Seminario su L’INTERPRETAZIONE
La Colombaria, Firenze, 20 febbraio 2010
In che modo Thanopulos interroga il concetto di rêverie, che noi consideriamo come funzione alla base della capacità di interpretazione?
A mio parere, egli ci aiuta a chiarire, ad approfondire e soprattutto a rivitalizzare il concetto bioniano di rêverie cercando di individuare la psicogenesi di tale funzione nel processo di separazione del bambino dalla madre, durante il quale egli, sentendosi mutilato di madre, compie identificazioni isteriche nei confronti di parti e funzioni di lei. Seguendo il linguaggio di Thanopulos, nella drammatica tensione fra il desiderio di sé e il desiderio dell’altro (riconosciuto ormai come separato ma come tale scarsamente tollerabile), il bambino si mette dentro un altro di sé. La presenza interna di questo altro di sé caratterizza l’identificazione isterica, sia rispetto all’identificazione narcisistica (in cui il vissuto è quello dell’indifferenziazione), sia rispetto al successivo riconoscimento dell’altro come altro da sé (oggetto oggettivo, per dirla con Winnicott).
Entro tale modalità identificatoria, il bambino si comporta come quella ragazza isterica – descritta da Freud in “Fantasie isteriche e loro relazione con la bisessualità” (Freud 1908, 394) – che “con una mano stringe a sé le vesti (nella parte di donna), mentre con l’altra cerca di strapparsele (nella parte di uomo)”.
In questa fase, il bambino comincia a sviluppare l’oggetto transizionale e inoltre, avendo preso dentro di sé la capacità della madre di rispecchiarlo e di sognarlo, egli diviene in grado di fare sogni come metaforizzazione (e quindi anche come modulazione) della propria esperienza emotiva. Sia la costituzione dell’oggetto transizionale sia quella dello spazio onirico appartengono alla sfera –afferma Thanopulos seguendo Winnicott – degli oggetti soggettivi: ma, mentre nella relazione con gli oggetti transizionali prevalgono i processi proiettivi, la costituzione dello spazio onirico rappresenta una identificazione introiettiva.
Il bambino, grazie a tale introiezione, acquisisce qualità che prima non aveva.
E vorrei aggiungere: è anche proprio ciò che il bambino acquisisce con lo sviluppo della capacità di giocare. Giocando – diceva Vygotskij (1933) – il bambino si pone nell’area dello sviluppo prossimale (parente stretta dello spazio potenziale di Winnicott) e, continuamente interiorizzando le competenze di chi si prende cura di lui impersonandone il personaggio sulla scena del proprio gioco, continuamente oltrepassa quel livello di competenza che egli avrebbe se non percepisse intorno a sé presenze che si adattano attivamente a lui e che nel far ciò mostrano in modo tollerabile di essere “appena un po’ più avanti” rispetto a lui. Nel più semplice gioco con le bambole, il bambino mette in scena sia chi è accudito, sia chi accudisce.
Questo adattarsi attivo del caregiver al livello del bambino ma essendogli intuitivamente “appena un po’ più avanti” è stato chiamato “motherese” da Trevarthen (1997), con esplicito riferimento a Winnicott.
Analogamente Bruner (1983) ha notato che le madri utilizzano spontaneamente un “baby talk”, ossia un linguaggio che risulta appena più articolato di quello del loro bambino, e quindi da quest’ultimo assimilabile.
Una precondizione necessaria affinché il bambino arrivi a sviluppare la propria capacità di autoregolazione transizionale, onirica e ludica è costituita dal fatto che la madre sia stata capace di sognare/modulare le emozioni del proprio bambino quando egli non era ancora in grado di compiere un’identificazione isterica con lei.
Thanopulos afferma che questa capacità di rêverie da parte della madre è resa possibile dalla sua stessa identificazione isterica col proprio bambino, come altro di sé. In sostanza l’identificazione isterica costituisce una posizione intermedia fra due posizioni estreme le quali, entrambe, renderebbero impossibile la rêverie:
1) la prima è costituita da una identificazione fusionale col bambino: in tal caso la madre sarebbe semplicemente invasa dalle ansie del bambino, non riuscendo a metaforizzarne e a modularne né le ondate di impressioni sensoriali dell’esperienza emotiva, né quella angoscia di stare per morire che egli sperimenta quando vi sono momenti di discontinuità nel rispecchiamento materno.
2) La seconda posizione estrema è costituita dalla percezione distaccata del proprio bambino, come altro da sé: posizione che non consente alcuna immedesimazione nel vissuto di lui.
La concettualizzazione che Thanopulos fa della rêverie mi pare costituire un’articolazione del concetto bioniano, connettendo quest’ultimo al pensiero di Freud e di Winnicott.
Semplificando molto, per Bion la rêverie dell’analista è come quella della madre (o della funzione materna) che metabolizza, trasforma, metaforizza le proiezioni asimboliche del bambino, restituendogliele come dotate di senso.
Durante il lento processo di separazione del bambino dalla madre, e durante il lento processo di svezzamento del paziente dall’analisi, si dovrà sviluppare la capacità di interiorizzare il contenitore capace di rêverie, appunto per poter tollerare la separazione senza che la perdita dell’altro sia vissuta anche come perdita di sé. Nel noto schema bioniano, contenuto/contenitore, vi è una dualità interna al sé, nel senso che è come se vi fosse sempre in noi un bambino sull’orlo dell’espulsione delle proprie impressioni sensoriali dell’esperienza emotiva percepite come persecutorie in quanto prive di significato, e vi fosse al tempo stesso un sé madre che raccoglie quei contenuti, sognandoli e rendendoli pensabili, e in tal modo evitandone la dispersione evacuativa.
Ho scritto all’inizio che l’accentuazione drammatica che Thanopulos dà del concetto di rêverie, fondandolo sull’identificazione isterica, ne costituisce una rivitalizzazione realistica, molto vicina all’intensità emotiva di ciò che avviene nella relazione analitica: intensità emotiva che è anche rischiosa, se non è arginata ed elaborata all’interno del dispositivo del setting.
Nella situazione psicoanalitica, a garantire continuità di accoglienza agli affioramenti dell’inconscio del paziente, non vi è solo il setting materiale, ma vi è anche il setting mentale dell’analista (come già chiarì Di Chiara in un suo articolo su “Psiche” del 1971).
L’assetto mentale dell’analista ha da essere garante di due polarità dialettiche: quella della massima vicinanza e immedesimazione coi processi inconsci, ma anche quella della riemersione ed oggettivazione.
E’ come il percorso ritmico del delfino – diceva Franco Fornari. Il paziente, per entrare in ascolto profondo di sé, deve anche sentire che vi sarà la possibilità di riemergere.
Ma per trasmettere questa fiducia, l’analista deve anzitutto sentirla lui stesso, basata non su un senso di onnipotenza, ma su un assetto interno coltivato e monitorato.
Il tema non è affatto accademico, se si considera il grado di passionale coinvolgimento umano necessario in quell’abbandono dei propri rassicuranti confini personali che è implicato nell’atteggiamento analitico, già per come lo caratterizzava Freud prima di Bion o di Winnicott, e cioè: l’analista deve porre il proprio inconscio come organo ricevente rispetto all’inconscio del paziente, e per fare questo deve abbandonarsi agli affioramenti della propria attività mentale inconscia, ossia alla propria attenzione fluttuante uniforme, “evitando possibilmente – dice Freud – la meditazione e la formulazione di aspettative coscienti, e senza volersi fissare particolarmente nella memoria alcunché di quello che ode, onde cogliere così l’inconscio del paziente con il suo stesso inconscio” (Freud, “Psicoanalisi”, 1922, 443).
In una lettera a Lou Andreas Salomè (25 maggio 1916) Freud scrive: “durante il lavoro mi sono artificiosamente schermato per concentrare tutta la luce su un punto oscuro, rinunciando ad illuminare il contesto” (42).
Tramite questo percorso di artificio, di esercizio spirituale, che sarà ulteriormente portato avanti da Bion con i suoi riferimenti ad esempio al mistico Giovanni della Croce, l’inconscio dell’analista si rende massimamente ricettivo rispetto all’inconscio del paziente. In questo assetto mentale, l’attenzione fluttuante, i flash onirici allo stato di veglia, e persino inconsuete e transitorie sensazioni fisiche (Montagnini, 2009), possono rivelarsi come travasi, nel sé dell’analista, di parti del mondo interno del paziente, con le quali quest’ultimo non è in contatto.
In questo coltivato atteggiamento massimamente ricettivo di comunicazione e direi quasi di contagio da inconscio a inconscio, io riconosco quella componente di “identificazione isterica” che Thanopulos considera tratto cruciale della rêverie. “Il suo prototipo – egli dice – è l’identificazione isterica del bambino con la madre”.
L’identificazione isterica infatti sfugge alla coscienza, avviene come passaggio da inconscio e inconscio. Essa è parziale, in quanto porta dentro al Sé un aspetto parziale dell’altro (Semi, 1995). E al tempo stesso è multipla, perché nella sua scena, come in quella del sogno, viene recitato contemporaneamente il proprio ruolo e quello dell’altro.
Fino a questo punto, dunque, si è avuto un movimento comunicativo orizzontale che va dall’inconscio del paziente a quello dell’analista (?) e si è avviato un movimento dal basso verso l’alto, nell’analista, dei contenuti ricevuti (?): ma a questo punto (come sottolineano Foresti e Rossi Monti in un loro articolo del 2008), sono necessarie “le funzioni di integrazione e di sintesi svolte top-down dall’Io (?)”.
Anzi, proprio nella misura in cui la ricettività è stata massima, altrettanto intensa deve essere la capacità di metaforizzazione, di trasformazione simbolica e di conferimento di significato. Se vi fosse carenza in queste funzioni, lo scotto da pagare sarebbe l’ammalarsi dell’analista insieme col suo paziente.
In questo lavoro di conferimento di significato sono attivate le capacità creative dell’Io, sia inconsce che coscienti.
Thanopulos, in due suoi testi (1998; 2009), riprende l’affermazione di Freud secondo la quale “il lavoro onirico non crea nulla di originale”.
Ma allora, in tale senso, mi sembra necessario porre una distinzione fra i contenuti (inconsci, che non sono creati) e i processi di contenimento e di elaborazione onirica (altrettanto inconsci, ma altamente creativi).
Meltzer, ne La vita onirica (35) scrive: “Il processo creativo del sognare genera il significato”.
Cioè: i contenuti del sogno non sono ancora significati. Ma il lavoro onirico è essenziale per creare significati/fatti scelti a partire dal caos delle impressioni sensoriali dell’esperienza emotiva.
Il lavoro onirico (allo stato di sonno e di veglia) compie una continua opera di messa in forma: cioè è sempre lì a difenderci da un possibile “disturbo del pensiero” per cui si rischia di essere sopraffatti da una spaventosa massa “beta” (insignificante, persecutoria)… Insomma: l’inconscio è ricettivo, ascolta il reale, l’altro; e svolge un’importante funzione creativa/cognitiva di messa in forma del materiale.
Questo inconscio, allora, è parte dell’Io. Cioè: non vi è solo quella parte inconscia dell’Io che mette in atto meccanismi di difesa (Freud 1922), ma anche una gran parte di Io (nata nell’interfantasmatizzazione primaria… o in analisi) che è inconscia ma al servizio dell’Io cosciente e della sintesi fra processi primari e processi secondari…
E tuttavia il lavoro di comunicazione intrapsichica e di “mentalizzazione” non è ancora completato fino a che il materiale onirico non viene interpretato… Un sogno soltanto ricordato non è ancora (o lo è solo parzialmente) un sogno che nutre la mente del sognatore…
BIBLIOGRAFIA
Bruner J. (1983), Il linguaggio del bambino, Armando ed., Roma, 1987
Di Chiara G. (1971), Il Setting analitico, Psiche, 8, pp.47-60
Foresti G. & Rossi Monti M. (2008), Teorie sul transfert e transfert sulle teorie, Rivista di Psicoanalisi, 4, Borla, Roma
Freud S. (1908), Fantasie isteriche e loro relazione con la bisessualità, OSF 5, Boringhieri, Torino
Freud S. (1922), Psicoanalisi, OSF 9, Boringhieri, Torino
Freud S. & Andrea Salomè L. (1966), Eros e conoscenza. Lettere 1912-1936. Boringhieri, Torino, 1983
Meltzer D. (1984), La vita onirica, Borla, Roma, 1989
Montagnini M. (2009), “L’uomo che non c’era. La ricostruzione analitica è interessata alla realtà storica del trauma?”, Psicoterapia Psicoanalitica 2009 XVI-2 luglio-dic 121-142
Semi A.A. (1995), Sull’isteria e l’identificazione isterica, Rivista di Psicoanalisi, 2
Thanopulos S. (1998), Sognare, per pensare, la realtà. Rivista di Psicoanalisi, 4
Thanopulos S. (2009), Lo spazio dell’interpretazione, Borla ed., Roma
Thanopulos S. (2010), Interrogare la rêverie, relazione letta al Seminario sull’Interpretazione, Firenze, La Colombaria, 20 febbraio 2010
Trevarthen C. (1997), Empatia e biologia, Raffaello Cortina ed., Milano, 1998
Vygotskij L. (1933), “Il gioco e la sua funzione nello sviluppo mentale del bambino”, in Vygotskij L. (1930-1933), Immaginazione e creatività nell’età infantile, Editori Riuniti, Roma, 1972