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Bolognini S. (2017) Preconscio e creatività

Testo della relazione presentata al convegno “Spunti per una psicoanalisi contemporanea. Il pensiero di Sandra Filippini” 

Firenze, sabato 2 dicembre 2017

La segnalazione recente, da parte dei giornali e delle TV, della comparsa di uno squalo bianco di 7 metri a poche centinaia di metri dalla costa romagnola ha suscitato una notevole apprensione, data la pericolosità di questo mostro marino che solitamente abita acque ben più lontane e profonde; così come invece generano sconcerto e pena le notizie riguardo agli spiaggiamenti di altre creature più amabili, come balene e delfini, che pure vivono nelle profondità e che di solito non avvistiamo facilmente.

Questa notizia mi era stata data, in prima battuta, da un paziente che l’aveva appena letta al bar prima di venire in seduta, e costituì il punto di partenza per una serie di pensieri del tutto in linea con il suo stile mentale abituale, fondato sullo stupore di fronte all’impatto (peraltro saltuario) con cose profonde e distantissime dalla sua coscienza, data la sua ben scarsa familiarità con il preconscio. 

Metaforicamente parlando, questa persona avrebbe potuto visitare senza troppo scomporsi il fondo della Fossa delle Marianne (-10.900mt.) ben protetto all’interno di un batiscafo, osservando il buio dell’abisso attraverso spessi oblò; ma nella realtà andava in crisi se immerso in due metri d’acqua a corta distanza dalla riva, preferendo la controllare l’ambiente stando sotto l’ombrellone.

La semplice esperienza del “fare il morto” in acqua, che implica il lasciarsi cullare dalle onde e che richiede l’accettazione di due condizioni in controtendenza rispetto al controllo (le orecchie sott’acqua, e il bacino in alto, rinunciando a mantenere la testa in verticale come un periscopio), lo terrorizzava letteralmente; potete dunque immaginare come l’idea di sdraiarsi sul lettino e di lasciar fluttuare i pensieri lo avesse ugualmente agitato all’inizio della sua analisi.

Chi si fida un po’ di più di metter piede e poi baricentro nella fluidità associativa “bagnandosi” con sensazioni e affetti, o chi – ancor meglio – ci prende gusto, accede di solito ad un’area dell’esperienza interiore che, oltre a permettere un’esistenza più rilassata e piena, può consentire l’accesso ad una eventuale dimensione creativa: che richiede però anche un certo dinamismo, un quantum di vitalità positiva.

Il contatto col preconscio (evento intrapsichico) ha qualche analogia con l’ascolto (evento interpersonale), e richiede anche una parziale sospensione rispetto al tempo: è spesso un “time out” riflessivo-esplorativo e somiglia molto alla condizione del gioco.

A livello di scambio con altri rimanda comunque più specificamente all’Interpsichico (e su questo tornerò più oltre), mentre a livello individuale implica un’apertura di canali interni, con allentamento di usuali barriere e chiusure, e con contatto tra parti e livelli diversi del Sé.

Sarebbe velleitario, a mio parere, spingersi qui oltre le finissime descrizioni e definizioni sviluppate da Sandra Filippini e Maria Ponsi nel loro splendido articolo del 1992, a mio avviso insuperato sul piano teorico fino ad oggi, non solo per la loro proverbiale precisione e accuratezza concettuale, ma soprattutto per la loro capacità di assumere vertici osservativi diversi e complessi, con spirito veramente libero e scientifico, critico e rigoroso, in anni in cui l’evidenza del pluralismo in psicoanalisi era ancora oggetto di frequente diniego o di esplicito disprezzo.

Preferisco quindi esplorare il tema generale del contatto con il preconscio, lasciando in sospeso problemi squisitamente teorici come, ad esempio, se sia più appropriato collocare topograficamente il preconscio nella porzione dell’inconscio più prossima alla superficie, o viceversa in quella della coscienza più prossima all’inconscio (un problema dinamico vettoriale: qualcosa che sta per infossarsi o qualcosa che sta per emergere?).

Prenderò la curva larga registrando due situazioni tipiche e privilegiate che nella quotidianità facilitano il contatto con il preconscio: una, che ritengo comune a tutti i colleghi senza distinzioni, si realizza durante la maggior parte delle sedute con i pazienti.      In esse siamo allenati ad aprire molti cancelli interni, e l’accesso a ricordi, fantasie, sensazioni e pensieri si fa allora naturalmente più ricco e agevole; al punto che quando invece la nostra mente si restringe o si chiude, ce ne accorgiamo e riflettiamo consapevolmente – per lo più con dispiacere – su cosa ci stia impedendo di funzionare con profondità e integrazione.

L’altra situazione privilegiata (ma qui si va decisamente sul soggettivo e riguarda oggi meno della metà degli psicoanalisti) è quando mi faccio la barba, cioè al mattino appena alzato dal letto.

Ancora intontito dal sonno, spesso sotto il residuo effetto di sogni a varia coloritura, vengo quasi sempre catturato dal ricordo di una qualche canzone, che lì per lì inaugura, dio sa perché, la mia giornata.

Le canzoni che mi vengono in mente sono spesso incredibili riemersioni dalla cosiddetta “memoria trash”: un repertorio assurdamente vasto, che spazia dalle canzoni regionali del passato a tutta la gamma dei Sanremo più improponibili (con aggiunta di “Cantagiro” dell’adolescenza), dagli “Zecchino d’Oro” della mia infanzia a tutto il cantautorato dal ’68 in poi, dai canti degli alpini e di chiesa fino al pop più recente ascoltato nei voli aerei più lunghi, dall’opera ai grandi classici della canzone nordamericana. E non pensiate che ci sia una selezione qualitativa a monte: mi tornano in mente oscuri cantanti di una sola canzone ascoltati 50 anni prima, testi a volte esecrabili per la loro stupidità, sguaiati brani rock d’annata… a volte roba da vergognarsi.  Eppure…: 

1) questa enorme compilation era lì, dentro di me, senza che io lo sapessi, e torna a galla dopo decenni di oblio a volte meritatissimo.   

2) quasi sempre, dopo poco, il nesso con quello che mi frulla dentro appare in tutta la sua evidenza, e io mi diverto, o mi rattristo e a volte in realtà mi addoloro profondamente, quando capisco cosa mi sta passando “dentro” e perché.

Farsi la barba è un’attività prevalentemente procedurale, si esegue in automatico pensando ad altro, e per almeno un quarto d’ora ti tiene lì: la schiuma, poi il rasoio va per conto suo secondo percorsi già collaudati, e la mente divaga, non cerca niente; trova invece parecchio, seguendo ispirazioni sorgive e imprevedibili.

Ci sono esempi più nobili, in psicoanalisi, di attività procedurali che regolano l’equilibrio e l’omeostasi dell’analista tra tensione e scarica: dal lavoro a maglia di Anna Freud agli squiggles di Winnicott; mi piace pensarli non solo in senso energetico-economico, ma anche come scene complesse in cui una parte genitoriale del Sé permette ad altre parti di giocare creativamente, assistendo all’attività in corso con benevola attitudine.

Spesso la canzone del rito mattutino funziona come un passepartout verso il mondo interno, ma altre volte quella funzione spetta alle parole di una poesia, alla scena di un film, a un ricordo. E tutti questi elementi possono aprirci gli occhi, il cuore, la mente.  

La nostra micro-psicopatologia della vita quotidiana si replica così ogni mattina, ma …attenzione!…: il più delle volte non è “ripetizione”.  E’ “ritrovamento” (Bolognini, 2016).

CREATIVITA’: QUANDO “DA COSA NASCE COSA”

Parlerò brevemente di Elena: una giovane donna molto intelligente, che però non è creativa. 

Affermare che una persona è intelligente, che quindi – etimologicamente – sa legare insieme (“inter-ligare”) le cose in una maniera utile e sensata, che sa andare in profondità in molti campi e che sa sviluppare un discorso, ma che non è creativa, può sembrare una contraddizione in termini; eppure, nei suoi processi mentali è proprio come se Elena andasse avanti su un binario. 

Una volta collocatasi sul suo binario mentale, fatto di ragionamenti logici conseguenti, Elena va avanti benissimo, ma di fatto non esce da quello. 

E proprio di un binario si tratta: Elena è colta, precisa, sa tante cose e potrebbe parlare per ore su svariati argomenti, ma non lega aree diverse, non collega cose distanti tra loro, non crea nuovi nessi tra le cose. Viaggia sicura su questo suo personale binario interno, che la tiene “in linea” nel suo procedere; e mi racconta, in seduta, di come da bambina disegnasse benissimo, ma solo copiando. 

   *    *    *   *

Ora, Elena appunto è prevedibile anche in seduta.

E’ una persona che procede in base a formule preformate, collaudate, che si ripetono; che dispone anche di una sua eleganza nel disporre e nel proporre le cose, ma è una eleganza “di ordinanza”: produce “copie” di pensieri già pensati o comunque inesorabilmente già pensati, e si sente che non azzarda niente di nuovo, non presenta niente di fresco.   

In compenso, è determinata ed efficace nello svolgimento di compiti esecutivi: “Se mi danno qualcosa da fare che non richiede scelte particolari – dice – vado COME UN TRENO…!…”.  

E a me tornano allora in mente i binari: finché non deve scegliere, inventare, creare qualcosa di nuovo e soprattutto qualcosa di “suo”, finché può o deve seguire un copione già scritto, prestabilito da altri, Elena è tranquilla e problemi non ne ha.

Man mano che procedo nel conoscerla, credo di poter dire che il suo Io difensivo “monta la guardia” in un modo molto efficace nei confronti di altre, più autentiche parti del Sé: per cui da quei suoi binari interni non scappa niente di imprevedibile, niente che già non si sapesse o non esistesse.

Elena non trasmette una sensazione di conflitto e di tensione: se paragonata ad un’automobile, non darebbe l’idea di un’alternanza rabbiosa o timorosa di accelerazioni e di frenate; richiamerebbe piuttosto quei dispositivi che il guidatore può inserire stabilmente e che bloccano la velocità ai 130 kmh.  Il preconscio di Elena è ancora poco accessibile: “hic sunt leones”.

Il problema che questa paziente pone non è quello della tecnica di per sé, in astratto e in linea di principio, bensì quello del rapporto tra tecnica, mondo interno, ispirazione, autenticità, Sé e processi di integrazione delle varie aree e funzioni implicate. Ma su questo torniamo dopo.

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Uno dei modi fondamentali di rappresentare e concettualizzare questi processi interni rimanda all’alternanza tra il processo primario e il processo secondario: questo è uno dei punti nodali della concezione psicoanalitica. 

Nel caso del processo primario, cito qui Laplanche e Pontalis (1967): 

“L’energia psichica fluisce liberamente, passando senza ostacoli da una rappresentazione all’altra secondo i meccanismi di spostamento e di condensazione; essa tende a reinvestire pienamente le rappresentazioni inerenti alle esperienze di soddisfacimento costitutive del desiderio (allucinazione primitiva).”  

Direi che in Elena questo processo si vede poco, per ora. 

Il modo conscio di procedere mentalmente, in lei, è sempre e solo irreprensibilmente logico, ed è quello sdoganato d’ufficio dal suo Io difensivo; ogni altra possibile forma di pensiero è profondamente bloccata sul famoso binario, e questa grande mobilità di spostamento dell’energia liberamente fluttuante, descritta da Laplanche e Pontalis, non compare ancora. 

Nel caso del processo secondario, invece:

“…l’energia viene «legata» prima di scorrere in modo controllato; le rappresentazioni sono investite in modo più stabile, il soddisfacimento viene differito, permettendo così l’esecuzione di esperimenti mentali, che saggiano le diverse possibili vie di soddisfacimento.” 

La descrizione di Laplanche e Pontalis, come sempre magistrale, ha due limiti, a mio avviso, in questo caso: il primo è il fatto che viene implicitamente suggerita una lieve “preferenza” per il processo secondario che sì, certo, è complessivamente più evoluto e più realistico, ma che può mancare di una componente fondamentale dell’esperienza, quella collegata proprio all’alternanza con il processo primario.

La possibilità di carrellare in modo creativo tra il processo primario e il processo secondario e viceversa, concedendosi regressioni funzionali contenibili in un regime di tranquillità dell’Io Centrale (i Botella (2001) la chiamano regredience) è una funzione potenzialmente positiva, non è un segno di breakdown imminente o in atto; è una utile flessibilità e mobilità funzionale che accomuna – tra gli altri – molti artisti, molti psicoanalisti e in generale le persone dotate, appunto, di una qualche forma di creatività.

Gli psicoanalisti non sono “acculturati” attraverso un esercizio metodico basato sul processo secondario (per quello basta un diploma universitario), come – in forma diversa – lo sono invece i filosofi, i matematici e gli ingegneri; gli analisti sono allenati quotidianamente a compiere questo passaggio alternato tra i livelli razionali – che compongono fin dall’inizio del processo un quadro sensato, rappresentabile, formulabile, dicibile, comunicabile in modo conseguente e che per lo più “viaggia sui binari”, sperabilmente quelli “giusti” – e i processi primari del tutto fluttuanti per conto loro: che raggiungono aree interne del soggetto distanti tra loro, e che riescono anche a contattare in modo integrativo quelle sensazioni ed emozioni che sono connesse profondamente con le rappresentazioni e che a volte costituiscono il nucleo sostanziale delle cose.

Ad un certo punto di molti trattamenti il terapeuta inizia a condividere in modo istintivo con il paziente queste aree di passaggio tra processo secondario e processo primario, avvertendo che l’interlocutore è ormai in grado di carrellare tra ciò che è logico e ciò che è psicologico: e lì, di solito dopo una lunghissima marcia di avvicinamento, inizia la parte più creativa del lavoro analitico.

Come sappiamo, la capacità di combinare, almeno in parte, questi livelli funzionali, è stato ed è appannaggio di molti artisti. 

Non di tutti, per la verità, poiché molti si muovono invece con pieno agio su un piano di istintiva e naturale inconsapevolezza e non sentono il bisogno di spiegare, rappresentare e formulare alcunché; altri, all’opposto,  iper-concettualizzano, ed è arduo comprendere quanto libero sia il loro raggio d’azione e la loro libertà di gioco nell’area preconscia. 

Molti artisti hanno dimostrato la capacità di giocare in modo libero e creativo nella cornice di una personalità stabile e molto organizzata. 

Bach, per esempio, aveva una straordinaria capacità di gioco.   Però la sua personalità e la sua organizzazione di vita erano ben strutturate, come pure le sue costruzioni armoniche, così vivamente esplorative. 

Rimanendo nel campo dei grandissimi, possiamo senz’altro fare riferimento anche a Dante Alighieri: pensiamo alla maniera straordinaria con cui la sua creatività e la sua fantasia si combinavano con la sua maestria nel gioco verbale, pensiamo alla musicalità e alla potenza evocativa degli scenari e delle atmosfere della Commedia, ma anche alla padronanza consapevole della tecnica poetica e alla sapiente armonia interna dei suoi versi. 

La fluidità associativa, la capacità di movimenti trasversali ampi tra rappresentazioni ed aree distanti tra loro, con libera circolazione delle componenti affettive connesse, offre nuove possibilità di combinazione di elementi interni. E questo è alla base della creatività, unitamente alla disponibilità dell’Io Centrale a dar spazio al Preconscio, ai suoi suggerimenti associativi imprevisti e imprevedibili, ai suoi scarti, alle sue sorprese. 

E’ possibile ammorbidire le barriere dell’Io difensivo nei confronti del Preconscio pur mantenendo funzionante questa parte dell’Io Centrale che contiene e organizza, permettendo uno svolgimento integrativo adeguato del processo secondario?

Sì: sappiamo che questo è possibile, soprattutto se e quando il soggetto ha potuto sperimentare un trattamento analogo all’inizio della propria esperienza formativa, da parte di un oggetto adeguato che si è disposto in modo adatto verso il suo Sé: quella funzione complessa viene introiettata, e “l’ombra dell’oggetto ricade sull’Io”, in questo caso utilmente.

L’io Centrale eredita lo stile di funzionamento del care-giver, e ciò che è stato prima felicemente interpsichico, e poi significativamente intersoggettivo, diventa anche intrapsichico. 

Anche la possibilità di tollerare/utilizzare certe scissioni preesistenti può contribuire a questa creatività, favorendo effetti di sorpresa, di spiazzamento, di novità, di contatto con realtà escluse; e a volte perfino la capacità di creare attivamente nuove barriere scissionali intenzionali, che determinano effetti altrettanto spiazzanti, o di focalizzare tutta l’attenzione su un solo elemento estremizzato, fanno parte della creatività artistica, e anche di quella analitica.

Posso citare alcuni personaggi artistico-letterari che hanno giocato con maestria su questa capacità scissionale intenzionale. 

Il più noto è certo Magritte. 

Magritte ci spiazza. Quando si parla di spostamento e condensazione a proposito del processo primario, io penso che dovremmo menzionare anche lo spiazzamento, che è un dispositivo ancora diverso dai precedenti: lo spiazzamento è uno spostamento che tiene conto dell’assetto dell’Io dell’altro e che intenzionalmente ci gioca, “lo gioca” (come ci dimostra il geniale funambolo-giocoliere Philippe Petit (2014), che lo ri-nomina come “misdirection”, in questo caso a spese di un Io difensivo troppo inibente).

Lo spiazzamento è un modo di giocare in cui si suggerisce, si inferisce qualcosa che apre la mente dell’altro; a volte è un gioco interpsichico, altre volte può essere transpsichico, quando ha una sua violenza. Nei casi, invece, meno disturbanti – e per me Magritte non è certo dei più disturbanti – la capacità dell’artista di spiazzare passa attraverso una abile maniera di scindere: che smuove, suggerisce, prospetta, ma non spacca del tutto l’assetto mentale precedente del soggetto. 

Magritte fa questo: scinde e poi ricompone in modo spiazzante, rimettendo in discussione le nostre aspettative e le nostre certezze. 

Un artista contemporaneo che spiazza in modo simile è Cattelan, il quale pure utilizza elementi già noti che vengono però combinati e proposti in congiunzioni nuove e imprevedibili, che ci sorprendono, lasciandoci incuriositi ma incerti, in bilico tra il registro del comico e quello del tragico.

Oltre all’effetto-sorpresa si realizza anche, in filigrana, la costruzione progressiva di un senso generale  (della scena, dell’installazione, della sequenza) che si comprende solo un po’ alla volta lasciando lavorare dentro di noi i vari elementi presentati, i quali sulle prime appaiono senza nesso; emerge un po’ alla volta il senso sottostante alla rappresentazione proposta dall’artista in modo così sincopato e provocatorio, e l’esperienza complessa e condensata viene metabolizzata solo un po’ alla volta, dopo l’impatto iniziale che sulle prime impedisce all’Io una lettura logica dei significati sulla base del solo processo secondario. 

In campo letterario mi piace prendere in esame il caso del giornalista-scrittore Michele Serra. 

Serra è un vero talento perché la sua straordinaria tastiera/tavolozza terminologica (gioca con le parole con una meravigliosa varietà di coloriture e con somma competenza lessicale) si esprime soprattutto con accostamenti imprevedibili, che ci spiazzano e che al contempo ci stuzzicano e ci divertono, suggerendo in modo geniale versanti non pensati di una situazione, di una scena o di un personaggio.

E del resto l’etimologia di “divertire” (dal latino “di-vèrtere” o “de-vèrtere”: volgere altrove, deviare, sviare) rivela inequivocabilmente gli equivalenti concreti di questi processi psichici.

Molto spesso Serra procede nel suo discorso focalizzandolo su aspetti molto specifici, alterando con la maestria intenzionale del caricaturista i profili e le proporzioni dei suoi oggetti di satira e portandoli ad estremizzazioni paradossali, che procurano prima un brivido (il brivido della mostruosità) e poi – per effetto della scarica dell’ansia descritta così bene da Freud (1905) nel “Motto di spirito” – la de-tensione di fronte alla consapevolezza del fatto che ciò che è descritto non è vero alla lettera.  Resta comunque l’idea che qualcosa di vero, anche se non di reale (Bolognini, 2008), possa pur esservi.

Questo modo di procedere è appunto tipico dei caricaturisti e dei satirici i quali evidenziano ed enfatizzano ad arte i personaggi e le situazioni prese di mira, puntando su di esse con una intenzionale scissione focalizzante, per poi lasciar de-tendere l’Io inizialmente “terrorizzato” del lettore (o dell’osservatore) di fronte al riconoscimento altrettanto repentino del non vero: il tipico dispositivo dello scherzo.    In questo modo l’effetto di spiazzamento aggira, allenta o scardina le difese dell’Io, e il soggetto esce comunque da queste micro-esperienze meno certo dei rassicuranti “binari psichici” sui quali aveva viaggiato in precedenza.

 

  *     *     *     *

Si può dire, allora, che il preconscio è sempre il luogo dell’analisi, o addirittura il luogo della salute?      Secondo me, no.  

C’è infatti chi staziona nel preconscio con un eccesso di maestria, con un eccesso di compiacimento narcisistico fine a se stesso, e con nessuna vera tensione relazionale verso l’oggetto.

Questa è, in linea generale, la disposizione interna degli “spiritosi a oltranza”, dei funamboli coattivi della parola, dell’immagine e dell’invenzione narrativa che non vanno da nessuna parte, che non seguono un istinto creativo vero e proprio ma esercitano la loro capacità di effettuare capriole e avvitamenti spettacolari nel preconscio, a pochi metri da riva, per dimostrare il loro virtuosismo associativo e per stupire: quando “…è del poeta il fin la meraviglia”, e nulla più. 

Esibizione non creativa, talvolta maniacale, non generativa.  Marcia sul posto, spesso mera masturbazione a riciclo narcisistico anti-oggettuale e anti-relazionale; preconscio sfruttato per impressionare con effetti speciali, in cui alligna una convoluzione perversa.

CONCLUSIONE: PRECONSCIO E INTERPSICHICO

Fatte salve le differenze di aree concettuali tra le diverse topiche, penso, come molti, che vadano ulteriormente esplorate le analogie e le connessioni tra preconscio, associazione liberamente fluttuante tra processo primario e processo secondario, reverie e funzioni oniriche della veglia, area transizionale tra Sé e Non-Sé; penso anche che le zone corporee equivalenti più implicate nella fantasia interna corrispondano alle zone mucosali: aree di passaggio tra interno ed esterno e tra l’interno di un individuo e l’interno dell’altro; aree che sono per lo più percepibili con altri sensi che non il controllo visivo, e che costituiscono la porta di accesso all’intimità tra due persone e ipotizzo siano l’equivalente  principale della sede intrapsichica dei processi creativi soggettivi.

Lì si generano le novità vitali, e la capacità di contatto interno, prototipo intrapsichico di questa potenziale fertilità: ciò che ci autorizza a considerare l’acquisita fiducia e familiarità con il nostro preconscio, frutto di un’esperienza interpsichica e intersoggettiva primaria sufficientemente buona, come una delle mete essenziali e al contempo più ambiziose del trattamento psicoanalitico, che dell’esperienza primaria – se le cose vanno bene – riapre i giochi e recupera le funzioni.

  

BIBLIOGRAFIA

Bolognini S. (2008): “Passaggi segreti. Teoria e tecnica dell’interpsichico”. Bollati Boringhieri Editore, Torino.

                     (2016): “Ripetizione, ricorrenza, ritrovamento”. Presentato al Colloquio del Centro Veneto di Psicoanalisi, dicembre 2016, in pubbl.

Botella C., Botella S. (2001): “La figurabilité psychique”. Lausanne/Paris, Delachaux et Niestlé.

Filippini S., Ponsi M. (1992): “Sul concetto di Preconscio”. Riv. Psicoanal., 38, 3, 639685.

Freud S. (1905): “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio”. OSF, Vol. 5.

Laplanche J., Pontalis J.-B. (1967): “Vocabulaire de la psychanalyse”, Paris, PUF.

Petit P. (2014): “Creatività. Il crimine perfetto”. Firenze, Ponte alle Grazie.

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