Venerdì 25 ottobre 2013
Fish Tank
di Andrea Arnold
(Gran Bretagna, Paesi Bassi 2009, 123′)
Mia ha 15 anni, vive con una madre più ‘adolescente’ di lei, ha un carattere turbolento, nessun amico e l’hip-hop per esprimere sé stessa. Quando in casa arriva Connor, il nuovo amante della madre, sembrano esserci le premesse per la costruzione di un nucleo familiare. Ma tra Connor e Mia si crea un’ambigua tensione che spezzerà il sogno illusorio e porterà la ragazza a fare chiarezza sui propri bisogni.
Commento di Arianna Luperini
Un’opera, un’espressione artistica riesce ad avvicinarci, a farci penetrare una condizione umana, in Fish Tank l’adolescenza; un’opera è capace di “contenere” quella molteplicità di variabili biologiche, culturali, sociali, psichiche, che sono peculiari a questo stato e di offrircele in una maniera immediata, saltando, in un certo senso, tutti i passaggi che la ragione può e deve attraversare nell’analisi di un oggetto della conoscenza, tutti quei passaggi che la ragione puo’ però anche frapporre tra colui che conosce e ciò che intende conoscere.
Fish Tank, ci offre in primis, un‘esperienza, un ‘esperienza di conoscenza emotiva.
Credo che stare dentro le storie, e in questo il cinema è magistrale rispetto ad altre forme d’arte, attraversarle, e così ascoltarle affettivamente, ci fa capaci di incontrare condizioni psichiche, magari molto diverse da ciò che stiamo in quel momento vivendo, e ci offre l’opportunità di conoscerle, comprenderle e, per un attimo(un attimo dalla qualita’ indelebile), condividerle davvero.
Se ogni esperienza estetica è portatrice di conoscenza e per questo ci aiuta a dare un senso a ciò di cui in maniera diretta o indiretta ci troviamo a fare esperienza,e’ in questa capacità di dar senso, io credo, che il pensiero psicoanalitico può incrociare la sua strada con l’espressione artistica.
E’ da questa prospettiva,da questo sentimento di s/confinamento che vi propongo alcune riflessioni su questo film. Proverò a tirare un filo dal tessuto che è l’esperienza intera del film.
Fish Tank, acquario, vasca dei pesci; per me non è stato affatto immediato capire quanto questo titolo fosse pieno di senso, la sua profondità di senso,simile a quella di alcuni elemento del sogno.
Fish tank, vasca per i pesci, acquario. quando ho visto il film la mia prima associazione del titolo è scaturita da un momento del film in cui la regista ci racconta la pesca di un pesce in uno stagno. Ora pero’ credo che il mio pensiero ha seguito,in quel momento, la direzione opposta a quella che l’autrice propone nel film, perché, solo dopo, mi è apparso come la Arnold ci racconti come e’ l’acquario invece che può “diventare” lo stagno e poi il mare.
Questa periferia in cui prende vita, è proprio caso di dirlo, il personaggio della storia, Mia, è proprio un non luogo dove i palazzi sembrano enormi acquari dove gli esseri umani sembrano senza una direzione. Nelle case le televisioni accese sono anche loro specie di acquari e Mia, adolescente sempre veloce nell’andatura, non sembra sostanzialmente andare da nessuna parte, ma sempre un po’ come se cercasse una via di uscita dalla sua stessa condizione che pare quella del pesce di un acquario, per altro dominata da un sostanziale silenzio di espressione verbale, tutta azione. Un acquario in tanti sensi . Se vediamo Mia come quel pesce dell’acquario,in un certo senso ci possiamo domandare “ma il pesce nell’acquario è vivo o è morto?”.nel senso di una mancanza essenziale di definitezza.
Forse potremmo dire che” non è né vivo né morto”. L’acquario è ripetizione e quindi immobilita’ sostanziale (non c’è il dolore e non c’è il piacere (non c’è mare mosso e quindi non c’e’ mare calmo).
Insomma l’acquario credo che possa parlare di una limitazione che, al di là di ogni apparenza linguistica, è proprio un concetto e un’ esperienza altra dal sentimento di un limite. E’ quello che pare mancare completamente nella mente di Mia; e forse il film ci racconta proprio il passaggio da sentimenti di limitazione a sentimenti di limite, il limite della tela che permette al pittore di dipingere.
Fish tank narra l’accesso a una esperienza , l’esperienza di una funzione paterna, la cui totale assenza pone Mia in una condizione di indefinitezza.
E questo incontro pare funzionare anche se avviene attraverso l’incontro con una funzione paterna che la espone al dolore del tradimento di questa stessa funzione. Forse potremmo dire che Mia percorre una strada che conduce da un’inesistenza di padre a una mancanza di padre. Può perdere ciò che ha avuto.
La storia ha inizio con una Mia che si muove in un acquario esterno come interno, vediamo una ragazza senza padre con una madre ragazza o forse bambina, incapace di avere una relazione con lei, bloccata in una conflittualità senza direzione. E’ una relazione fusionale
Nessuna esperienza di regola, di limite è disponibile per Mia e lei si trova bloccata a sbattere nelle pareti dell’acquario fatte di sentimenti che appartengono all’infanzia come all’età adulta ma che gli sono in un certo senso inaccessibili, non possono essere sentiti può solo sbatterci contro fisicamente, attraverso azioni, come la testata che, nelle prime scene del film, da alla coetanea rivale e che contiene tutto il suo dolore per l’esclusione, ma che alla fine può essere solo una testata. L’unico estremo limite di cui Mia può far uso è il suo corpo che però è a sua volta negato (anche il suo abbigliamento e’ fatto di un non vestito).
Solo la danza, attraverso il corpo, ma non solo, è, in una certa misura la possibilita’ ( che Mia “segretamente” coltiva e protegge) di un’ esperienza di regole.e lo fa attraverso l’ascolto della musica, il seguire un ritmo, il rispetto delle sequenze codificate dei movimenti, con i difficili equilibri del corpo che richiedono il rispetto delle regole della fisica e quindi della natura.
È veramente bello vedere come un processo evolutivo possa essere racchiuso in due immagini nel linguaggio del cinema: all’inizio del film la Arnold ci offre la scena di Mia che tira sassi alla finestra, usa le parole come sassi, e in una delle ultime scene la regista ce la fa vedere, in un’inquadratura stretta, nell’atto di allacciarsi un braccialetto, come se la sua identità, prima di tutto nel suo essere declinata al femminile, potesse cominciare a dispiegarsi.
Ma qual è il motore della trasformazione? nel cinema, nelle storie, non a caso si chiama antagonista, perche’ e’ qualcosa che fa attrito, e’ cio’ che fa andare avanti la storia . credo che in questa storia di adolescenza, nell’adolescenza, sia l’incontro con una funzione paterna, un’ esperienza di padre. e le scene del film che lo raccontano sono tante come quando Connor( compagno della madre) mette a letto Mia, la fronteggia nelle sue sfide, la sostiene nel suo sviluppo, dandole la telecamera e soprattutto il suo apprezzamento, le cura il piede ferito, la porta in braccio,e, parte essenziale, quando la conduce allo stagno, in un luogo vivo, dove i pesci vivono liberi e per questo possono correre il rischio di essere pescati. E’ li che lui le insegna una cosa,le insegna a pescare, e lei accetta che lui le insegni una cosa. Accetta di apprendere, con questo ammettendo di essere mancante, di possedere dei limiti. e nonostante si ferisca (come succederà anche nel rapporto con Connor) si assiste al rimettersi in moto del processo di maturazione,di crescita.
Forse è per questo, me lo chiedo, che la Arnolds ci da un primo piano del pesce che boccheggia, il pesce non è ne vivo ne morto, è in quella zona di passaggio che chiede definizione, proprio quella definizione che avviene per mano di Connor che ne procura la morte.
Ed è ciò che si ripete nel rapporto di Mia con la cavalla, che fino ad un certo punto è quel nascondiglio che Mia usa per metterci tutti i suoi sentimenti, di angoscia, di tenerezza, di cura, di amore, un amore che ha già una sfumatura materna, un colore al femminile.
( e anche li è una figura maschile, il coetaneo, possibile partner reale, ad essere portatore del limite “ l’abbiamo uccisa” )
Insomma mi sembra che guardando il film noi vediamo una adolescente, Mia, fare esperienza di una funzione paterna e siamo messi in condizione di viverne anche la fragilità (nel film la fragilità è disegnata nel personaggio). La Arnold, in questo modo, riesce a raccontarci una fragilità intrinseca alla funzione paterna stessa; e nel contempo la storia ci fa però vedere, e sarebbe meglio dire sentire, come sia questa funzione, quella paterna, a essere deputata a porre limiti rispetto alla funsionalità della relazione con la madre, il limite rispetto alle fantasie di onnipotenza ( non ho bisogno di niente – faccio da sola).
E’ l’onnipotenza infantile che può così lasciare il posto a un rapporto autentico con la realtà ( mare mosso e mare calmo) dove piacere e dolore come ogni registro dei sentimenti ha diritto di esistere.
Connor non è il padre naturale di Mia e questo elemento e’ coniugato con l’indefinitezza del primo sguardo che Mia rivolge alla schiena dell’uomo. Che sguardo e’? è quello di una bambina arrabbiata e gelosa? di una donna che guarda un uomo? È gelosa della madre? È gelosa dell’uomo? Del padre? Si sente esclusa dalla relazione della coppia? Tutto questo mi pare che l’autrice ce lo dia come contemporaneamente vero o possibile.
Ma questi elementi che si intersecano e si sovrappongono, ci immergono in quella ambiguità dei pensieri e dei sentimenti che forse e’ una qualita’ del vissuto che più di tutto ci racconta come ci sia un elemento intrinsecamente ambiguo nella funzione paterna, nel suo non essere evidente per natura,del suo non essere,come la maternita’, saldata alla sessualita’, ma dell’essere invece così esposta ad aspetti sociali culturali oltre che psichici. È qualcosa che ci da conto della sua fragilità quanto della sua necessità.
Se pensiamo a Mia quale rappresentazione peculiare dell’adolescenza, vediamo che mentre questa ragazza mostra tutta “l’esposizione” alla vita così peculiare a questa condizione psichica, a questo momento dello sviluppo,nello stesso tempo mostra anche tutto il potenziale di risposta, di buona risposta, di fronte ad un esperienza di limite, di cura, di contenimento, di ascolto e molto altro, e anche per quanto quest’esperienza possa essere stata a un certo punto trasgredita ( ma in fondo solo le regole possono essere trasgredite).
Insomma mi sembra di poter dire che l’avvento della figura paterna nell’acquario di Mia è qualcosa che lei riesce ad usare e così il processo di sviluppo si rimette in moto.
È ciò che gli da la possibilità di venir fuori e così prendere il mare. (verso una progressiva maturazione che può condurla a divenire una vera adulta.)
Come vi avevo premesso, questi pensieri costituiscono solo il tentativo di tirare un filo mentre Fish Tank, in quanto opera artistica, ne possiede così tanti che molti altri potrebbero essere i punti di vista da cui guardare e così i temi da osservare più da vicino. La relazione di Mia con la sorellina, o il rapporto che ha con la madre, impregnato di sentimenti di rivalità (anche da parte della madre), una madre che nonostante sia disegnata come sfinita, animata da una forma di violenza che è solo espressione di debolezza, quasi da proteggere, tanto è il suo venir meno come madre, e insomma,nonostante tutto, un rapporto che la regista ci fa vedere anche attraverso i tentativi di imitazione di Mia che parlano del bisogno di un oggetto di identificazione e che nella danza finale(corpo) pare aprirsi ad un altro registro della comunicazione..ma questo è un’altro filo….
E cosi la relazione con il ragazzo, una relazione piu’ libera dalle fantasie infantili. sembra che questa relazione per Mia diventi davvero possibile, solo prendendo le mosse dall’abbraccio con quella parte di se bambina , che Mia stringe a se, quella bimba che ha appena cercato di buttare nell’acqua, di buttar via in tutti i sensi, di liberarsene, con tutti i sentimenti che portava con se.
Nella storia Mia compie un passaggio che le permette di prendere una direzione, la sua, sentire i suoi sentimenti, piangere per una morte, soffrire per una separazione, cercare la propria musica per raccontare la sua danza.
L’acquario è un luogo muto; non è la gabbia da cui può comunque raggiungerci il grido di dolore e di rabbia; e mentre finivo di scrivere questa nota ho pensato a quelle psicopatologie come l’anoressia che fanno per lo più il loro esordio in adolescenza, e ai tanti legami che hanno, nel loro strutturarsi come tali proprio in questa età, con il silenzio inteso in tanti modi.
Silenzio delle proprie emozioni, silenzio delle emozioni e dei sentimenti degli altri.