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“Buio in sala” 2024 – “Misericordia” – Commento di Anna Cordioli

Misericordia

Misericordia.

È con questa parola -scritta sulla fiancata di un’auto- che si chiude il bellissimo e omonimo film di Emma Dante.

 

IL LUOGO DELLE ORIGINI

“Misericordia” si apre con un uomo che prende a botte una donna incinta. Attorno non c’è nessuno che possa salvarla, solo una natura potente fatta di grotte arse e del mare che attende nuovi naufragi.

Un attimo dopo sentiamo il pianto di un neonato, abbandonato in una nicchia della roccia. È orfano. Nessuno ce lo spiega ma lo sappiamo. È solo e nudo, gettato in questo mondo, senza alcuna tutela. Solo una pecora sente il suo pianto e cerca di soccorrerlo. Questa immagine sembra rappresentare una sorta di presepio monco, solo una pecora e il bambinello, un presepio degli orfani.

È dunque questa l’origine, tragica, quasi mitologica, di Arturo, che rincontriamo, già grade, mentre corre accompagnato da gregge del pastore. Ci accorgiamo subito che Arturo è diverso agli altri bambini. Non solo perché è molto più vecchio di loro ma perché la sua mente è di gran lunga più infantile. Una bambina lo aiuta a vestirsi: prima un piede, poi l’altro, poi tira su i pantaloni.

Arturo non è autosufficiente. Sorride, corre, è felice, ha paura, si confonde, non parla… gira su se stesso come un derviscio incantato.

Arturo è ancora indifeso come nella prima scena della sua vita. A salvarlo erano state le persone di un borgo fatiscente, una favela in riva al mare. Le case sono catapecchie di una povertà post-industriale e l’economia del posto si basa sulla prostituzione. Arturo è stato adottato da tre puttane (come  dice schiettamente E. Dante): loro lo nutrono, lo lavano e lo fanno uscire dal postribolo quando arrivano i clienti.

Il villaggio sembra abitato solo da donne in vendita, rassegnate a quella vita, da uomini maceri e da bambini dai capelli annodati. Ripensando a tutto questo, non posso non pesare alla canzone “Anima latina” di Battisti.

Scende ruzzolando

Dai tetti di lamiera

Indugiando sulla scritta

“Bevi Coca Cola”.

 

Scende dai presepi vivi

Appena giunge sera

Quando musica e miseria

Diventan cosa sola.

 

La gioia della vita

La vita dentro agli occhi dei bambini denutriti

Allegramente malvestiti

Che nessun detersivo potente può aver veramente sbiaditi

 

Quel borgo schifoso è lo sfondo perfetto per narrare questa non-storia, in cui tutto sembra gridare che la vita non ha necessariamente un senso ma che comunque si lotta per vivere. E poi, tra loro, c’è Arturo…

Presentati i personaggi, la storia rallenta tutta d’un colpo ed è qui che, per quanto mi riguarda, si compie il vero miracolo del cinema: appare la verità, senza orpelli, senza sconti e anche senza false speranze.

 

Per raccontare di questo miracolo, però, devo uscire dal film e spiegare perché ho scelto di presentare, per “Buio in Sala”, proprio questo film di Emma Dante.

Dottoressa a lei piacerà” mi aveva detto una paziente in seduta “l’attore che interpreta Arturo… è puro corpo”. Aveva ragione.

Non avevo mai visto una interpretazione così fedele alla realtà di questo tipo di esistenza. Qualcuno ha detto che il personaggio di Arturo è autistico, altri che ha un ritardo mentale grave; nel film non ci viene svelato, perché non è la diagnosi la questione importante del film ma è come si vive accanto ad Arturo.

Nella mia vita ho avuto la sorte di lavorare in un progetto di sostegno psicologico a famiglie con minori con autismo grave o “da innesto”, come si diceva una volta, ovvero quei casi in cui la difesa autistica si struttura precocemente ma a partire da una patologia fisica o da una sofferenza estrema.

Ho avuto l’onore (perché questo è) di essere accolta nelle case, e nelle famiglie, per fare interventi in domiciliare. Ho incontrato famiglie che fronteggiavano crisi pantoclastiche, tra la cucina e il salotto; notti passate svegli a turno, corse a scuola perché “il bambino non può stare”. Ho conosciuto il modo in cui cambiano i mobili di casa e le abitudini di tutti, il modo in cui i fratelli diventano, volenti o nolenti, care giver già da piccoli. Guardando “Misericordia” riconoscevo ogni piccolo dettaglio: i pannoloni a portata di mano, le prassi della cura, la stanchezza e l’amore arrabbiato.

Nessuno vuole davvero sapere come è la quotidianità di una famiglia che vive con questo tipo di pazienti, specie quando diventano grandi. E forse anche per questo ho veramente apprezzato il lavoro di Emma Dante, che non sceglie un contesto reale ma crea attorno ad Arturo uno scenario quasi da mitologia primordiale.

Questo permette allo spettatore di prendere una minima distanza dalla scena e fare molta più attenzione ai dettagli del corpo e della relazione tra Arturo e le sue madri.

 

IL CORPO

Non ho visto mai nessuno usare il corpo come fa Simone Zambelli, che interpreta Arturo. Non esagero se dico che dovrebbe essere insignito del più alto riconoscimento che un attore possa ricevere. Non credo esista fatica più grande per un interprete che togliere dal proprio corpo ogni memoria di sé… ogni memoria di sguardo su di sé.

Arturo inizia la sua vita senza lo sguardo della madre, abbandonato su uno sperone, lasciato a se stesso per un tempo lunghissimo.

Lemma (2011) scrive: “L’importanza della precoce relazione di sguardi e del contatto epidermico tra madre e bambino non è mai enfatizzato abbastanza. Il contatto e la visione sono inseparabili, uno stesso asse che percorre le esperienze fisiche precoci. […] Queste prime esperienze corporee e sensoriali con gli altri sono inscritte somaticamente e gettano le fondamenta per lo sviluppo del Sé corporeo, e quindi del Sé”.

Arturo non ha potuto interiorizzare un’immagine corporea di sé. Il suo è un corpo pre-riflessivo, a tratti meccanico, a tratti sconosciuto.

L’attore e la regista ci mostrano i gesti di un ragazzo con stereotipie, con crisi cloniche notturne, incapace di trattenere pipì e cacca, che si morde le mani, che si pietrifica, che si masturba ignaro di ciò che fa. Noi vediamo Arturo in ogni sua posa al punto che lo riconosciamo anche nelle scene in cui è distante.

Arturo non ha vergogna, non ha malizia, non ha intenzione. Però ha paura, ha gioia e ha tenerezza.

Mi sono chiesta quanta intima conoscenza Zambelli e la Dante abbiamo sviluppato di loro stessi e del personaggio di Arturo, per rappresentarlo in una maniera così reale. A tratti il film mi è parso quasi documentaristico, sicuramente rivelatore per chi non immagina la quotidianità che si vive assieme ad un ragazzo con grave ritardo e dai tratti autistici.

Spesso Arturo si accompagna alle pecore, con cui gioca, che accarezza dolcemente e da cui si sente protetto. Mi viene in mente Temple Grandin, persona autistica che ha saputo scrivere la propria esperienza di vita, quando affermava “Ero come un piccolo animale selvatico” (1995) e racconta che il suo talento era la capacità di vedere il mondo dal punto di vista di una vacca. In un altro suo libro, “La macchina degli abbracci”, racconta come il contatto che il bestiame ha dentro al branco fosse per lei piacevole, quanto per loro.

Anche per Arturo quel contatto senza pensieri (umani) è rilassante e foriero di felicità immediata.

Egli stesso sembra un agnello imbelle di fronte alle crudeltà che gli girano attorno.

 

LE MADRI

Il bambino viene cresciuto da due prostitute che vivono assieme e sembrano essersi divisi i ruoli.

Una è una donna corpulenta, dolce ed affettuosa. Vediamo il suo corpo nudo, con le forme di una venere preistorica. È un corpo ampio come un continente, che si fa casa di abbracci e bisogni primari. Lavora la lana, grande passione di Arturo, e intreccia per lui maglioni e vestiti.

L’altra è secca e dura. Lo lava e ha a che fare con i suoi escrementi. È la madre che usa la parola per cercare di esprimere i suoi sentimenti: tanto il bene che gli vuole, quanto il male. Dirà, in un passaggio, tutta la sua disperazione per dover accudire questo ragazzo che non sa fare nulla senza di loro. Talvolta la notte pensa che basterebbe un cuscino per soffocarlo, che lo vorrebbe riempire di baci e morsi. Non gli farebbe mai del male ma ha bisogno di esprimere quella disperazione.

Ho molto amato questa madre che sa toccare ed esprimere le parti “fecali” della relazione, che lo perde in un momento di disattenzione e poi si dispera. È una madre reale, come molte che ho conosciuto, bisognose di poter trovare qualcuno che possa anche accogliere la loro esasperazione, senza giudicarle e senza pensare che non sappiano amare i loro figli.

A queste due madri iniziali, si aggiungerà una giovane prostituta, che avrà con Arturo un rapporto di vicinanza dolce e senza malizia ma comunque capace di riconoscerlo nei suoi slanci di tenerissima amorosità e anche il bisogno di masturbarsi.

Messe assieme queste tre donne diversissime, concorrono alla crescita di Arturo. Sono le tre Parche che filano la vita: una districa i bisogni primari, una intreccia i sogni d’amore, l’altra si chiede quando servirà tagliare il cordone che lo lega a loro.

A lungo si dibatte se Arturo non starebbe meglio via da quel borgo fatiscente. Saranno infine le aggressioni  continue del mostro Polifemo, padre di Arturo e padrone delle prostitute, a far scegliere per allontanare il ragazzo.

 

L’INAUDITO E LA MISERICORDIA

La storia contenuta in questo film è la storia di un mondo inaudito, pieno di violenza sessualità e candore, che esiste lontano dalla società. Queste vite sono vite rotolate ai margini di tutto, senza ormai alcuna prospettiva, impegnate con fatica estrema a sopravvivere. Amo molto il concetto di inaudito, significa “non udito”:

“È “inaudita” una assoluta novità (come l’incontro con una alterità che ci è ancora aliena) ma molto spesso è “inaudito” ciò che è stato precocemente rimosso e che la coscienza non vuole rincontrare.  Usiamo, infatti, questo aggettivo nella sua accezione di scandalo e di rifiuto per qualcosa.” (Cordioli 2024, 270)

In Misericordia esiste un “inaudito morale”, che ci si presenta nei corpi sfruttati delle donne e nella violenza sudicia del mostro Polifemo; c’è un “inaudito per effetto del rimosso”, che è ad esempio il desiderio mai nominato di potersi affrancare da tutto quel dolore: ascoltarlo sarebbe troppo doloroso per cui resta nascosto; e infine c’è un “inaudito del non ancora rappresentato” che è Arturo stesso col suo corpo percorso da frastuoni che non possono trovare ascolto perché non sono ancora un messaggio udibile.

Ma come si può ascoltare, dunque, tutto questo stratificarsi di patimenti e di vite?

Il film di Emma Dante non fa sconti ma non per questo diviene crudele, né coi suoi personaggi né con lo spettatore. Fin da subito, fin dalla baia primordiale in cui tutto si svolge, veniamo tutti trasportati in un luogo minimo comune. Ci troviamo tutti assieme, mentre la Dante smonta ogni sovrastruttura e ogni scusa. Restano solo il linguaggio ancestrale del mito e il travaglio dell’animale uomo.

È in questa riduzione ai minimi termini che avviene l’incontro con un sentimento di disarmato affetto per Arturo, per le sue tre madri puttane, per i bambini lerci, per le pecore alla tosa. Anche il mostro evoca più miseria che odio. Ed è lì che si coglie il significato finale della parola misericordia: provare compassione dentro nel cuore.

Non è sufficiente la com-passione: la Dante, si insinua davvero nel cuore dello spettatore, ci fa sentire come nostro un dolore che non abbiamo mai provato o che abbiamo solo sfiorato. Non lo fa attraverso lo svolgersi di una fitta trama di eventi, ma inducendoci ad ascoltare l’inaudito, gesto dopo gesto. Contatto dopo contatto.

Certo è che “Misericordia” scava e lavora nello spettatore anche per giorni dopo la fine dell’ultima scena.

 

INFINE

Prima della proiezione abbiamo potuto vedere un videomessaggio inviato da Emma Dante agli spettatori di “Buio in Sala”, con un ringraziamento a chi torna nelle sale e per aver voluto vedere un film “Forse imperfetto” ma, aggiungo io,  realizzato con grande ispirazione.

Voglio ringraziare Stefania Nicasi, Vincenza Quattrocchi, Rossella Vaccaro (Centro Psicoanalitico di Firenze) e Michele Crocchiola (Fondazione Stensen, Cinema Astra) per avermi accordato di guardare assieme “Misericordia” perché sono consapevole di aver proposto un film che non è fatto per intrattenere né per ammaliare. Forse per questo, in pochi hanno puntato su di esso ed è stato ritirato dalle sale prima che potesse iniziare il passa parola.

Ritengo che il nostro compito di analisti sia anche quello di non far cadere nel rimosso e nell’oblio, messaggi inauditi e bellissimi come quelli contenuti in “Misericordia”.

 

Bibliografia

Cordioli A., (2023) ”L’inaudito e l’arcobaleno. Trasformazioni di un’analista durante un viaggio nella musica queer.”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 266-318

Grandin  T. (1995) “Pensare in immagini e altre testimonianze della mia vita di autistica.” Tr. It.: Trento, Erikson, 2001

Lemma A. (2005) “Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee”, Raffaello Cortina, Milano, 2011

Montagnini M. (2022) “Autobiografie autistiche”, Centro Veneto di Psicoanalisi,  https://www.centrovenetodipsicoanalisi.it/biografie-di-persone-autistiche/

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