni parametro in funzione della situazione globale, conferisce a quest’ultima il valore di unità strutturale elementare, teorico – pratica della psicoanalisi.
Descrivendo in questo modo la situazione analitica, infatti, s’intende descrivere la psicoanalisi come METODO; essa trascende i singoli modelli e le teorie che pur imprescindibilmente entrano nell’operare di ogni analista, e costituisce la piattaforma che svela e realizza il fondamento comune della psicoanalisi, anche nella attuale condizione di pluralismo e di modelli e di teorie. E’, dunque, il metodo analitico, così descritto, ciò che è unitario nella psicoanalisi, racchiudendo in sé prassi e teoria, conoscenza e terapia.
Posta che sia l’inscongiungibilità dei tre parametri costituenti la situazione analitica, in quanto che l’identità di ciascuno è in funzione degli altri due, è tuttavia possibile astrarli dalla situazione analitica stessa, a scopo illustrativo.
Si intende per fantasia l’insieme relazionale del contenuto mentale oggetto di analisi, inteso in senso ampio, che comprenda cioè sia gli aspetti consci che quelli inconsci, sia il carattere reale del messaggio che quello immaginario, sia gli aspetti semantici che quelli sintattici del linguaggio comunicativo. Essa è in ultima istanza pensiero che può esprimersi a livello variabile di concretezza ed astrazione, corrispondente a gradi diversi di capacità di simbolizzazione.
L’interpretazione è ciò che riformula e traduce in linguaggio comunicante ed in nuove prospettive la comprensione della fantasia, registrando al contempo il tipo di contatto che il paziente sta vivendo, ed esprimendo nell’aspetto formale linguistico, cioè nel modo di organizzarsi come significante, la risposta dell’analista, testimoniandone così la sua partecipazione in una sorta di finzione ludica a sua volta possibile oggetto di nuova rielaborazione interpretativa.
Il rapporto tra fantasia ed interpretazione configura il processo analitico; esso riguarda l’evoluzione dell’organizzazione delle fantasie; pur fruendo del rapporto con la mente dell’analista, pertiene principalmente all’evolversi dell’analizzando attraverso l’analisi, cioè alla sua riorganizzazione mentale.
Il setting, infine, cornice della situazione analitica, è il supporto esterno per la realizzazione dell’assetto mentale di isolamento parziale che l’analista al lavoro deve realizzare. Isolamento in quanto necessario distacco dal mondo esterno all’analisi, attraverso la scoloritura e riduzione dei legami pulsionali e socio politici con esso, quindi con le fonti vitali della propria esistenza; onde si possa realizzare la condizione atta a quell’acciecamento che permette l’abitudine all’oscurità in cui cogliere i precursori delle emozioni del paziente in modo da mostrargliele prima che diventino troppo dolorose per lui. Parziale perché pur filtrata e scolorita, la realtà esterna resta presente, filo tenue ma consistente con tutto ciò che è, nell’analista, uomo intero; onde costituire sia il necessario sfondo su cui il flusso delle fantasie, del paziente, ma anche dell’analista, venga proiettato, e sia soprattutto un ambito di riferimento idoneo ad organizzare lo sviluppo del senso di realtà, che nel paziente scaturisce dalla elaborazione delle fantasie, con conseguente crescita delle capacità di simbolizzazione del reale. Il rapporto tra setting e fantasie è infatti la misura dell’instaurarsi del senso di realtà, lungo il percorso dell’analisi. Viceversa il rapporto tra setting ed interpretazione, per come quest’ultima entro il setting stesso scaturisce, configura la relazione analitica, che consiste in quella serie di fenomeni incentrati prevalentemente nella mente dell’analista, da cui viene improntata la relazione con l’analizzando, che vi corrisponde a sua volta.
Relazione analitica, contraddistinta dalla costanza lungo l’asse temporale, assieme al processo analitico, sotteso invece da vicende trasformative, l’una contenitore, l’altro contenuto sono, infatti, le funzioni del campo analitico, pur nella loro distinguibilità inseparabili nel punto a loro comune “interpretazione”.
Alla luce di tutto ciò è possibile visualizzare la costituzione della situazione analitica come un triangolo equilatero, ai cui vertici stanno appunto interpretazione (I), fantasia (F) e setting (S), ed i cui lati, tra di essi compresi, sono rappresentati appunto, da processo analitico (IF), senso di realtà (SF) e relazione analitica (IS). (1974,1979,1984)
Se dunque il triangolo analitico definisce le condizioni specifiche per le quali l’esperienza psicoanalitica possa definirsi tale e come tale costituirsi, che è il primo degli interrogativi di cui abbiamo detto all’inizio, in che cosa consiste quest’esperienza psicoanalitica? Come darne conto? (passiamo così agli interrogativi successivi).
La funzione psicoanalitica della mente
Soprattutto dai primi anni ’80, Giovanni Hautmann guarda all’essenza della psicoanalisi come all’operare di una funzione – pensiero che induce trasformazione e crescita, una funzione che tende a farsi cosciente continuamente di ciò e che organizza le condizioni necessarie e peculiari per potere autogenerarsi; e che si realizza nella sua maniera ottimale all’interno della situazione analitica intesa come metodo. (1981,1984)
Grazie alla condizione triangolare della situazione analitica, infatti, può fermentare il pensiero creativo atto a riorganizzare gli elementi della personalità totale dell’analizzando e ad attivare le più adeguate funzioni mentali dell’analista, necessarie a promuovere tale riorganizzazione.
Per Giovanni Hautmann tutto ciò può concettualizzarsi utilizzando il modello contenitore – contenuto, la dimensione continuo – discreto e la categoria verità – falsità. Per quanto riguarda il modello contenitore – contenuto, valido sia per la mente individuale che per quella gruppale, è noto che il cambiamento catastrofico, che ha tra le sue quattro componenti appunto la promozione di crescita, sia in senso positivo che negativo, coincidente appunto con lo scopo della funzione – pensiero che è l’essenza della psicoanalisi, può essere conviviale, simbiotico, o invece parassitario. Giovanni Hautmann sottolinea l’appartenere del legame conviviale e di quello parassitario alla dimensione del discreto, per il loro comune formarsi a seguito di un incontro puntuale tra forza contenitrice e forza contenuta, e per il prodursi da quest’incontro di un elemento terzo, nell’un caso fattore di crescita in positivo per la coppia contenitore – contenuto, nell’altro fattore di distruzione per la coppia stessa. Ascrive alla dimensione del continuo, invece, il legame simbiotico, che scaturisce quale terzo elemento del fruttuoso incontro conviviale contenitore – contenuto e costituisce una condizione di reciproca interdipendenza vantaggiosa, anche se non sempre immediatamente percepibile per la crescita di entrambi: e tale ascrizione proprio per la possibilità di leggervi la stabilizzazione di un momento puntuale conviviale, per la mancanza della produzione di un terzo elemento e per la sua cripticità.
Ma è fondamentale tenere anche presente la categoria verità – falsità, la quale ha a che fare col grado di possibilità che ha il pensiero (K) di percepire e rappresentare la realtà ultima (O). Nel tentativo di cogliere ed esprimere O, il pensiero K, oscilla tra gli estremi di restare al massimo se stesso (O -> K) e all’opposto di farsi O (K -> O), pensiero che rappresenta l’oggetto da un lato, pensiero che si fa oggetto dall’altro lato. E’ dal rapporto tra la natura di O e le qualità di K, da cui dipende perciò il destino conviviale, simbiotico e parassitario, della trasformazione in O : nel senso che il pensiero dell’analizzando (contenitore) oscilla tra il farsi O (massimo della verità) rispetto alle forme del proprio essere (contenuto), e così fa rispetto ad esse il pensiero dell’analista, stabilendo in questo modo un legame conviviale, ed invece il farsi -K, (massimo della falsità), costituendo così difese parassitarie rispetto alla verità. L’uno e l’altro, O e -K, elementi discreti, cioè di discontinuità.
E’ la capacità, sostenuta dall’analista, del continuo ritorno da O e da -K in K attraverso la trasformazione in pensiero linguaggio che garantisce invece quel gradiente di continuità tale da permettere la tolleranza di discontinuità. Il momento condiviso dell’interpretazione, quale espressione del riassorbire l’O in K, è il luogo dell’incontro simbiotico tra analista e analizzando che reintegra nella continuità relazionale, con mutuo vantaggio, i momenti discreti di un incontro ad altro livello, proprio quei momenti discreti di qualità conviviale che hanno dato origine, quale terzo elemento, alla condizione dell’ interpretazione.
Nella continuità si forma un pensiero, una pellicola di pensiero, dice Giovanni Hautmann, cioè una trama che integra i momenti discreti della evoluzione mentale; la bipolarità continuo – discreto è indispensabile per promuovere la crescita.
Questo è il luogo dell’intreccio fra la teorizzazione dell’esperienza psicoanalitica e la teorizzazione del pensiero nella visione di Giovanni Hautmann, intreccio cui accennavo all’inizio, e che diviene talmente stretto, da esitare in una sorta di equivalenza del concetto di esperienza psicoanalitica e di quello di nascita psichica.(2007)
In altre parole si potrebbe dire che la mente è coinvolta nella costruzione della psicoanalisi su un piano esperienziale, che coinvolge la dimensione conscia ed inconscia, e perfino gli strati più corporei, ma ha la necessità di saltare fuori da questa condizione per ripensarla ad un livello di astrazione che di questa esperienza stessa si alimenta ed a cui offre uno sfondo necessario di significazione. Ciò evidenzia l’esigenza, per Giovanni Hautmann, della costruzione teorica – metapsicologica quale bisogno intrinseco alla situazione analitica stessa.
Guardando al più particolare vertice della mente dell’analista, vertice privilegiato in questa teorizzazione, che affianca ed ingloba punti di vista più consueti quali quelli di relazione analitica e di campo, Giovanni Hautmann chiama funzione psicoanalitica della mente (1981), quella disposizione mentale dell’analista, che ha per fine la realizzazione del lavoro analitico nella sua specificità. Come ogni funzione essa ha bionianamente dei fattori, che possiamo variamente enumerare, per esempio la capacità di ascolto, la capacità di aggiustare la distanza, la capacità di tradurre in parole e di fare silenzio, la capacità di richiamare il pensiero teorico e di lasciarlo scolorire, etc. etc.; il loro rapporto con la funzione stessa è, a sua volta, concettualizzabile secondo i modi già espressi, modello contenuto – contenitore, categoria verità – falsità, etc.
Ma Giovanni Hautmann ritiene che tale funzione psicoanalitica della mente, operi, al suo più elementare livello, attraverso l’immaginazione iconica, l’immaginazione visiva, il che può realizzarsi in forme differenti, a seconda del grado di fluttuazione regressiva in cui l’analista si trova per le proprie modalità relazionali di porsi col paziente, o per vicende controtransferali più o meno connesse con le modalità relazionali del paziente stesso. Se tale componente visiva può risultare ora meno evidente ad un livello di funzionamento egoico più integrato, ed ora invece avvicinarsi sempre più, anche nel suo aspetto fenomenico, alle forme del sogno, nelle condizioni di regressione funzionale, laddove cioè le funzioni dell’Io sanno temporaneamente ritrarsi, tuttavia è sempre essa il primo livello di organizzazione simbolica che entra in opera nella mente dell’analista, l’anello necessario anche se certo non sufficiente per una attribuzione di senso.
Tale immaginazione visiva pertiene alla mente dell’analista al lavoro, ma assomma in sé anche una qualità relazionale derivante dall’apporto complementare e/o sintono da parte del paziente, che è fonte delle afferenze acustiche, motorie, affettive e visive, quest’ultime in particolare con la sua propria attività onirica. Il grado di verità, cioè di trasformazione in O, che questo primo livello di simbolizzazione visiva raggiunge – forme iconiche di K, si possono definire -, dà ragione della qualità conviviale o simbolica, piuttosto che parassitaria del legame tra fattori e funzione analitica.
Le dimensioni della psicoanalisi
Tale primato del visivo nel processo del conferimento di senso spiega la fondamentalità della emozione estetica nello sviluppo del pensiero, il che segna l’elemento caratteristico del modo di intendere la psicoanalisi per Giovanni Hautmann, in una perenne oscillazione tra la dimensione scientifica, per così dire, e la dimensione artistica.
Ma a queste due dimensioni ricorderei esserne sottesa un’altra, non meno forte, che le include entrambe, ed è la dimensione etica; anzi, il fondamento scientifico della psicoanalisi ed il suo fondamento etico costituiscono le facce di una stessa medaglia, in quanto la tensione realizzatrice del metodo è, infatti, anche l’impegno etico specifico della psicoanalisi; ciò riguarda, ovviamente, non solo l’impegno al rispetto assoluto del setting anche come controllo del proprio assetto mentale, non solo il perseguimento della possibilità di formulazione, attualizzabile o no, della interpretazione, non solo lo sforzo verso l’optimum della qualità dell’interpretazione come luogo in cui la coscienza morale dell’analista misura lo scarto tra quanto è possibile fare e quanto viene fatto, ma anche la necessità che l’analista senta e consideri la comunità analitica come suo obbligato referente con cui cercare la comunicazione, giacchè ogni tentativo di trasmettere un’esperienza analitica non potrà prescindere dall’altra esperienza, quella cioè di condividerlo ed elaborarlo a livello scientifico nel gruppo.
“Una volta che l’analista è arrivato all’esperienza piena di cosa sia la psicoanalisi in questo senso metodologico firma un patto con se stesso e con chi a lui chiede una psicoanalisi che non può tradire – scrive Giovanni Hautmann -; se ci sono le condizioni per realizzarla, insieme alla scelta concordata e alla vicendevole volontà, ogni altra forma di prestazione, anche di per sé terapeutica, non può essere contrabbandata per psicoanalisi.” (1994)