Testo dell’intervento di Anna Ferruta per la giornata
DIALOGHI APERTI -AUTORI LETTORI PUBBLICO
Firenze 11 maggio 2019
Bastianini T., Ferruta A., (2018). La cura psicoanalitica contemporanea. Fioriti, Firenze.
Vorrei soffermarmi su ciascuno dei termini che costituiscono il titolo del libro: cura, psicoanalisi, contemporanea.
Contemporanea: sicurezza- setting
Quello che conosciamo della mente e della cura è poco, molto resta ancora da conoscere. Questo può ingenerare entusiasmo per la ricerca e anche insicurezza, senso di precarietà, desiderio di fermarsi e consolidarsi in solide certezze.Pensiamo alle diffidenze, resistenze, ostilità, incontrate da scienziati che si sono avventurati in territori sconosciuti del vivente, come Pasteur e Darwin. Molte meno resistenze ha incontrato Einstein, che si è occupato invece delle conseguenze a livello della concezione e percezione del tempo di un nuovo modo di concepire la materia e le trasformazioni tra massa e energia.
Si possono citare esempi di scienziati che hanno dovuto affrontare e superare non poche difficoltà per vedere accettate le loro scoperte, che mettevano in crisi certezze acquisite e ridimensionavano il narcisismo dell’essere umano che si sentiva al centro dell’universo, restituendogli però un ben più prezioso e solido narcisismo, fondato sulla capacità di conoscere l’ignoto e sulla base di questo di costruire modi di convivenza migliori, rispettosi dell’altro e di sé.
Luigi Pasteur (1822-1895), figlio di un conciatore di pelli di Dole, un villaggio con un fiume maleodorante per l’odore delle pelli trattate in incipiente putrefazione, iniziò a mettere in discussione la teoria fino allora accettata della generazione spontanea dei microrganismi e a ipotizzare e verificare con esperimenti su animali la teoria che i fenomeni infettivi derivano dalla proliferazione di microrganismi generati da altri esseri viventi, il che diede inizio alle pratiche di disinfezione (la pastorizzazione) e di vaccinazione. (Ferruta, 2000).
Charles Darwin: viaggiò per 5 anni (1831-1836) lontano da Londra sul Beagle, un piccolo vascello di due alberi poi rafforzato a tre, lungo 27 metri, in cui divise la cabina di 3 metri per 3,5 con due altri membri dell’equipaggio, e dove dormì su un’amaca sopra il tavolo a mezzo metro dal soffitto. Darwin nel corso dei cinque anni ne passò due terzi a terra a studiare le strane specie (mandando a Londra 1500 campioni da esaminare) e incontrò i luoghi e i fenomeni più imprevedibili. Poi una volta rientrato a Londra, pur mantenendo i rapporti con la Geological e con la Geographical Society, decise di ritirarsi per approfondire gli studi a Down House, una casa a 25 chilometri da Londra, in un villaggio di 400 abitanti, dove passò tutta la vita con la moglie e i dieci figli, a studiare appunti e reperti e a cercare di comprendere l’enigma di specie differenti viventi in territori contigui, che a poco a poco gli permetterono di comprendere la comune discendenza da progenitori simili, sollecitati a cambiare dal rapporto con ambienti più o meno favorevoli. Sembra che la congiunzione tra la grande apertura senza limiti del viaggio per mare, e la concentrazione sul dettaglio e la passione per l’oggetto a cui dedicare la propria vita nel viaggio intellettuale entro le strutture solide e definite di Down House sia una caratteristica importante: l’apertura potenzia il limite e viceversa.
Occuparsi profondamente di un oggetto, anche chiusi in una stanza, apre mondi: un’evoluzione della specie può avvenire attraverso una congiunzione speciale tra narcisismo sano che richiede stabilità (quella del sonno, la massima espressione di narcisismo, nella quale tutti gli amori e investimenti spariscono e il soggetto si immerge nell’unico interesse per sé, anche se inseguito dagli affetti per gli altri che colloca nelle figure dei sogni) e curiosità aperta a tutto ciò che destabilizza gli assetti già acquisiti, con il fascino dell’ignoto e di ciò che di noi e dell’altro e del mondo non conosciamo.
Gli esseri umani desiderano scoprire nuovi mondi, sia per far fronte al disagio del vivere, sia per un desiderio di esplorazione, Seeking già presente nel bambino piccolo.
Ma il desiderio di sicurezza è altrettanto forte, il desiderio di non mettere in discussione certezze acquisite e contemporaneamente tracciare la strada per raggiungerne altre.
Freud e la psicoanalisi aiutano a comprendere questa tensione tra il desiderio di nuove acquisizioni personali e sociali e la necessità che ciò avvenga in un quadro stabile che fornisca le basi della vita.
In questo senso, la psicoanalisi che ha nel setting il suo strumento base è ben consapevole dei modi e delle forme necessari per muoversi nella direzione degli sviluppi contemporanei.
Il libro si pone in questo solco per tentare di dare una risposta alle domande poste dalla cura, specie delle situazioni traumatiche precoci poco accessibili con il solo strumento della parola e da raggiungere attraverso una profonda condivisione di comunicazioni inconsce e un ascolto aperto che lascia l’analista particolarmente esposto a sua volta a traumatismi e burn out.
La specificità della ‘situazione analizzante’ (Roussillon, 2015) consiste innanzi tutto nell’offrire un ambiente sicuro (Balint, 1968) nel quale sia possibile lasciare aperto l’accesso ad aspetti che premono per essere integrati. Un setting come ambiente safe, nel quale l’analista si propone come garante di una condizione in cui non ci saranno giudizi, condanne, apprezzamenti, prese di possesso, eccessi di tempo e luogo, nella quale si predispone uno spazio-tempo nel quale possono avvenire eventi relazionali (Ferruta, 2013).
Cura: Relazione
La cura è il paradigma antropologico fondamentale che rende possibile l’umana convivenza invece che scissioni, split, muri. La psicoanalisi è una forma di cura che richiede la partecipazione attiva del soggetto, anche del bambino piccolo, e aspira a evitare i traumatismi infantili. Il libro si occupa della cura con patologie una volta inaccessibili e con modalità spazio-temporali possibili per avere un’esperienza psicoanalitica in un mondo in movimento. Non si può rinunciare a curare ergendo muri e barriere, a costo della contaminazione.
L’evoluzione della cura per un’umanità in cambiamento non può essere il tentativo di imprigionarla in schemi mortificanti: ricette, prescrizioni, ammaestramenti. Per gli esseri viventi che cambiano continuamente in un attivo processo metabolico con l’ambiente, la stabilità è scandita da un ritmo, inanzi tutto quello circadiano sonno/veglia, e il limite è costituito dai confini porosi dell’Io-pelle, definito e aperto a ricevere e a scambiare con gli altri immagini, suoni, sapori, odori, temperatura. Si tratta di concepire la cura come un processo che coinvolge il soggetto e l’ambiente insieme. L’ambiente è costituito dalle relazioni in cui ciascuno è immerso e dalle condizioni che rendono possibile vivere in relazione: un ambiente la cui funzione non è quella di essere fonte di gratificazione, ma quella di contesto stabile interumano che permette il movimento, cioè la crescita e lo sviluppo di potenzialità in gruppi sociali più o meno organizzati. L’evoluzione della cura comporta il pensare a un ambiente in cui si respiri a contatto con gli altri, uscendo da un soffocante reticolo di prescrizioni limitanti, incontrando invece la vibrazione del rispecchiamento empatico alla comunicazione personale e unica del soggetto.
Per l’evoluzione della cura abbiamo bisogno di capire di più su quello che permette a soggetti umani di vivere e stare bene insieme. Abbiamo bisogno di visioni di insieme, in modo da uscire dalla reattività immediata alla percezione evidente di un disagio, che vale come dolore, sintomo, segnale, ma che non contiene la risposta alla sofferenza nel fare semplicemente l’opposto: ad esempio, tracciando disegni statici e cristallizzati, come dei tatuaggi meravigliosi, oppure cercando un eremo e un rigetto delle relazioni, una vita da dropout libera e insieme obbligata. Occorre capire, studiare, ricercare. Il difetto delle visioni universalistiche dell’umano è costituito dal carattere astratto e poco utilizzabile nella vita quotidiana con la sua spietata e affascinante concretezza dell’esperienza personale. Abbiamo bisogno di scienziati che sappiano mettere in collegamento l’universale e il particolare, il singolo e il mondo, il concetto e la percezione, in modo che il soggetto non finisca per scomparire sotto la dimensione della teoria, e in modo che l’esperienza concreta fornisca elementi vivi di sviluppo alle speculazioni teoriche.
Dunque, come garantire le condizioni di stabilità e cambiamento per esseri viventi che si sviluppano in gruppo, che desiderano stare in relazione e insieme avvertono una profonda esigenza di esprimere e creare il proprio personale modo di essere nel mondo?
Gli sviluppi attuali degli studi sulle prime interazioni madre-bambino illustrano l’importanza di quella matrice emotivo-sensomotoria da cui emerge la vita psichica (Edelman, Fonagy, Schore), in una integrazione tra biologia e psicoanalisi che mette in luce l’importanza delle forze inconsce che guidano ogni emozione cognizione comportamento all’interno di una matrice socioculturale.
Possiamo osservare che la mano tesa dei pazienti, il bisogno di aiuto richiesto tiene in vita il medico, e allo stesso tempo il suo prendersi cura tiene in vita i pazienti, nella forma della relazione di base che tiene in vita la comunità umana. Tante volte abbiamo interpretato giustamente il furor curandi come la proiezione nell’altro della patologia del curante, cosa senz’altro vera. Ma dobbiamo dire che se la proiezione è un meccanismo che spesso facilita la messa nell’altro di ciò di noi stessi che non vogliamo riconoscere e accettare (malattia, cattiveria, violenza, deformità), allo stesso tempo dobbiamo anche riconoscere che il prendersi cura è un aspetto di base di ogni relazione umana al quale va dato riconoscimento e spazio. Un eccesso di specialismo, una pretesa di integrità invulnerabile delle persone, può rischiare di sacrificare lo spazio dato a questa dimensione del prendersi cura, che entra poi in sofferenza e che riemerge in inaspettati atti di crudeltà o al contrario si dirige altrove verso l’accudimento di altri esseri viventi.
Prendersi cura non è solo proiezione, negazione delle proprie parti carenti o malate, o un deficit di individuazione, ma è la condizione umana che dovrebbe stare alla base della costruzione di una società sufficientemente stabile e in movimento.
“Sulla spiaggia di mondi senza fine, i bambini giocano” : sono i versi di Tagore che Winnicott pone come esergo del suo saggio ‘La sede dell’esperienza culturale'(1967): “Il mare e la spiaggia rappresentano infiniti rapporti tra uomo e donna, e il bambino emerge da questa unione ed ha un breve momento prima di diventare adulto e genitore” (165-66)
Psicoanalitica: soggettivazione in rapporto alla presenza e assenza dell’oggetto.
Ci si trova di fronte alla difficoltà costituita dai fondamenti relazionali dell’origine della vita psichica, e alla storicità specifica della costruzione del soggetto in presenza e in interazione con l’oggetto. Ci confrontiamo con uno dei turning point della concezione relazionale dell’origine della vita psichica, nella quale la costruzione del soggetto comporta contestualmente la capacità di predisporre un posto per l’altro (Di Chiara, 1985).
La psicoanalisi come strumento di cura della sofferenza psichica si inserisce con le sue potenzialità all’interno di questa dinamica contraddizione. Come osserva Bleger (1969), non si può ridurre la totalità della dialettica analitica tra analista e paziente a uno solo dei suoi elementi.La psicoanalisi secondo Bleger è drammatica, nel senso di ‘teatrale’: si tratta di interazioni tra persone e non tra concetti.
E’ opportuno chiederci quanto questa specificità ‘drammatica’ della situazione analizzante possa mantenersi intatta da deformazioni intrusive supportate da valori e concezioni teoriche dell’analista, che ne possono alterare la straordinaria potenzialità terapeutica che apre alla compulsione a integrare. In particolare, quanto l’ingombro di teorie con contenuti apriori definiti/definitivi abbia indebolito l’ascolto da parte dell’analista dell’ineludibile alterità del paziente.
Gli elementi strutturali della situazione psicoanalitica, oltre all’elemento del setting/sicurezza consistono nella capacità da parte di analista e paziente di abbandonarsi a un’interazione il più possibile libera da vincoli già preconfezionati, di lasciarsi andare a un movimento emotivo-cognitivo in cui ogni configurazione di passi necessita del contributo dell’altro per potere avviare un processo dinamico: condivisione empatica, libere associazioni come legami ritrovati e nuovamente interrotti tra aspetti psichici, transfert come rimessa in gioco ‘allucinatoria’ di tracce di materia psichica mal o per nulla integrate, simbolizzazione dell’esperienza come proposta di un senso accettabile per il soggetto
Questo legame tra strutture psichiche e dinamica della relazione analitica è difficile da mantenere, nella teoria e nella clinica, come in una musica, in una danza, in cui occorre presentare configurazioni insieme libere e significanti, che divengono nel tempo. Tali configurazioni necessitano di qualche linea sicura (il pentagramma, il terreno su cui poggiare, la membrana psichica forte ed elastica e permeabile che tiene insieme la coesione del soggetto e la tensione comunicativa con l’ambiente). Non è facile attivare nella prassi questa complessa dialettica, mantenendo chiarezza concettuale e attenzione clinica, senza dedurre la tecnica da affermazioni astratte generali, e senza assottigliare e ridurre la teoria solo all’arbitrarietà del sentire dei due soggetti in gioco. Talvolta prevalgono le linee di forza costituite dalla storia traumatica del soggetto che resistono alla possibilità di trasformazioni legate a nuove esperienze analitiche ‘ri-solutive’; altre volte prevalgono le configurazioni immaginative che compaiono nella mente dell’analista che minacciano di sostituirsi alla libertà dell’analizzando di soggettivizzare queste esperienze trasformandole in nuove creazioni (le co-costruzioni di Ogden, 2009).
Si può trovare una via d’uscita attraverso un lavoro comune tra terapeuta e paziente che porti alla possibilità di costruire la storia intima del paziente, con l’ingrandimento di micro eventi emotivi per lui significativi, il ridimensionamento di quelli che agli altri apparivano importanti, il riconoscimento degli eventi che lui stesso ha contribuito a creare, evocandoli dal nulla e con questo uscendo egli stesso dall’inesistenza. Ha un valore terapeutico riuscire a costruire con il paziente la sua storia psichica, le vicende emotive e affettive importanti che lo hanno fatto diventare quello che è, in modo che tale storia rimanga aperta a nuovi sviluppi ed egli possa scriverne e viverne altri episodi, senza necessariamente inciderli sulla sua pelle nei tatuaggi o nei tagli autolesivi. Ma perché ciò avvenga occorre che la capacità di trasformazione della sofferenza in figure, immagini, parole, nasca dal terreno personale del soggetto, abbia quelle caratteristiche uniche nelle quali egli possa riconoscersi e prendere vita. La possibilità di uscire dall’impasse costruendo con il terapeuta la propria storia deve affondare le sue radici in un terreno peculiarmente personale e portare le tracce delle esperienze vissute proto-senso-motorie, negli odori, nei colori, nei sapori di cui le parole e le figure sono fatte.
Questo è il paradosso: la trasformazione simbolica è necessaria per possedere una vita psichica, un mondo interno che costituisca una compagnia interiore rispetto ai vissuti di solitudine e abbandono, e un patrimonio di ricchezza e energia a cui attingere. D’altra parte la trasformazione simbolica è un allontanamento dal contatto con le sensazioni e con il nucleo privato del sé e comporta un’accettazione di forme e strumenti alieni, in quanto percepibili da altri e condivisibili con altri e perciò non più essenzialmente solo personali.
Un aspetto importante del lavoro terapeutico consiste nello sforzo comune tra terapeuta e paziente per trovare quel modo di essere nel mondo che lo rappresenti in forme così profonde ed efficaci da permettergli di esistere e di comunicare con gli altri senza correre il rischio di sparire nelle parole, immagini, figure, del linguaggio e della rappresentazione condivisa, ma che conservino la traccia senso-motoria della sua esperienza in prima persona. Una difficoltà quindi è costituita dalla presenza nel soggetto di narrazioni precoci forti dotate di una certa capacità persuasiva: di storie di sé che appartengono alla mente dei caregivers e che si sono annidate e che accampano diritti di legittimità che al soggetto stesso sembrano attendibili e che pensa di potere allontanare solo con comportamenti di isolamento e solitudine. L’analista può arrivare a costruire con il paziente la sua storia personale, se rinuncia a occuparlo con una sua storia altrettanto forte e imponente, e cerca di dare voce a quello che in una condizione di silenzio si incomincia a percepire, qualcosa che non ha dalla sua un diritto già statuito e socialmente condiviso.
E’ importante abbassare il volume delle voci degli altri che si sono insediati nell’inconscio del soggetto e dare ascolto, voce, forma, senso, a un soggetto figlio di un dio minore, esistito sempre solo in modo nascosto e sommesso. La storia è spesso fatta di tentativi di sopravvivere in territori psichici colonizzati dall’altro, una storia a cui il soggetto stesso stenta a dare credito e importanza. Le narrazioni precoci, organizzate con sintassi e figure ben definite, sono un referente forte, che chiude il passo ai frammenti che emergono da zone preistoriche. Con questi frammenti il terapeuta e il paziente costruiscono la storia utile al soggetto, cercando di evitare il rischio di costruire una storia nuova altrettanto chiusa, al servizio del narcisismo reciproco.
Una meta del lavoro terapeutico consiste nella possibilità di costruire insieme al paziente una storia del suo percorso psichico che contenga le trasformazioni delle sofferenze attraversate e che ora fanno parte della sua identità autentica condivisa. Questa trasformazione è curativa delle ferite e ricostituente del senso di sé: le vicende passate non sono perdute ma possedute nella modalità della narrazione della propria storia, che permette di procedere nello sviluppo utilizzandole come elemento di ricchezza e di forza del senso di sé. L’analista collabora a questo processo di costruzione, rinunciando a raccontare le belle storie che gli vengono in mente per appagare il suo narcisismo, cercando di dare voce e spazio e vitalità alla storia che emerge attraverso le vicende della sua relazione con il paziente. Una buona storia è quella che suscita nel paziente più emozione, anche se spesso appare insignificante, quella che costringe l’analista a mettersi ai margini della strada per fare posto alla storia del soggetto che diviene, incurante delle fatiche che ha fatto per portarlo fino a questo punto.