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Chiari P. (2016). L’insegnamento delle parole: in ricordo di Stefania Manfredi

Testo della relazione presentata nel seminario “Il lavoro della parola nella psicoanalisi di Stefania Turillazzi Manfredi” (Firenze, 3 Dicembre 2016) che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore.

Per ricordare e onorare l’attività teorico clinica  svolta da Stefania Manfredi  Turillazzi  farò riferimento, non tanto ai suoi scritti, ma alla mia esperienza di alcuni anni fa come allievo spontaneo ai suoi seminari clinico-teorici. La scelta mi è parsa obbligata perché Stefania Manfredi ha approfondito alcuni concetti fondamentali della psicoanalisi nella loro articolazione tra la teoria e la teoria della tecnica ed era anche molto interessata ai giovani che iniziavano a  fare gli psicoanalisti. Era consapevole che il solo training non è sufficiente, che occorrono molti anni perché si passi da “fare “ lo psicoanalista a e sentire di “essere” uno psicoanalista. Siamo stati  in tanti ad imparare da lei , molti prima , altri  dopo di me.

L’ esperienza dunque a cui farò riferimento  si colloca tra 1998-2004,  anni nei quali, terminato il training e lasciati i supervisori cominciavo a partecipare alla vita del Centro Milanese che un po’ mi intimoriva.  Fu così, su proposta di Pippo Saraò ( oggi Presidente del Centro ma allora poco più che un ragazzo )che raccoglieva e condivideva tante mie riflessioni di quegli anni e questa condivisione continua tutt’ora, che cominciai a recarmi  a casa di Stefano Calamandrei  un sabato al mese partendo presto da vicino a Varese dove abito, per essere alle 10 del sabato a lezione. Uso volutamente questo termine perché erano veramente delle lezioni. Ricordo in quegli anni la presenza oltre di Saraò e Calamandrei, anche Di Volo, Graziani, Quattrocchi,  Sessarego,  Capuano. Mi scuso per tutti quelli che ho tralasciato e che la mia memoria non ha trattenuto.  La lezione era così composta: c’era una prima parte dove Manfredi presentava delle riflessioni , ogni anno veniva scelto un tema o uno scritto di Freud, nella seconda parte della mattinata a turno un partecipante al gruppo portava del materiale clinico attinente al tema indagato. Mi piacerebbe con questo mio breve intervento riproporre il clima assai serio ma allo stesso tempo famigliare di quegli incontri.

Se ben ricordo nell’anno  2000  Manfredi ci offri l’opportunità di  riflettere sul tema dell’angoscia a partire dal testo fondamentale Inibizione, Sintomo e Angoscia.

Fu così che in uno di quei sabato  portai un  caso clinico che mi appassionava e allo stesso tempo mi preoccupava molto. Riporterò adesso il caso clinico e i contributi di Manfredi e dei colleghi allora presenti.

Si trattava di un uomo sui 50 anni che temeva , ormai da molti anni, un irruzione improvvisa e minacciosa di un pericolo che percepiva all’interno di se stesso, avvertiva  un disturbo provenire dal corpo, proprio là dove sentiva che le sue sensazioni stavano avvenendo. Di lui dirò soltanto  che poco più che ventenne  si era trovato di fronte a una di quelle “cerniere dell’esistenza” , in cui si può scegliere fra due alternative, accettare o rifiutare un’offerta che la vita ci pone dinanzi. Lui aveva accolto quella opportunità e da quella decisione erano  seguite tante conseguenze, compresa la sua sofferenza.

Manfredi trovò subito interessante questa situazione clinica perché proponeva gran parte dei contenuti degli studi sull’angoscia. Il paziente non presentava angoscia di attesa, previsioni negative, né l’atteggiamento pessimistico proprio delle nevrosi di angoscia; c’era, invece, una vita piena di limitazioni. Come un bambino piccolo che ha bisogno della mamma, solo la presenza di una persona accanto poteva permettergli di fare ciò che da solo non riusciva a compiere. Manfredi propose di vedere dietro questa agorafobia  un’isteria d’angoscia.  Già nel 1899 Freud avrebbe detto di questo uomo:  i sintomi sono  antichi, così come sue difese, e “sono costituiti per evitare l’esplosione dell’angoscia: la fobia è posta innanzi all’angoscia come una fortezza di frontiera” . Manfredi  aggiunse: c’è un affetto intollerabile dietro al quale si trova un impulso inaccettabile. Per padroneggiare questa situazione il paziente mette in atto, mobilita, vari meccanismi di difesa.

A questo punto Manfredi mi chiese se il paziente sognasse e se ne ricordassi qualcuno. Lessi dai miei appunti due sogni che mi avevano molto colpito:

Il primo:“Sono fuori, intorno alla casa della mia infanzia. Sento dei rumori di ferraglia, mi spavento, penso ai ladri. Decido di andar via, di mettermi al riparo e porto con me mia moglie e mia figlia. Corro dentro, in casa. Anzi, vado attraverso una botola nel sottotetto e per meglio difendermi tolgo la scala”.

Il lavoro del gruppo coordinato da Manfredi mise in luce come questo sogno mostrasse un percorso di progressivo allontanamento: l’altro era vicino, si sentivano i suoi rumori, ma  scattavano subito delle manovre di evitamento che portavano a non incontrarlo. C’era paura: in quanto ladro, l’altro avrebbe potuto portare via, infliggere un furto; chi si avvicina lo fa per prendere, non per dare.

Questa modalità di leggere il sogno è fondamentale per accogliere in pieno l’insegnamento che Stefania Manfredi consegna ai giovani allievi. C’è dietro la sofferenza nevrotica una triade data dalla difesa che sorge in risposta ad un ansia che a sua volta è frutto di un impulso che è inaccessibile alla coscienza. La lezione di Manfredi può essere così riassunta: si parte dunque dalle difese, per poter mettere in luce l’ansia e per poter raggiungere l’impulso.

Un altro importante insegnamento che Manfredi ci ha affidato giunge dal secondo sogno e riguarda da un lato il tranfert e i suoi vari livelli (un transfert del passato, un transfert sul terapeuta frutto anche della particolare situazione relazionale) dall’atro il sogno come rappresentazione del funzionamento della mente.

Ecco il secondo sogno: Giravo per strada, avevo litigato con qualcuno, forse il mio socio o forse l’ex marito di mia moglie, forse ero a Milano, forse nel luogo dove vivo adesso. Sono in giro con una pistola, mostro la mia aggressività. Ho fuori la pistola per esprimere il mio dissenso, però non sparerò mai: non è una minaccia reale, non è il caso di preoccuparsi. Nel girare si fa sera. Ci sono dei palazzi. Incontro una donna bella e sofisticata, è bionda, mi parla. Parliamo. Mi chiede cosa ci faccio in giro. Poi mi preoccupo io per lei e le chiedo cosa ci faccia in giro a quest’ora. Tutta la normalità della donna data dagli abiti, dai modi, nascondono un’alterazione mentale. E’ nuda sotto. Metto la mia mano fra le sue gambe. C’è del sangue, forse un aborto, del mestruo solidificato, quasi un inizio di pene. Saliamo in un palazzo. Non voglio avere rapporti completi . Abbiamo un rapporto parziale.

Il lavoro di supervisione del gruppo insieme ai contributi di Manfredi permise di mettere a fuoco come questo sogno fosse composto da due parti il cui punto di intersezione è temporale: si fa sera, gli anni passano. Nella prima parte del sogno il paziente gira con la pistola per mostrare, intimorire con la sua aggressività. Tuttavia, avverte che non è così pericolosa. Segue l’incontro con la donna, che ha degli aspetti confusi: un fuori elegante e un sotto nascosto, fatto di alterazione mentale. A seconda della lettura, il sogno può rimandare ai timori per l’incontro con l’analista, anche se questa volta non lo evita come nel sogno dei ladri, ma può anche raccontare la sua organizzazione mentale, soprattutto il grumo di sangue, l’aborto, come incapacità di crescere. In questo sogno però il paziente si preoccupa per la donna, prova una spinta conoscitiva. Questo a giudizio di Manfredi è il punto più importante per il lavoro analitico: il paziente dichiara di volere l’analisi, anche se il rapporto può solo essere parziale. Il paziente non può sentirsi chiuso, privo di una possibilità di fuga. Con la vicinanza e con l’incontro l’aggressività e la rabbia scompaiono, sorgono timore e diffidenza. Il sogno sancisce così un fatto nuovo: il paziente non vuole più solo evitare; può avvicinarsi, seppur minaccioso. E’ possibile l’incontro anche se, naturalmente, dovrò essere controllato ancora a lungo.

Il tema di come incontrare, di come stare insieme, di cosa scambiarsi mi permette di toccare quei caposaldi del metodo psicoanalitico su cui Manfredi ha scritto, pubblicato e riflettuto un’intera vita: l’uso del controtransfert per arrivare all’interpretazione che permetta di stabilire dei collegamenti fra le aree dell’ansia e quelle relazionali del transfert.

In quella occasione Manfredi mi segnalò subito i rischi che intravedeva per la coppia se avessi  agito il controtransfert soprattutto attraverso l’interpretazione o avessi cercato una scorciatoia facendo interventi rassicurativi perché avrei attivato l’induzione della suggestione. L’interpretazione di transfert doveva essere rinviata ad un altro tempo.

Ricordo di aver raccontato a questo punto al gruppo condotto da Manfredi che il paziente dopo una fase iniziale di rispetto del setting aveva cominciato ad arrivare in ritardo, a sbagliare gli orari; pareva confuso, ma allo stesso tempo controllava lui la situazione e mi metteva alla prova: era mancato ad alcuni incontri, non ne aveva dato comunicazione. Manfredi mi chiese se avessi interpretato quei movimenti del paziente e che cosa avessi provato. Le riposi che controtransferalmente non avevo avvertito in quel comportamento aspetti perversi, avevo pensato piuttosto che avesse bisogno di avere una possibilità di fuga, così come da tanti anni fuggiva dalle proprie sensazioni. Inoltre, aggiunsi, che avevo pensato che quelle sparizioni, che circondavano la relazione terapeutica di una atmosfera angosciante, erano probabilmente compiute al fine di  capire se riusciva a terrorizzarmi o se potevo rappresentare la potenziale protezione che andava cercando. Manfredi fu d’accordo con quanto le avevo riferito perché avevo colto la possibile comunicazione che il paziente mi stava facendo e che implicava il nostro rapporto. Fu per Lei l’occasione per ricordare al gruppo che è il racconto che riusciamo a fare che può cogliere il tipo di ansia presente e che aveva potuto spingere il paziente ad agire. Inoltre insistette sul fatto che l’interpretazione è agita se è soprattutto difensiva perché non avrebbe incluso le qualità emozionali di piacere-bisogno e quindi sarebbe risultata superegoica. Il problema ci spiegò non era tanto a chi il paziente stava facendo provare quegli agiti, ma riuscire a parlargli del piacere che provava, un piacere non cosciente. Espellere pensieri in atti può dare piacere, tenerli dentro e pensarli fa soffrire. Aggiunse inoltre che è importante che il paziente sappia che l’analista si rende conto di quanto sia difficile per lui soffrire e quanto sia invece piacevole continuare a evitare la responsabilità ( depressiva) del proprio sentire che diventa pensiero.  Manfredi mi segnalò anche che  c’era qualcosa  su cui dovevo essere più consapevole: avvertiva in quanto era accaduto  l’impossibilità per adesso dell’incontro di due confini, analista e paziente garantiti dal setting. A questo paziente sembrava mancare una tringolarità edipica, l’angoscia prendeva vita da fasi pregenitali ed era legata a una situazione duale soggetto-oggetto che rendeva difficile l’analizzabilità . In qualche modo il paziente desiderava che il suo confine inglobasse il mio in modo da essere sicuro che non avvenisse il contrario: non poteva, infatti, sentirsi invaso, non doveva subire. Si illudeva, per proteggersi, che l’unica soluzione fosse possedere l’altro: controllarlo, dominarlo, manipolarlo. In questo modo  Manfredi mi mostrava il funzionamento di uno dei concetti su cui ha a lungo pensato: la fortuna ambigua delle identificazioni proiettive.  Questa situazione terapeutica frutto di una esternalizzazione della relazione oggettuale interna poteva essere contenuta evitando di scendere nel campo della lotta e della inevitabile competizione per quell’unico spazio vitale che in questa fase l’interpretazione avrebbe aperto.. Mi invitò a lavorare su una inversione del processo che partendo dalla capacità dell’analista di funzionare da contenitore, desse vita a un movimento di identificazione che allargasse lo spazio vitale del paziente aprendo la possibilità di introiettare nuove identificazioni. Concepire la situazione analitica come duale e non ancora triangolare, portava a ritenere inevitabili proteste e modificazioni al setting.  Andava bene per questo paziente rimanere su un numero di sedute settimanale inferiore alle quattro perché ci trovavamo di fronte a problemi collegati allo sviluppo primario, alla ricerca di fusionalità, all’interno della quale dovevano essere soddisfatti prima i bisogni essenziali dello sviluppo. Solo dopo aver accettato la manipolazione della situazione analitica, l’analista avrebbe potuto  assumere un atteggiamento interpretativo. In questa fase dell’analisi mi invitava ad  accettare   di non capire, di non sapere già, e questo non è facile all’inizio di questo nostro lavoro in un momento in cui vorremmo che le sedute ci restituissero un’ immagine di noi stessi capaci.  Mi invitava , in accordo con il gruppo, a porre i miei pensieri in modo dubitativo, interrogativo: di tollerare il dubbio. Il paziente poteva così assistere a un funzionamento mentale in grado di sopportare di non sapere e che faticosamente cercava di costruire pensieri e rappresentazioni, che accettava la soggettività dell’esperienza e la coesistenza di più punti di vista. Il mio compito  sarebbe per il momento consistito nel non promuovere la competizione e di favorire l’accettazione dei limiti evitando il rischio di una riunificazione delle parti scisse sotto l’egemonia della legge del più forte.

 

La conclusione di questa terapia, avvenuta molti anni dopo,  mi ha fatto confrontare su un altro tema su cui Manfredi ha a lungo riflettuto: quando e come il bisogno di sicurezza e stabilità può lasciare spazio al cambiamento, ad un cambiamento sentito come non indotto dall’analista. Non ho potuto confrontarmi con Lei su questa conclusione, così come non ho potuto riflettere con Lei e con  il gruppo dei colleghi fiorentini su un tema che nel corso degli ultimi anni ha assunto un ruolo importante all’interno della riflessione psicoanalitica che è quello di agency, del senso di efficacia. Manfredi ne parlava già trent’anni fa e si interrogava sul ruolo che gioca nel nostro continuo sviluppo il rapporto fra Io e Io-Ideale o se preferite tra Sé e rappresentazione Ideale del Sé.  Su questi temi il dialogo con lei può continuare solo attraverso i suoi scritti, ma posso  ritenermi fortunato di ciò che ho avuto ed è  rimasto centrale nel mio modo di lavorare quotidiano. Anche a distanza di tanti anni da quei seminari, quel gruppo che si incontrava per pensare e studiare insieme fa parte della mia famiglia interna che mi accompagna nelle tante ore di “solitudine lavorativa” e fa da argine al rischio di interventi  di  evacuazione nel, sul paziente  e mi aiuta a pensare ,come ha scritto Manfredi, che la mente è come un’ officina dove si ripara in permanenza, fintanto che si può. Quando il ritmo diventa insufficiente si cerca uno psicoanalista .

 

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