Relazione presentata al seminario di Formazione Psicoanalitica – Cinema Auditorium Stensen, Viale Don Minzoni 25/c, 4 Dicembre 2010
Obiettivo del lavoro
Prenderemo in considerazione un momento specifico di un caso clinico, quello della consultazione, in cui viene messo in atto un setting a bassa frequenza. Successivamente verranno discussi alcuni temi inerenti questa analisi e la scelta di rendere elastica la tecnica di lavoro con questa specifica paziente.
Seguiranno alcune considerazioni generali sul rapporto fra rispetto del setting e delle norme standard e la necessità di cogliere le sfide che talvolta i pazienti ci portano.
La storia di Mara: “Non lo fo per piacer mio ma per dare figli a Dio”
La consultazione
Mara giunge alla mia osservazione circa sei anni fa. E’ un giovane medico fresco di laurea che, superato da poco l’esame di stato, si accinge ad iniziare una scuola di specializzazione. Alta, bruna e snella ha qualcosa di elegante nell’incedere, ma al tempo stesso di rigido, che la fa sembrare un po’ austera e impalata.
La sua è, fin dall’inizio, una richiesta di psicoterapia, che esige anche tempi brevi d’attesa: Mara desidera iniziare un percorso subito, in modo che proceda parallelamente alla scuola di specialità che ritiene essere il tassello fondamentale del suo progetto di lavorare un domani in ospedale .
Quando tento di esplorare con lei il perché di questa fretta essa risponde che, durante il tirocinio per l’esame di stato e la frequenza dei reparti ospedalieri, ha percepito con maggiore chiarezza alcuni aspetti di lei che non le piacciono e sui quali vorrebbe fare chiarezza. Invitata a proseguire, Mara, palesando una notevole capacità di auto-osservazione e di introspezione, seppure condita da una certa tendenza alla razionalizzazione forse legata ai suoi studi, inizia a raccontarmi una serie di situazioni nelle quali ha sperimentato, o meglio ri-sperimentato, con notevole intensità alcune emozioni e stati d’animo che non viveva da quando era bambina. In particolare le capitava di diventare molto ansiosa quando le venivano affidati dei compiti, da quelli più semplici di segreteria fino a quelli clinici, quelli cioè che implicavano un contatto con i “malati” che le capitava di visitare in ambulatorio o in reparto.
Essa ha sentito rispuntare vecchie insicurezze, gelosie, sensi di esclusione relativi ai rapporti con i colleghi e timori di non essere all’altezza dei compiti assegnatigli (perfino, per esempio, di fare le fotocopie), timori dunque che la portavano a mettere in atto modalità controllanti e compiacenti, oltre ad divenire propiziatoria con i colleghi più anziani, nel tentativo di essere rassicurata. Inoltre quando era a contatto con i malati si sentiva angosciata e sotto esame all’idea che questi potessero pensare: “ma guarda che giovane che è questa dottoressa che mi è toccata! Chissà se sarà capace di curarmi, se sarà in grado di capirci qualcosa!?”. Sentiva nei loro sguardi un giudizio schiacciante e severo.
Quando le domando a quale epoca della sua vita pensi, quando chiama “vecchi” tutti questi stati d’animo, Mara associa due momenti della sua vita.
Racconta inizialmente di un periodo della sua infanzia durante il quale la mamma lavorava ancora (apprenderò poi che smise di lavorare, per occuparsi delle figlie e della casa, in seguito a stalking da parte di un collega di lavoro) e nel quale essa aveva sempre la sensazione di essere troppo richiedente, troppo bisognosa e appiccicosa nei confronti di una madre affannata, nervosa e impaziente che se la “scrollava di dosso” dicendole che non aveva tempo per giocare, che aveva tanto da fare. Con i nonni invece, dai quali trascorreva le giornate, il clima era molto diverso: li ricorda disponibili, giocosi e attenti ai suoi bisogni di bambina possessiva e a volte magari anche prepotente e capricciosa. Con loro non si sentiva ingombrante e fuori luogo, ricorda ancora che “perdevano i pomeriggi a farle i vestitini su misura per le bambole”.
Il secondo momento della sua vita che le viene in mente è invece quello della bocciatura avvenuta al liceo in maniera del tutto inaspettata. O meglio ciò che fu inaspettato per lei, come per la sua famiglia, fu il fatto di accorgersi, già durante l’anno, che non ce la faceva proprio a recuperare, che qualcosa in lei si era incrinato irrimediabilmente. In quell’occasione provò molta vergogna e iniziò a fare capolino un profondo senso di inadeguatezza che continuò a scorrere, a mo’ di fiume carsico, durante gli anni successivi del liceo e dell’università.
E’ a quel tipo di sensazione che le pare appartengano i vissuti di quest’ultimo periodo ed è per questo che vorrebbe iniziare una psicoterapia, per mettere mano a tutto ciò: essa infatti sente di non potersi permettere di essere così ansiosa e insicura nell’ambito professionale.
Ma anche sul piano sentimentale Mara avverte oscuramente qualche scricchiolio: attualmente sta con un ragazzo che essa ha fatto di tutto per conquistare, ritenendolo inarrivabile per lei, e con il quale apparentemente tutto fila liscio, salvo il fatto che sente di doversi dare molto da fare per corrispondere a quelle che immagina essere le aspettative di lui.
Quando le faccio notare che mi parla sempre di una psicoterapia, se ha in mente qualcosa di specifico quando dice così, Mara risponde che si è rivolta a me perché ha saputo che lavoro anche con gli adolescenti e con i bambini e ha sentito dire che non sono rigido: lei desidererebbe fare un lavoro serio, che vada in profondità, ma vorrebbe fare due sedute. Forse per questo l’ha chiamata psicoterapia: quando studiava psichiatria ha sentito dire che l’analisi classica richiede una frequenza settimanale di tre-quattro sedute e lei non se le può permettere. È vero che percepirà la borsa della scuola di specializzazione ma, stando ancora in famiglia, conta di risparmiare quei soldi per quando andrà via di casa; d’altra parte i suoi non hanno problemi economici, anzi, ma lei non se la sente di chiedere di più, già così fanno un bello sforzo per mantenere lei e gli studi della sorella minore. Del resto – prosegue – non è poi stato così scontato convincere i suoi a finanziarle questo progetto. Entrambi provengono da famiglie di origini contadine e riescono a concepirlo solo come qualcosa che serva anche per la sua crescita professionale. In questo senso sono disposti ad aiutarla, ma con sentimenti molto diversi tra loro: la madre è più incline a considerarla come una forma di cura, dal momento che fu aiutata da uno psicologo quando era stata molestata e perseguitata dal quel collega; il padre, pur riconoscendo che, in quel difficile frangente, quell’esperienza aiutò la moglie anche a separarsi dalla propria madre (dalla quale era a quei tempi ancora molto dipendente), è invece più critico e diffidente, abituato com’è a pensare che le persone debbano farsi da sole, senza l’aiuto di nessuno, come ha fatto lui, rimasto prestissimo orfano di padre; un evento che lo costrinse a condividere con la madre penose condizioni di povertà e mortificazione, che lo hanno spinto a divenire protagonista di un notevole riscatto economico e sociale.
Verso la fine del colloquio invito Mara a riflettere anche sull’eventualità di posticipare l’inizio di un trattamento a quando la situazione complessiva sarà magari mutata nel senso di una sua maggiore autonomia, ma essa è molto decisa su questo punto, vorrebbe iniziare entro un anno al massimo.
Nei colloqui successivi si delineano con maggiore chiarezza i tratti delle imago genitoriali e dell’atmosfera nella quale Mara è cresciuta insieme alla sorella di tre anni più giovane e alla quale si sente molto legata pur definendosi molto diversa da lei. Mara non riesce infatti proprio a capire come sua sorella possa sopportare con una certa nonchalance l’atteggiamento della madre, descritta come una donna molto ansiosa, sempre affannata rispetto alle “cose da fare” e costantemente bisognosa di qualcuno che la ascolti rispetto alle sue lamentele, alle sue incertezze, pena l’essere considerati egoisti, cattivi e irriconoscenti. Un atteggiamento in breve che Mara percepisce come segnale di dipendenza e di fragilità, ma al tempo stesso portatore di una violenta intrusività dei propri spazi di intimità: violente liti scoppiano se Mara frappone una qualche attesa al bisogno della madre di essere ascoltata o anche solo se è essa è assorta nei suoi pensieri, inequivocabile segno – a detta della madre stessa – di disattenzione e disinteresse. Ciò è fonte, per Mara, di una grossa sofferenza dal momento che la mamma non sembra poter tollerare altre spiegazioni: si finisce dunque per scontrarsi anche duramente, con pianti, rabbie e delusione reciproche.
“A casa mia si urla” afferma Mara, anche perché sul polo opposto si situa il padre, qualche che la madre non sembra potedi disattezione re ascoltata violenta descritto invece come un uomo apparentemente solido, molto dedito al lavoro, ma estremamente irascibile e svalutante nei confronti delle debolezze e delle fragilità altrui, segnatamente di quelle della moglie che egli sgrida e disprezza apertamente, salvo poi commuoversi quando parla, con amici e conoscenti, della propria infanzia e del suo paesino d’origine.
Ho dedicato ampio spazio nel rievocare i temi emersi nella consultazione perché mi paiono significativi e utili per sviluppare alcune considerazioni correlate con la questione della quale discutiamo oggi.
Fin dalle prime battute infatti si presentificano in nuce le identificazioni inconsce e gli elementi caratteristi di quelli che saranno gli sviluppi transfero-controtransferali che prenderanno corpo nell’analisi; nello stesso tempo balza in primo piano la questione dell’analisi a due sedute e di come rispondere a questa richiesta.
In sostanza Mara mi pare “pizzicata” tra due oggetti del suo mondo interno – due aspetti del sé – con cui è parzialmente identificata: la “lagna” ansiosa, fragile e dipendente che ha imperiosamente bisogno di trovare un contenitore in cui evacuare la sue angosce (penso alla sua fretta di iniziare per esempio) e la “dura”, “l’orfano” che deve farcela da solo, e che vive ogni forma di aiuto come una debolezza. Il compromesso psichico possibile pare oggi quello di concedersi “solo” due sedute: per ora non ci sono ulteriori risorse disponibili da investire.
Anche io però mi percepisco in qualche modo stretto tra due polarità.
Da un lato avverto infatti una serie di pensieri, legati a quello che potremmo definire un codice paterno, che mi spinge a immaginare per Mara un setting psicoanalitico tradizionale; ciò però non in virtù di un’adesione sterile e rigida alle prescrizioni, ma bensì sulla scorta della sua antica e profonda sofferenza, imputabile all’aver intravisto – dietro il camice della dottoressa – un consistente nucleo depressivo infantile (un difetto fondamentale per dirla con Balint), responsabile di quel suo senso di incompletezza e di quella spinta continua a dovere essere soddisfacente per gli altri, dai quali deve poi ottenere un riconoscimento vitale.
Sono quindi ben consapevole che tale sofferenza richiede, per essere accolta, elaborata e trasformata, gli spazi e i tempi lunghi dell’analisi, indispensabili perché si dispieghi la ripetizione, la si possa interpretare e si possa progressivamente costruire un contenitore psichico caratterizzato da un maggiore gradiente di rappresentabilità degli eventi psichici.
Dall’altro sento però anche viva in me un’altra corrente di pensieri e sentimenti – assimiliamoli al codice materno – che mi fanno pensare di dover rispondere in qualche misura al bisogno di Mara, di non essere omissivo rispetto a questo, e soprattutto di non incarnare il fantasma di una madre rifiutante perché troppo impegnata a fare solo le cose dei grandi (penso alla comunicazione: lei è anche un analista di bambini e adolescenti). Intuisco anche che Mara forse desidera ritrovare in me il nonno con cui “fare i vestitini su misura” e con il quale poter ricominciare ad essere la bambina prepotente e capricciosa, mostrando finalmente in carne ed ossa quell’aspetto di lei oppositivo e insoddisfacente per gli altri, magari inadeguata alla aspettative dell’altro (il suo non adeguarsi alla mia proposta di fare l’analisi a quattro sedute) nella speranza di poterlo integrare per divenire più autentica, senza doverlo sacrificare ancora una volta sull’altare della compiacenza.
In quel momento confido in fondo sul fatto che il lavoro analitico possa “smontare” piano piano le resistenze di Mara e che, da dentro il contenitore terapeutico, essa possa percepire la sua dimensione infantile bisognosa e sofferente come meno minacciosa, come altre esperienze in tal senso mi hanno dimostrato. Decido quindi di accettare la sfida e, al termine dei colloqui, di articolare una proposta che tenga conto di queste riflessioni cercando, al tempo stesso, di rispondere al complesso bisogno conflittuale di Mara.
In sostanza, riprendendo temi e personaggi emersi, cerco di mostrarle come la sua sofferenza sia profonda, abbia origini antiche e chieda, come lei stessa mi ha detto, una risposta seria e adeguata. Le dico che penso che avrebbe quindi il diritto-dovere di concedersi un lavoro psicoanalitico vero e proprio, con una frequenza intensiva, ma che mi rendo anche conto che in questo momento le sue risorse, non solo economiche in senso stretto, non le permettono di fare diversamente. Per questo motivo prendo comunque in considerazione la sua richiesta di aiuto proponendole di iniziare un lavoro terapeutico a due sedute alla settimana, mantenendo però aperta la possibilità di aumentare il numero delle sedute non appena muteranno le condizioni interne ed esterne. La consultazione si conclude con l’invito da parte mia a prendersi tutto il tempo necessario per pensare a ciò che emerso nei colloqui e alle cose che ci siamo detti, anche tenuto conto del fatto che io non potrei comunque iniziare prima dell’autunno successivo (cioè 8-9 mesi dopo).
Mara si farà viva circa un mese dopo. Quando ci incontriamo mi comunica che ci ha pensato molto: ha apprezzato la mia proposta ed è stata sollevata dall’idea di poter iniziare l’analisi tra qualche mese e con un ritmo che le è al momento sostenibile; ha inoltre pensato che sicuramente con il tempo potremo aumentare il numero delle sedute.
L’analisi
Nel corso di questi anni di trattamento il tema delle due sedute, o meglio il fatto stesso che l’analisi fosse strutturata con questo setting, è tornato ovviamente alla ribalta più volte, ed è stato da me trattato sostanzialmente alla stregua di un sintomo, di una comunicazione, come sono solito fare per esempio anche con un minaccia di interruzione. Accoglievo e mostravo se possibile la resistenza o l’aumentata consapevolezza del proprio bisogno di contatto con se stessa e con l’altro, senza forzare Mara a passare a più sedute. Una serie di sogni ci aiutarono in questa direzione: per esempio quelli che parlavano di gabinetti piccoli e stretti, di sforzi per trattenere la pipì o di immersioni verso fondali affascinanti ma non raggiungibili per l’apnea che diveniva fastidiosa.
Questo filone ha dunque attraversato costantemente l’analisi, rappresentandone in fondo uno degli elementi portanti: un filone fondamentale anche per il discorso che stiamo trattando e che ci permetterà di sottolineare la complessità dei fenomeni in gioco quando parliamo di elasticità della tecnica o di modificazioni del setting riguardo alla frequenza delle sedute.
Nel frattempo Mara si è specializzata, si è sposata, ha iniziato a lavorare e ha avuto una bambina: molte trasformazioni sono dunque avvenute sia sul piano della realtà esterna che di quella interna.
All’inizio del trattamento le identificazioni inconsce cui ho fatto cenno in precedenza iniziarono a farsi vive nel transfert giocandosi a più livelli: sia quello simbolico della narrazione (ricca di episodi caratterizzati da personaggi intrusivi, giudicanti ed esigenti come pazienti critici o alcuni severi professori) sia quello di messe in atto transferali pre-simboliche che avvenivano tra di noi mediante meccanismi di identificazione sia proiettiva che introiettiva.
Mi spiego meglio: in quel periodo a tratti io divenivo per Mara la madre ansiosa, dipendente e intrusiva che la sondava emotivamente: spesse volte essa era molto impaurita all’inizio della seduta, profondamente angosciata e perseguitata perché mi percepiva come un oggetto esigente, scrutante e giudicante.
Diceva Mara in quei momenti: “Non posso lasciarmi andare, non posso spostare l’attenzione su di me, sui miei pensieri, se immagino che lei abbia l’attenzione rivolta su di me: penso che si aspetti qualcosa, che mi giudichi o che mi giudicherà…se invece la penso distratto o se anche solo sento qualche minimo rumore sto meglio perché immagino che so…che lei apra o chiuda l’agenda…o sfogli un libro…e allora posso osservare i miei pensieri e lasciarmi andare. Ho paura di non andare bene, di deluderla”.
Ma subito dopo, nella stessa seduta o in sedute subito successive, Mara mi sottoponeva ad un trattamento sottilmente sprezzante e rifiutante che rispediva al mittente i miei tentativi di mettermi in contatto con la parte più sofferente di lei e che svuotava di significato il mio lavoro interpretativo volto a cogliere, seppure con tatto e delicatezza, l’angoscia emergente e a mostrarle i possibili nessi con la situazione analitica. In quei frangenti, per esempio, essa – sempre di solito molto controllata – sbottava con frasi e toni insolitamente aggressivi del tipo “Eh va be’! Ho capito! Ma cosa me ne faccio?!”
Fu utilizzando ed elaborando la mia risposta controtranferale di irritazione e di sentirmi, per così dire, ingiustamente maltrattato, che iniziai ad accorgermi che essa agiva nel transfert, attraverso una inversioni di ruoli, la sua identificazione inconscia con la madre respingente e con il padre svalutante, oggetti che, come Ferenczi ci insegna, essa aveva, suo malgrado, inevitabilmente ma stabilmente introiettato nel suo mondo interno.
Fu dunque per Mara una lenta e per nulla scontata conquista quella di acquisire la possibilità di “stare semplicemente in presenza dell’altro” senza dovere fare qualcosa, come portare materiale, in quella dimensione di condivisione cara a Winnicott quando descrive la capacità del bambino di stare da solo in presenza della madre.
Ancora Mara: “Con mia madre è impossibile stare in silenzio o perché ti assale immediatamente non appena sei sveglia rovesciandoti addosso tutte le sue ansie e le cose che ha da dirti, monitorando al tempo stesso la tua attenzione per vedere se la ascolti, e dunque devi parlare, devi interagire; o perché se lei sta zitta e tu sei in silenzio, immediatamente vuole sapere cosa stai pensando, come mai non parli o meglio non le parli e dunque, in assoluto, il silenzio è impossibile! Alla fine capisco mio padre che la maltratta e tende ad evitarla o lavorando o chiudendosi nel silenzio…certe volte mi sento simile a lui!”.
Parallelamente a questi temi viaggia la storia della sua relazione con il fidanzato, Sandro, un ragazzo che ha perso la madre da bambino per una lenta e progressiva malattia, strutturando in relazione a questa vicenda un carattere forte e poco incline alle debolezze. Attraverso ripetute trasformazioni narrative Mara entra infine in contatto con la realtà emotiva per cui essa “cammina sempre sulle uova”, non potendo mai occupare appieno il suo spazio nella relazione, nel costante timore di “essere troppo pesante”: di mettere cioè in gioco qualcosa di autentico e di originario ma al contempo di troppo infantile, che potrebbe indurre l’altro a viverla come eccessivamente richiedente e deludente: dunque, in ultima analisi, da abbandonare.
In sostanza arriviamo lentamente a comprendere come tutta la dimensione infantile sia per Mara intrisa di penosi e contrastanti sentimenti: essa la sente infatti viva e prepotente dentro di sé, ma la combatte e la controlla costantemente nel terrore di assomigliare alla propria madre e di indurre negli altri gli stessi irritanti vissuti; o ancora sentendo di dovere ubbidire ad un motto interno, promosso dalla mamma, che le impone una profonda diffidenza verso il mondo esterno e gli altri: devi fidarti solo della tua famiglia!
Mano a mano che Mara diviene più consapevole di tutto ciò, una profonda melanconia di marca depressiva comincia a permeare le sedute: essa inizia a sperimentare il desiderio di passare a tre sedute e si moltiplicano, nella sua fantasia, i progetti per farlo. Ma tutte le volte che siamo sul punto di rendere operativo il progetto stesso accade qualcosa, apparentemente sul piano di realtà, che non lo permette: una prima volta, per esempio, il papà, dopo un litigio con Mara che si è rifiutata di votare alle elezioni ciò che lui le consiglia, si rifiuterà a sua volta di continuare a pagare l’analisi affermando: “tanto quella roba lì è solo un mangia mangia generale!”. Sarà la mamma a contribuire con i suoi soldi al pagamento delle sedute, integrando quanto ormai proviene dal lavoro di Mara: essa ha ottenuto un incarico che dovrebbe essere prolungato ma purtroppo, dopo qualche tempo, per via dei “tagli regionali di destra”, tale incarico non verrà confermato, impedendo a Mara l’auspicato aumento. Ancora una volta dobbiamo prendere atto, con una certa impotenza, che in una regione della sua mente dare diritto di cittadinanza alla bambina sofferente è troppo pericoloso: meglio continuare a considerarla la solita “lagna” e perseguire l’illusione che i piccoli devono crescere facendosi il callo.
Infine la bambina arriva: ma è quella che nasce al termine di una gravidanza voluta più per il timore di “essere poi troppo vecchia per avere bambini” che per il desiderio di fare un figlio e crescerlo: ancora una volta questa assenza di piacere pare l’unico compromesso possibile tra forze progressiste e conservatrici di un suo immaginario parlamento interno.
Va da sé che in ognuna di queste occasioni il lavoro interpretativo è andato nella direzione di mostrarle come questi aspetti di realtà si saldassero con elementi della sua vita inconscia: il potersi lasciare andare ed affidare maggiormente ad un altro rimanevano per lei, nonostante il suo desiderio e la sua motivazione consapevole a farlo, operazioni complesse e non prive di difficoltà, dal momento che generavano inevitabilmente un senso di precarietà e di minaccia.
Quando Mara riprende le sedute, alcuni mesi dopo la nascita della bambina, sembra diversa: la sento più autentica, più profonda, in sostanza più sensibile e permeabile alle emozioni: recupera infatti i penosi sentimenti di preoccupazione verso la figlia, legati a problemi medici avvenuti durante il parto, e si commuove a ripensarla tutta sola, in incubatrice. Pare abbastanza ovvio che mi parla anche di lei e di come essa abbia dovuto attendere con fatica in questi mesi la ripresa dell’analisi, anche se permane ancora un certo scarto tra la narrazione simbolica e il livello di consapevolezza emozionale.
Nei mesi successivi c’è un movimento: Mara inizia ad interrogarsi con insistenza se nel futuro sarà possibile per lei fare un secondo figlio, se riuscirà a conciliare tutte le esigenze lavorative e familiari, se riuscirà a stare dietro a tutte le cose da fare: già così i tempi sono stretti e lei si sente affannata e rabbiosa; come potrebbe starci un altro figlio? Riuscirebbe a proseguire l’analisi? Certo di aumentare le sedute non se ne parlerebbe di certo.
In quello stesso periodo io inizio ad avvertire una preoccupante sensazione di stallo: non riesco più infatti a “sognare” il progetto del secondo figlio e la relativa ambivalenza come la rappresentazione simbolica di un contenuto psichico riferito alla sua dimensione infantile, ma lo percepisco piuttosto come il presentificarsi di una resistenza oltranzista, di uno zoccolo duro che non le permette, o meglio non ci permette, un lavoro più profondo e soddisfacente.
Ma una svolta fondamentale è alle porte: Mara inizia per la prima volta a parlarmi delle sue difficoltà sul piano sessuale con il compagno. Non ha più desiderio di avere rapporti sessuali con lui, lo sente richiedente e inopportuno e quando lo fanno, seppure raramente, lei finge il piacere per sbrigare la faccenda il più in fretta possibile; è stanca, il giorno dopo ci sono sempre tante cose da fare, il lavoro, occuparsi della bimba! Le capita ancora di eccitarsi sessualmente, ma lei a volte preferisce masturbarsi: è più semplice, non le comporta il timore di dovere soddisfare l’altro e non frappone attese al suo desiderio. Nello stesso tempo, anche se sembrerebbe una contraddizione, è preoccupata: una coppia come la loro dovrebbe farlo più spesso e lei è angosciata che la “bassa frequenza dei rapporti” sia un segnale che qualcosa tra di loro non funzioni. Ha paura a parlarne esplicitamente perché pensa che Sandro possa arrabbiarsi dal momento che lei le ha mentito, o che possa sentirsi insoddisfatto, respinto e rifiutato: tutti sentimenti difficili da sopportare e pericolosi perché potrebbero innescare un movimento di allontanamento che potrebbe arrivare fino alla separazione.
Questo materiale – quasi un sogno – rende finalmente più rappresentabili e narrabili nel campo i suoi, e i miei, vissuti di insoddisfazione rispetto alla relazione analitica. Vorrei sottolineare innanzitutto come tutto ciò sia divenuto possibile, a mio avviso, solo dopo che l’analisi ha permesso a Mara di ri-costruire un contenitore psichico capace di percepire soggettivamente le sue emozioni e di pensare i suoi pensieri. A partire da questi presupposti, da lì in avanti è stato finalmente possibile affrontare da una prospettiva emotiva differente quello che si andava configurando come un aspetto dissociato del processo analitico.
Solo allora è stato possibile per Mara sentire che il “fare due sedute” era veramente un sintomo e non una mia fissazione legata ad un modello tecnico; solo allora essa ha compreso affettivamente, e non solo cognitivamente, che la sua resistenza a fidarsi e affidarsi era il frutto di insistenti e convincenti voci che affermavano con forza dentro di lei: “guarda che fuori dalla famiglia tutto il mondo è minaccioso!”, “guarda che l’analisi è solo un “mangia mangia!”, e via di questo passo. Molte lacrime cominciarono a scorrere quando Mara iniziò a toccare con mano quanto essa in fondo fosse in lotta da anni con queste voci che solo oggi poteva ascoltare e riconoscere come dotate di una potente carica distruttiva e corrosiva nei confronti dello slancio verso l’altro. Nelle sedute successive la accompagnai progressivamente sull’orlo della intuizione che fece di lì a breve: il punto non era fare o non fare più sedute, ma comprendere come questo spartiacque comportasse per lei un cambiamento catastrofico nella sua prospettiva relazionale verso il mondo.
A questo doloroso insight fecero seguito diversi sogni che riprendevano il tema della sessualità, disegnando un percorso che andava dal sogno nel quale si sentiva eccitata e piena di desiderio di fare l’amore con il compagno al sogno di un amplesso in cui Mara ritrovava la possibilità di lasciarsi andare al piacere, dopo essersi accorta di essere troppo preoccupata di dovere soddisfare le esigenze del partner. Associando su quel sogno si trovò anche a pensare: “Va beh! Se nascesse un secondo figlio troveremmo il modo di farcela!”.
È questa la dimensione che abbiamo dovuto transitare per recuperare la possibilità e la libertà di un accoppiamento analitico intimo, fertile e piacevole per entrambi.
Discussione
Una peculiarità della ricerca psicoanalitica consiste nella virtuosa circolarità fra osservazione clinica e costruzione teorica. Il dibattito sulla frequenza delle sedute rischia, se disancorato da questa condizione, di produrre una sterile polarizzazione in termini di pensiero quantitativo: è necessario procedere in psicoanalisi con il peculiare metodo che prevede l’osservazione clinica, la riflessione, nell’apres-coup, dei fenomeni psichici emergenti e la costruzione dei modelli teorici da cui deriverà un’espansione ulteriore della possibilità di cogliere i fatti emotivi osservati nella stanza d’analisi.
E dunque dobbiamo, come sempre, ripartire dalla clinica e da questa dedurre una teoria della tecnica.
In questo senso crediamo che sia necessario accettare la sfida che alcuni pazienti ci pongono quando non si rendono disponibili, per le ragioni più svariate, al percorso a noi più congeniale e noto: è un’occasione per valutare i limiti del nostro strumento, le condizioni minime d’uso, la tenuta del nostro impianto teorico e la nostra flessibilità e curiosità verso l’oggetto psicoanalitico inteso come qualcosa di vivo, che dev’essere riscoperto con ogni nuovo paziente (Ogden). Un atteggiamento troppo standardizzato rischia di feticizzare la procedura offrendo al paziente, già dalla consultazione, una mente analitica rigida, schematica e priva di sufficiente duttilità. Quante occasioni perse per via di analisti incapaci di immaginare una psicoanalisi proprio per quel paziente che non può, alla consultazione, accettare un setting standard. L’analisi è un processo che inizia al momento della presa in carico, un processo che, se l’analista avrà speranza, potrà portare quella coppia ad accettare sempre maggiori quote di intimità e tollerare sempre maggiori quantità di contatti e intensità emotive. Ci viene in mente la questione delle libere associazioni che spesso, per il paziente, sono un punto d’arrivo e non un punto di partenza: associare liberamente in seduta è l’esito, per tanti pazienti e per noi con loro, della costruzione di un clima di fiducia che faciliti via via la libertà associativa, la regressione e il contatto con i contenuti onirici dei processi primari di pensiero. In certe situazioni e con certi pazienti ciò vale anche per la frequenza delle sedute: talvolta, e solo la clinica di ogni specifico campo relazionale potrà deciderlo, per il paziente si deve valutare la sostenibilità dell’impatto dell’analisi nel suo mondo interno e anche esterno. Solamente in questo modo offriremo davvero un ascolto paziente e rispettoso della persona che si accosta a noi.
Ciò che noi dobbiamo al paziente non è una guerra al suo inconscio e alle sue difese, ma la costruzione di una sintonia e di un ambiente relazionale facilitante l’evoluzione della propria individualità e soggettività: quando, noi per primi, siamo accoppiati con una rigida stereotipia teorica e imponiamo “cuius regio, eius religio” i nostri sedicenti principi perché ci sia “psicoanalisi”, perdiamo un’occasione di libertà per noi e per il nostro paziente. Freud in Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi del 1913, come è arcinoto, afferma: “la straordinaria diversità delle costellazioni psichiche di cui siamo costretti a tener conto, la plasticità di tutti i processi psichici e la quantità dei fattori che si rivelano di volta in volta determinanti sono tutti elementi che si oppongono alla standardizzazione della tecnica” (p. 333, OSF).
Rimandiamo al lavoro di Conrotto (Riv Psi, 2010, LVI, 2) per ciò che riguarda la storia della standardizzazione della frequenza delle sedute (4) sottolineando però il fatto che il modello “Eitingon” che la SPI ha abbracciato è considerato criterio di validazione per le analisi dei candidati, non per le analisi dei laici. In una comunicazione personale tenuta presso il nostro Centro, Charles Hanley, attuale presidente dell’IPA, ha ribadito la massima libertà dell’analista rispetto alla frequenza delle sedute in un’analisi non di training. Il criterio delle quattro sedute per i candidati è totalmente condiviso da noi per ovvie ragioni, così come auspichiamo che essi stessi possano cimentarsi nel somministrare un’analisi a quattro sedute: è certamente, nella nostra pratica, più facile praticare un’analisi con frequenza standard che cimentarsi in situazioni meno favorevoli.
L’attivazione del transfert e del controtransfert, ma più ancora la loro gestione e elaborazione nel campo bipersonale dell’analisi, il contenimento prima e la mentalizzazione poi degli aspetti traumatici che producono turbolenze nella coppia analitica, le necessarie ripetizioni degli assetti relazionali patologici che a lungo si riproducono nel processo analitico attraverso le personificazioni giocate dal paziente e dall’analista, richiedono braccia ampie e cuore grande. Entrambi devono poter avere uno spazio ampio e tanto tempo a disposizione per accedere per via regressiva a quella disponibilità mentale onirica e sognate che, sola, può produrre trasformazioni evolutive per la coppia.
La questione davvero centrale, a cui ogni analista deve rispondere, riguarda le condizioni che consentono in uno specifico campo relazionale l’attivazione e lo sviluppo di quei processi trasformativi di quella peculiare e unica coppia analista-paziente.
Lo specifico dell’analisi non sta nelle regole, ma nella mente dell’analista che deve decidere, nella situazione specifica di quella persona che gli chiede aiuto, di quali e quante risorse avrà bisogno perché i processi di cui abbiamo parlato possano aver luogo.
A nostro avviso, come abbiamo già detto, la teoria della tecnica deve seguire il lavoro clinico e non il modello teorico prescelto. Questa convinzione ci consente di scegliere con un atto di serena e consapevole libertà quale è, per noi, la psicoanalisi più adatta a un determinato paziente in un dato momento della cura: questa considerazione non vuole depotenziare l’importanza del setting, ma al contrario costruirne uno che sia adatto al paziente e alle sue risorse interne e esterne in un dato momento, e ciò implica la non preclusione di un assetto di frequenza variabile di sedute.
Ciò che è davvero fondamentale, nel lavoro con i nostri paziente, è fornire loro una risposta alla necessità di soggettivazione piena e rispettosa che ci portano. Crediamo che possa talvolta essere iatrogeno imporre normativamente e rigidamente una propria convinzione qualora il paziente non si renda disponibile alla frequenza standard. La nostra posizione, rispetto alla questione importante del numero delle sedute che è tempo di vita, è – come speriamo di avere dimostrato nel caso discusso – quella di con-vincere insieme, arrivando cioè ad una decisione intesa come precipitato di un movimento evolutivo del campo relazionale. Siamo pronti ad abbandonare l’idealizzazione di una tecnica “perfettamente” standardizzata, le regole auree di una ideale analisi condotta da un analista ideale le lasciamo ai nostalgici, per noi è importante aiutare i pazienti cogliendoli laddove essi possono farsi trovare e offrendo loro ciò che possono tollerare che venga offerto. Il limite di cui siamo perfettamente consapevoli è rappresentato dalla mancanza di speranza che talvolta non ci consente di gettarci in imprese che ci appaiono troppo azzardate.
La nostra fede nel metodo psicoanalitico non è fatta di numeri, ma di convinzioni che nascono dalla lunga pratica di lavoro con i pazienti che consideriamo collaboratori a pieno titolo nel difficile lavoro introspettivo a cui ci affidiamo. In questo senso un setting tradizionale, in quanto contenitore attivamente in opera nel corso dell’analisi, è indispensabile perché l’analista possa adempiere al proprio compito, esercitare la funzione interpretante, ma anche attivare la funzione onirica della veglia. La riflessione che noi proponiamo è uno stimolo a riscoprire il senso, per lo specifico paziente e per noi, delle regole sottraendole, attraverso la negoziazione relazionale nel campo bipersonale dell’analisi, le sue molteplici sfaccettature (aspetti spaziali, temporali, monetari) ad un uso automatico e rigidamente determinato. Nel nostro lavoro tutto ciò che diamo per scontato, tutto ciò da cui non ci lasciamo disturbare nasconde la possibilità di configurarsi come un bastione inconsapevole, ma non privo di effetti nefasti.
Il nostro desiderio è quello di valorizzare una prospettiva centrata sull’idea di co-costruzione del setting come approdo di un percorso di cui l’enfasi sul primo incontro analitico ne segna l’inizio.
Il passaggio a cui stiamo assistendo dal paradigma della cura inteso come superamento del conflitto intrapsichico e delle difese a quello che vede la centralità del deficit e della promozione della soggettività come fulcro del processo evolutivo, pretende più che mai l’instaurarsi di un setting ad alta frequenza che consenta il dispiegarsi e il potersi riappropriare, nelle successive riattualizzazioni traumatiche, delle parti dissociate e silenti, degli inserti estranei che colonizzano la mente del paziente e talora dell’analista.
E’ dunque ovvio e superfluo dire che ci auguriamo che i nostri futuri pazienti abbiano disponibilità emotiva e di risorse concrete di tempo e di denaro per affrontare un setting sufficientemente adeguato a contenere e elaborare queste profonde turbolenze, ma ciò non sarà sempre possibile: e allora ad ogni nuovo incontro con una persona che ci chiede aiuto dobbiamo riscoprire il setting alla luce della sua sostenibilità per la coppia nei termini del triplice modello del sogno, delle cure materne e del limite introdotto dalla realtà.
Il nostro impegno etico, la nostra scelta di campo è “metterci dalla parte del paziente” per evitare imposizioni super-egoiche che potrebbero indurre nel campo analitico climi persecutori e potenzialmente iatrogeni. Nelle speciali situazioni di cui si parla oggi (setting a bassa frequenza) è necessario negoziare le condizioni del setting facendo di questo strumento non un apparato immodificabile e feticisticamente investito, ma l’espressione della relazione in un dato momento.
La psicoanalisi è, prima di tutto, un processo che deve aumentare i gradi di libertà dei membri della coppia. Questa libertà si deve spingere, a nostro avviso, fino a considerare con rispetto lo specifico evolutivo di ogni individuo.
La questione è la stessa da millenni: i casi della vita, come ci diceva Freud che abbiamo prima citato, sono più variegati delle caselle di un regolamento. Non dobbiamo pensare alla teoria della tecnica classica come ad un sistema di controllo che definisce la psicoanalisi da ciò che non lo è: questa posizione ci confronterebbe con un oggetto superegoico e mortifero, ci metterebbe di fronte ad un’alternativa atroce: rispettare le norme o eluderle silenziosamente o peggio ancora rifiutare chi ci chiede, pur con tanti limiti, aiuto.
La psicoanalisi è viva e ci sfida ad una riscoperta sempre nuova ogni volta che entra una persona nel nostro studio.
Concludiamo citando Eugenio Gaddini, dal suo articolo intitolato Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni, del 1984: “Volenti o nolenti, gli psicoanalisti sono un esercito di ricercatori, che per la prima volta nella storia umana, indagano sistematicamente da circa un secolo sulla patologia del funzionamento mentale, e attraverso questa, sul funzionamento mentale naturale. […]
E ancora: “La psicopatologia umana è sempre stata un deserto della conoscenza, prima che gli psicoanalisti, seguendo Freud, cominciassero a penetrarvi. Tra le mille cose che Freud ha insegnato agli psicoanalisti, c’è il senso della scientificità e della gradualità in questo tipo di ricerca. Inutile correre avanti. Chi lo ha fatto, è rimasto per strada. Occorreva guadagnare quel deserto della conoscenza palmo a palmo, e sapendo che non poteva esserci alcun percorso programmato. […]
Siamo totalmente consapevoli del delicato equilibrio che esiste fra innovazione e tradizione, fra accettazione delle regole, intese come il distillato prezioso del lavoro e della riflessione delle generazioni di analisti che, prima di noi, hanno pensato e affrontato la questione del setting, e ricerca di nuovi equilibri e assetti in una disciplina, la psicoanalisi, che fa, della crisi, il suo oggetto specifico di lavoro. Non predichiamo contro il metodo come Feyerabend, anzi la nostra fiducia ci consente di non considerare le sue regole un limite invalicabile perché la psicoanalisi rimanga viva e continui a stimolare la nostra ricerca.