“Ogni analista ha un suo stile. Si può dire che c’è qualcosa di personale che caratterizza per ogni analista la costruzione del setting, il suo porsi col paziente, le modalità comunicativo-interpretative. Ogni analista ha una sua funzione analitica di ascolto, di conoscenza, di intervento. Questa globale e singolare modalità di lavoro, però, per ogni analista comporta delle diversità per ogni suo paziente. Queste diversità sono legate al fatto che malgrado questa relativa uniformità dello stile di ogni analista, il campo analitico è profondamente diverso, per ogni singolo analista, da un’analisi all’altra, da un paziente all’altro”.
(Giovanni Hautmann, “La mia psicoanalisi”, relazione tenuta al Centro Psicoanalitico di Bologna il 28 -1 – 1999).
Appartengo ad una generazione che ha viaggiato per anni, per poter fare l’analisi: ciò che accade ancora oggi, ma fortunatamente meno spesso, ad alcuni colleghi in formazione, grazie alla migliore (anche se ancora non ottimale) distribuzione delle risorse analitiche sul territorio nazionale.
E senza potermi in alcun modo attribuire l’appartenenza ad alcunchè di pionieristico, di pertinenza semmai di chi ci aveva preceduto di due generazioni, posso però ricordare con piacere la forza, la straordinaria energia vitalizzante che in quei primi anni ’70 caratterizzavano la psicoanalisi italiana.
Nuove prospettive si aprivano nella cura della sofferenza mentale, specie per chi veniva da province un po’ decentrate (io lavoravo a Venezia, con Sacerdoti); e nei Servizi Psichiatrici e nelle Scuole di Specializzazione universitarie si favoleggiava, con un misto di rispetto e di perplessità, di timore e di attrazione, circa questa nuova disciplina ammantata di un’aura iniziatica densa di idealizzazione, di cui la giovane Società Psicoanalitica Italiana si proponeva come la garante e l’organizzatrice, in alternativa ai tradizionali percorsi formativi della neuropsichiatria organicistica o alle ventate rivoluzionarie socio-antipsichiatriche.
Il congresso SPI di Venezia del 1976 confermò queste impressioni: c’era una grande spinta potenziale, e il movimento psicoanalitico rafforzò la sua presenza e il suo prestigio, sostenuto oltretutto da figure indubbiamente dotate di notevole carisma personale, ma che si giovavano in più di una diffusa disponibilità all’investimento idealizzante da parte dei giovani di allora, data la forza del “desiderio” culturale e scientifico che si percepiva circolante.
Queste note nascono dunque dal ricordo di una “infanzia analitica” vissuta negli anni del “boom”della psicoanalisi italiana, in un clima di fioritura in cui all’evidente momento personale di chi scrive si sommava comunque uno spirito del tempo ben caratterizzato: la novità della psicoanalisi stava uscendo dal cliché di una curiosa anomalìa culturale, per conquistare uno spazio riconosciuto come terapia individuale e come strumento di comprensione anche in situazioni istituzionali.
Non si è scritto abbastanza, secondo me, sugli aspetti naturali e necessari dell’idealizzazione nel processo di crescita.
Dell’idealizzazione si sono soprattutto esplorati i versanti patologici difensivi, come reciproco della persecuzione e come prodotto reattivo-scissionale, per lo più in senso regressivo o francamente degenerativo.
La nostra storia nazionale, nel passato prossimo, ci ha esposto al trauma delle derive maniacal-megalomaniche dell’idealizzazione, con il fenomeno del Fascismo che ancor oggi ci procura un senso di incredulità e di sbigottimento quando ci capita di assistere ai filmati dell’epoca, in cui volti esaltati ed idealizzanti di giovani schierati in assetto fallico ci appaiono ad incarnare l’assurdo sbilanciamento fanatico del senso del Sé e della realtà, in risposta alle esortazioni di un leader capace di istillare e di cavalcare quella follìa collettiva.
Forse per reazione a quei tragici disastri, ci siamo tenuti lontani dalla descrizione più accurata dei processi di sana idealizzazione evolutiva, quelli che consentono la progressiva introiezione e costituzione di oggetti interni validi e fertili, portatori di vita e di civiltà: oggetti che, per fortuna, non ci sono mancati, e ai quali – al di là di un criterio di giustizia restitutiva – ci giova tributare riconoscimento e riconoscenza: ciò facendo, riconosciamo e rafforziamo una parte sana e vitale di noi, del nostro mondo interno e, nella fattispecie, della nostra famiglia analitica interiorizzata.
La nostra esperienza quotidiana di lavoro si fonda più o meno consapevolmente sulla ri-creazione non ripetitiva, ma ri-trovativa, di quanto di buono abbiamo ricevuto e sperimentato, in maniera non dissimile da quanto ci accade nell’allevare i nostri figli e i nostri nipoti.
Noi vi aggiungiamo il marchio della nostra insopprimibile individualità, e ciò ci esime dal sentirci semplici replicanti di un copione già scritto; ma è certo che nell’interminabile somma algebrica dei più e dei meno, del positivo vitale e del negativo mortifero, attraverso complesse alchimie individuali ognuno di noi si mantiene profondamente collegato alle proprie radici ispirative.
Le presenze che hanno contribuito alla nostra crescita rivivono in noi, a livelli e con modalità diverse, a seconda che le nostre internalizzazioni siano state parziali o totali, incorporative (con conseguenti imitazioni di superficie, in cambio della possibilità di controllare l’oggetto “tenendolo in bocca”); interiorizzanti (con l’oggetto “deglutito, e dunque non più controllabile, ma mai affettivamente accettato e “digerito”: e dunque presenza poco assimilabile, con la quale è sempre in agguato il rischio di una identificazione proiettiva sostitutiva del Sé del soggetto, che “diventa” l’oggetto senza rendersene conto, perdendo sè); o autenticamente introiettive, data la qualità vivibile degli affetti in gioco: allora, e solo allora, gli equivalenti genitoriali, i nostri analisti, supervisori, maestri e colleghi possono trasmetterci le loro qualità e i loro strumenti, in una catena intergenerazionale creativa che non penalizza l’originalità e l’autenticità del Sé, ma lo arricchisce di un patrimonio che diventerà a sua volta trasmissibile.
Viste in questa prospettiva, la tensione verticale e l’investimento fiducioso sull’autorevolezza dell’oggetto, alimentate da un processo di idealizzazione “fisiologico”, appaiono come componenti evolutive fruttuose, capaci di delineare, in effetti, una direzione non sovra-umana di sviluppo.
C’è una imprecisabile “giusta misura” nel mix di realismo e di idealità che più giova alla costituzione di una persona, e all’altro capo del fanatismo idealizzante si situa la desolazione del vuoto oggettuale, quello che Egon Molinari descriveva con una delle sue tante, semplici e profonde battute: “In definitiva, un cannibale che ha mangiato i suoi genitori che cos’è?… un povero orfano!”.
Ognuno di noi, di quanti fanno il nostro mestiere, ha una sua famiglia analitica interna.
Come tutti, anch’io ricordo e riassaporo periodicamente i miei genitori analitici (analista e supervisori), gli “zii” (i docenti e i conferenzieri di maggiore impatto), i “nonni” conosciuti e no (i grandi maestri della tradizione passata, ascoltati dal vivo o letti sui loro libri), e tutta la schiera dei fratelli e cugini societari che mi vengono alla mente qua e là, in ordine sparso per evocazione preconscia a seconda delle diverse occorrenze proposte ora dopo ora dall’incontro con i pazienti.
Mi è ormai naturale, direi quasi automatico “consultarli”, immaginare cosa direbbero – per come li ho conosciuti e stabilizzati nel mio mondo interno- di fronte alle più varie situazioni; da che parte prenderebbero la questione, cosa evidenzierebbero, in cosa forse si differenzierebbero da me.
Li consulto e li ascolto, perchè spesso mi conviene.
Dopodichè, decido io cosa dire o non dire, in base a mie considerazioni finali; però li ascolto.
C’è una grande ricchezza nella nostra biblioteca scientifica, ma ce n’è altrettanta nella nostra memoria famigliare analitica.
Voci prossime a noi, voci che ci hanno raggiunto in momenti speciali, tranquilli, vicini, adatti all’ascolto e al contatto, hanno costruito in noi tracce preziose e ritrovabili, attimi di calda verità.
Ognuno di noi ha un suo stile, caratteristico del proprio modo di essere e di relazionarsi con il mondo esterno e con il mondo interno.
Riconosciamo, nello stile di ognuno, le matrici delle relazioni oggettuali interne, le atmosfere degli ambienti di crescita, e oserei dire le filosofie implicite del modo di essere nel mondo.
Io ho dei ricordi abbastanza precisi dello stile di molti maestri che ci hanno preceduto, e ve ne voglio proporre alcuni prendendomi la stessa libertà di un disegnatore che traccia degli schizzi, dei rapidi profili, con pochi tratti di matita.
Ma, attenzione: non sono caricature.
Per esempio: Cesare Musatti, da me conosciuto negli anni settanta, esprimeva spesso uno stile narrativo tendente al favolistico, in cui veniva spontaneo immaginarlo bambino alle prese con personaggi ed eventi che lo stupivano o lo incantavano; sobrio, invece, e fedele, negli essenziali commenti ai lavori dell’opera freudiana.
Eugenio Gaddini era acuto e minuzioso, estremamente preciso nel descrivere fenomeni dei quali si capiva che si era costruito un’idea passo dopo passo, e ne rifiniva la descrizione con progressiva esattezza incisoria, senza alcuna concessione all’espressionismo o all’effetto.
Egon Molinari amava “volare basso”, sfrondando del superfluo il giro del pensiero per cogliere il nocciolo della situazione, di cui preferiva far lievitare l’essenza fino al suo manifestarsi, piuttosto che tentarne una rappresentazione teorica più o meno elaborata.
Glauco Carloni interpretava una tensione estetica verso la miglior forma possibile da dare a pensieri dei quali era per solito già padrone nel momento in cui li distribuiva all’uditorio, mentre Giorgio Sacerdoti alternava guizzi felini e inattesi rovesciamenti di prospettiva a procedure di pensiero e di esposizione in altri momenti molto canoniche e vagamente sovrapersonali.
Non ho conosciuto a sufficienza Ignacio Matte Blanco, ma non dimentico la sua vibrante capacità poetica, che si espresse magnificamente in un panel del Congresso Nazionale del 1984 in cui, recitando col cuore in mano una poesia di Garcia Lorca, fece il controcanto ad un potente lavoro di Franco Fornari, a sua volta tenace aratore di campi analitici con i suoi strumenti coinemici, proposti proprio come uno strumento dotato di una quasi-fisicità, tanto ce lo rendeva vero e presente con la sua convinta teoria.
E ancora: lo stile un po’ a scatti, tensionale, di Luciana Nissim, abituata a entrare in contatto con le turbolenze fino a farle esplodere con geniali intuizioni rapide e liberatorie; e viceversa, quasi per contrasto, la pacata pensosità di Roberto Tagliacozzo, percepibilmente rispettoso dei bisogni primari del Sé dell’interlocutore, prima che della evidenziazione dei conflitti.
Il tono forte, a volte stentoreo di Francesco Corrao comunicava l’impressione che attraverso di lui si esprimesse un coro greco, che con la sua voce egli si facesse interprete di una molteplicità plurigenerazionale, transculturale di prospettive antiche e future.
E’ più facile, per il modesto ritrattista che sono, dedicare questi “medaglioni” a persone che non sono più con noi, avendo preso più o meno dolorosamente le distanze da essi, che non rivolgersi ad un autorevole e amato collega felicemente operoso e tra l’altro molto presente e attivo – ora non meno di prima – nella vita scientifica e istituzionale della nostra Società.
Eppure oggi io voglio dedicare al Dottor Giovanni Hautmann poche, ma sentite note sul suo inconfondibile stile, quale io l’ho conosciuto e via via individuato nel corso di trent’anni di incontri fondati appunto su due oggetti principali (la psicoanalisi, e la Società Psicoanalitica Italiana) che Hautmann ha sempre cercato di mantenere in un costante dialogo integrativo tra di loro, anche quando apparentemente le questioni amministrative sembravano estranee ad ogni possibile riferimento alla nostra disciplina.
Hautmann ha esplorato con assiduità e con una tenacia formidabile i livelli primitivi della mente.
Lo ha fatto in un numero impressionante di scritti e di comunicazioni congressuali, sempre di altissimo livello scientifico, nei quali lo sforzo di concettualizzazione si è spesso accompagnato ad una generosa esemplificazione clinica, che ce lo ha mostrato al lavoro con il paziente: cosa non poi così comune, perché spesso nei reportages clinici non ritroviamo le parole testuali del dialogo, che invece Hautmann ha quasi sempre messo a disposizione del lettore.
Il ritratto dell’analista che ne emerge mi ha sempre molto impressionato.
Hautmann è capace di essere estremamente vicino all’esperienza interna del paziente e di poterne seguire e commentare i processi immaginativi “da dentro”, in modo condivisibile; e al tempo stesso
mantiene attiva una funzione teorizzante continua, che opera in lui senza raffreddare il suo scambio col paziente.
Ho in mente, tra gli altri, un suo scritto del 1982, “Splitting cognitivo primario e psicosi”, presentato al V° Congresso Nazionale SPI del 1982, a Roma, quello del Cinquantenario della fondazione.
In esso Hautmann riporta molte sequenze di seduta con Cecilia, una bambina psicotica grave presa in analisi a sette anni e mezzo e tenuta in trattamento per molti anni.
Le sedute in questione si svolgono quando Cecilia ha 15 anni, e il livello di confusione delle sue comunicazioni è angosciante. E’ morto il nonno, e la ragazzina porta i disegni “del tempo che passa”, densi di mal formulate angosce di separazione e di perdita che l’analista contribuisce a reperire e a riordinare, cogliendo e comunicando al contempo, in modo digeribile per la paziente, gli equivalenti degli elementari atti vitali e relazionali che segnano il tempo nell’esperienza di un bambino molto piccolo, che creano la relazione, e che permettono il formarsi di un abbozzo di pensiero.
E’ un reportage toccante, a volte struggente, ma con nessuna concessione addolcente: la tragedia della psicosi è solo lenita dalla terapia, certo il senso di distanza siderale della bambina dall’oggetto è stato “curato” con ammirevole vicinanza clinica, ma Hautmann non ci regala un “happy end” liberatorio.
Anzi, conclude così:
“Pressoché un anno fa, ricordando Bion, insieme a tanti di noi, percorsi un cammino a partire dall’abbozzarsi della pellicola di pensiero verso l’ipotesi della coincidenza tra interpretazione artistica e interpretazione psicoanalitica e ne sottolineai, nell’ultimo Bion, la espressione “immaginazione speculativa”. Oggi ho cercato di compiere un cammino a partire dalla stessa pellicola di pensiero, ma in senso del tutto inverso: verso il regno scuro della dissoluzione umana e dell’impotenza della psicoanalisi”(pag. 270).
Eppure, il dialogo clinico riportato (al quale vi rimando: è pubblicato in “Funzione analitica e mente primitiva”, Edizioni ETS, 2002) è ricco di una grazia tutta speciale, sia da parte della paziente, che si esprime con disarmante anche se confusa immediatezza, sia da parte dell’analista, che si sintonizza molto bene con le fantasie primarie corporee proto-relazionali e che le sa riproporre in modo semplice e profondo, percepibilmente “vero”.
Lo stile analitico che ne risulta è quello di una intensa sensibilità materna, contenuta in una mente paterna che non rinuncia al doloroso e rigoroso esame della realtà, e al mandato sovra-personale della costruzione di un patrimonio comune di conoscenze.
Nel suo rivolgersi scientifico ai colleghi, Hautmann porta avanti una funzione descrittivo-conoscitiva accurata, che fa riferimento esplicito alle acquisizioni teoriche di altri colleghi (primo fra tutti Bion), e che vi aggiunge sue annotazioni ed ipotesi personali.
Hautmann non rinuncia affatto alla piena partecipazione di sé come persona all’esperienza psicoanalitica, ma non la antepone alla psicoanalisi, apparendo convinto della bontà e affidabilità della costruzione scientifica della psicoanalisi stessa, pur con tutti i limiti di essa, di cui è pienamente consapevole.
E’ evidente, nel modo di procedere di Hautmann, un profondo rispetto per l’edificio teorico-clinico della psicoanalisi, che funziona costantemente in lui come un vero “terzo” analitico, come un interlocutore sempre presente, che non gli impedisce di sintonizzarsi intersoggettivamente, ma con il quale è in costante dialogo interno.
Egli interroga i maestri e i colleghi, e contribuisce poi con le sue osservazioni al patrimonio scientifico comune di cui si sente compartecipe.
Una cosa che mi ha sempre colpito, di lui, è il fatto che il senso dell’umorismo, l’annotazione giocosa, il commento occasionale delle emergenze edipiche più evolute, gli vengono fuori qua e là, a sorpresa, in modo naturale e piuttosto tangenziale, come note a margine rispetto ad una concentrazione prevalente su ciò che più conta, sulla base tragica, sui processi costitutivi della vita umana, ai quali dedica per la verità la maggior parte dei suoi scritti.
Eppure, proprio per la loro involontarietà programmatica gli aspetti arguti, sorridenti, a volte persino fiorentinamente “birichini” della battuta estemporanea permettono di cogliere momenti di relax del “minatore”, quando esce dalla miniera del profondo e si/(ci) concede un contatto con la sua colorita, solare vivacità toscana.
Questa capacità di recuperare i tratti di una condivisibile, affettuosa quotidianità di ciò che siamo ci rende particolarmente caro un collega che altrimenti, data la monumentalità della sua opera scientifica, rischierebbe di ispirarci prima di tutto riverenza e timore, oltre che riconoscenza e ammirazione.
La fotografia dell’amato cagnone James (“compagno vivo e fiducioso di passeggiate e scritture”) in apertura di “Funzione analitica e mente primitiva”, voluta dall’autore a poche pagine di distanza dall’altra foto storica, quella con Cesare Musatti, ci garantisce circa l’interezza del Sé con cui ci rapportiamo e in cui ci rispecchiamo idealmente, e anzi ci richiama alla necessità di non perdere il contatto tra la mente e il cuore, tra la scienza e la vita di cui siamo osservatori ma prima di tutto attori ed autori a nostra volta.
Ed è anche per questo che nel rendere omaggio oggi ad un nostro così illustre collega e studioso, qui nella sua città circondato dai suoi allievi e colleghi, il piacere di reincontrarlo e di riascoltarlo prevale su ogni altra componente celebrativa, a ricordarci che la psicoanalisi e il suo mondo sono fatti di idee, ma soprattutto di persone.