I gruppi istituzionali come mente contenitiva del curante
Paolo Boccara
Vorrei iniziare da alcune brevi considerazioni sul panorama concreto e psichico a cui gli operatori dei servizi pubblici assistono oggi, che come sappiamo è da tempo molto cambiato e che è spesso inasprito dagli eventi non solo clinici, ma organizzativi, politici, economici (e infine adesso anche … pandemici). Tutto sembra mutato e il contesto in cui si lavora si riscrive in codici che prima a molti di noi sembravano impensabili e che invece diventano sempre più evidenti nel giorno dopo giorno.
Se sono sempre convinto che anche in questo particolare momento (come da quarant’anni a questa parte) serve ancora difendere con forza e convinzione (senza mai cedere a fantasmi ideologici) la riforma psichiatrica, credo che occorra nel contempo ‘costruire comunque il futuro’ e nel farlo non si può solo proteggere il passato o crogiolarsi nel rimpianto della fantasia del non avvenuto.
Per costruire il futuro credo che sia anche indispensabile ridefinire la nostra soggettività, ripartendo dalla nostra esperienza clinica e dalla possibilità di ripensare ai pazienti, alle istituzioni di cui facciamo parte e a noi stessi, tenendo conto dei vissuti di ciascuno. E dando per certo che il soggetto non può mai essere mai completamente centrato solo su se stesso e che ‘l’oggetto’ nell’esperienza “sfugge continuamente alla conoscenza diretta” (Ogden, 1994).
La mente contenitiva del curante
Ormai abbiamo sperimentato che, con la chiusura degli ospedali psichiatrici, per i pazienti gravi si deve fare affidamento sulla mente contenitiva del curante, che dovrebbe essere capace di poter accogliere non solo le parole, il vissuto e il dolore del paziente, ma anche tutto ciò che questo sicuramente genera nella propria mente. La psichiatria classica ha sempre operato in un assetto difensivo, sia sul piano dei luoghi che degli operatori, e considerare anche gli aspetti difensivi è, a mio parere, ancora oggi molto importante, non per semplicemente assecondarli ma per renderli utili al nostro lavoro.
Potremo intanto essere d’accordo, come lucidamente segnalato a suo tempo da De Martis (1982), sul fatto che al di là del desiderio di avvicinamento, di comprensione e di aiuto, al di là del desiderio di incontrare un altro essere umano con sentimenti di spontaneità e di solidarietà, molto spesso ci accade di essere respinti, bloccati nel nostro ruolo, e di intuire la paura e la diffidenza del paziente che lo inducono spesso a viverci come ‘nemico’, anche se ci chiede in qualche modo aiuto. In questi casi sentiamo che, anche al di là di ogni nostra intenzione cosciente, una parte di noi stessi risponde con una paura e una diffidenza simmetrica. Spesso poi accade che, al di là delle nostre buone intenzioni, della nostra esperienza, al di là della nostra formazione psicoterapeutica, del nostro desiderio di aiutare e di assistere il paziente, di avvicinare l’inconoscibile, al di là di tutto questo, di fatto, tutti gli operatori dei Dipartimenti di Salute Mentale devono fare i conti anche con ‘l’altro’ – ‘estraneo’ o ‘straniero’ – che interiormente ci induce a volte ad allontanarci ( in vario modo, come vedremo in seguito) da tutto ciò che nella relazione con il paziente ci appare angoscioso e pesante, intollerabile da ascoltare o da vivere.
C’è inoltre un aspetto importante che attiene alle funzioni del DSM e che, al di là della cura scelta secondo la predisposizione professionale degli operatori, attiene al peso del mandato sociale delle struttura sanitaria. Credo che siamo noi stessi portati a oscillare continuamente tra due concezioni della cura: una cura volta a favorire un processo di cambiamento attraverso una crescita psichica di cui è attore anche il paziente e una cura centrata su apporti specialistici a una condizione patologica data, mirata esclusivamente a una attenuazione della sofferenza attraverso il controllo dei sintomi.
E siccome nel tempo ci siamo resi sempre più conto che un processo evolutivo può andare necessariamente incontro a crisi degli equilibri più o meno raggiunti dal paziente e dai suoi familiari, non sempre riusciamo a considerare quel processo evolutivo prioritario per la cura, proprio per la contemporanea presenza (anche dentro ciascuno di noi) del compito di ‘curare’ ma anche di ‘contenere e controllare’. Succede così che si rischia spesso di colludere con le difese del paziente grave nei riguardi del rapporto con l’altro e con il mondo. A volte sono i curanti stessi a finire per rassegnarsi per il loro paziente e per rispettarne l’isolamento, invece che prestare ascolto al suo desiderio più profondo di trovare una convivenza con l’altro, che non lo annulli come soggetto e gli possa permettere una dimensione relazionale che preveda un possibile cambiamento.
Penso che ancora oggi nei Dipartimenti di Salute Mentale, gli operatori dovrebbero sempre interrogarsi su quanto siano presenti quei due modi di affrontare la cura dei loro pazienti. E poi proprio da qui sorge un’importante domanda: come attivare una riflessione nel gruppo degli operatori su questo tema così delicato, potenzialmente presente in ogni processo terapeutico e che investe anche le dinamiche del nostro mondo interiore? E a tale proposito non penso a un’utopistica integrazione di punti di vista, ma a una sempre maggiore consapevolezza della presenza di questa nostra dialettica interiore.
L’ascolto delle comunicazioni dei pazienti
Ma se per i pazienti è proprio attraverso una relazione diversa da quella vissuta fino a quel momento che si può intraprendere un percorso di cambiamento, spesso non basta dare importanza alla costruzione di una ‘relazione’ per evitare che proprio essa stessa diventi drammaticamente problematica. Riflettere analiticamente sulle comunicazioni nascoste o prive di rappresentazione mentale del paziente e sulla responsabilità della soggettività e autoreferenzialità dei curanti, si è rivelato invece nel tempo un utilissimo e ulteriore strumento. Soprattutto per evitare una particolare collusione tra l’immensità dei bisogni dei pazienti, i desideri delle famiglie per ipotetiche soluzioni ideali e le fantasie oscillanti tra impotenza e onnipotenza dei terapeuti, e per mantenere a livello del servizio le possibilità di mettere in rapporto ‘il pensare’ con ‘l’agire’. Ed è così che è progressivamente emersa una particolare posizione che pone al centro delle considerazioni la ‘funzione’ del terapeuta in rapporto ai bisogni e ai diversi modi (non solo verbali) di rappresentare per il paziente il trauma pregresso, che si ripresenta in presenza del terapeuta e per la sua presenza.
Accade perciò che, nel prestare un attento e paziente ascolto alle diverse emozioni in campo, i terapeuti possono verificare quanto iniziare un trattamento sia, oltre che difficile e spesso doloroso, perfino ri-traumatizzante, ma anche quanto, proprio attraverso queste esperienze vissute da entrambi, possano riflettere (possibilmente insieme al paziente e al gruppo degli operatori del servizio) sul dispositivo più adatto per mantenere le condizioni di analizzabilità del processo. In questi contesti è facile la deriva alla concretezza e alla simmetria se non si usa, analiticamente e con continuità, la propria partecipazione soggettiva e affettiva, riferendola sempre alle proprie passioni, umane e per il dispositivo rivoluzionario rappresentato da quella ‘cura attraverso e nella comunità’ che solo la riforma psichiatrica italiana ha introdotto. Anzi, il riferire continuamente gli accadimenti del campo terapeutico (e istituzionale) alla propria partecipazione emotiva, permette alla fine maggiore leggerezza e potenzia enormemente le possibilità trasformative della cura.
Le funzioni coesive di difesa del gruppo
Vi vorrei presentare, ora, alcune considerazioni sui gruppi istituzionali, tenendo conto anche di un recente lavoro -in via di pubblicazione- di Giuseppe Riefolo intitolato significativamente: “Servizi. La parabola vitale del gruppo degli operatori”.
Innanzitutto vi proporrei di considerare l’aspetto del gruppo nel lavoro clinico dei servizi non tanto come elemento di ‘democrazia e pluralismo’, ma soprattutto come ‘dispositivo clinico di lavoro’. I gruppi nel tempo si sono molto modificati ed evoluti nella linea soprattutto di diluire la componente “comunitaria” e magari “ideologica”, lasciando almeno potenzialmente più spazio alla dimensione professionale ma anche più soggettiva che, nei gruppi, chiede riconoscimenti sanamente narcisistici.
La situazione attuale ci conferma che alcune dinamiche o anche valori che caratterizzavano i gruppi di qualche anno fa, oggi risultano inefficaci se non a volte disfunzionali. Si sente spesso ribadire nei nostri servizi, soprattutto da parte degli operatori più anziani e spesso in modo nostalgico, il riferimento alla “funzione di équipe”, all’importanza dell’accogliere “i bisogni del paziente”, al rischio della “solitudine dell’operatore”, ecc. Questi considerazioni rimangano valide e importanti, ma negli anni il contenuto di questi aspetti si è nettamente modificato, se non in alcuni casi stravolto, e comunque credo che non sempre ci aiuti evocare i cambiamenti dei parametri a giustificazione dell’involuzione dei livelli terapeutici dei servizi.
Riefolo ci ricorda che per Maturana e Varela le organizzazioni possono avere delle competenze di funzionamento oppure d’involuzione per perdita di capacità di autonomia. Le loro riflessioni al riguardo ci permettono così di concentrare la nostra attenzione anche sulle caratteristiche costitutive e strutturali dei servizi “per quelle che sono”, evitando la grave deriva che tenderebbe a richiamare caratteristiche “che non ci sono e che dovrebbero esserci”.
Da questo punto di vista è utile ricordare intanto come i gruppi, sia intesi come ‘organizzazione’ sia come ‘dinamica’ tra i propri componenti’, assolvono importanti funzioni di difesa. Il riferirsi al concetto di una “sana difensività”, permessa dall’appartenenza degli operatori a un gruppo si collega alla difesa da angosce psicotiche o all’uso del gruppo come depositario delle parti psicotiche della personalità, che si realizza attraverso una sana regressione a livello del ripristino di relazioni simbiotiche all’interno del gruppo, dove il soggetto può sentire la necessità transitoria di con-fondere la propria identità discriminata. Nelle stesse istituzioni è utile considerare le posizioni difensive degli operatori e dell’intero gruppo di lavoro non come operazioni ‘errate’ ma come posizioni ‘coesive’, che colgono il soggetto nel campo relazionale e intersoggettivo di cui fa parte. E se per tanto tempo il coinvolgimento personale dell’operatore è stato considerato inopportuno, ora è diventato, potenzialmente e se ben utilizzato, sempre più un dispositivo di cura.
Ciò comporta che la vita interna al gruppo può essere considerato sia una rappresentazione del mondo interno dei pazienti sia una risposta relazionale implicita che descrive, simultaneamente, le capacità difensive ma anche le tensioni potenziali del paziente e dello stesso gruppo di lavoro. Pertanto, le difese diventano uno dei due poli centrali dell’identità del gruppo che, in prima istanza è chiamato a salvaguardare la vitalità della propria organizzazione ma anche a permettere che l’organizzazione possa curare la propria autonomia e assolvere agli scopi per cui è stata fondata. Infatti, “se l’organizzazione o l’adattamento non sono mantenuti, allora il risultato per l’unità composita è la disintegrazione”
Nella linea del concetto di “organizzazione” di Maturana e Varela, si tratta allora di decidere il nostro “dominio di competenza” e di decidere una funzionale “dimensione organizzativa”, oltre la quale noi non abbiamo competenza
Setting, processo, meta-setting e garanti meta-sociali
Per decidere il nostro “dominio di competenza” occorre allora considerare che fra gruppo e servizio esiste una relazione dinamica complessa dell’ordine del ‘setting’ e del ‘processo’. Ovvero: tutto ciò che accade nel gruppo – ‘il processo’ cioè il suo funzionamento e la sua parabola – è inevitabilmente connesso e determinato dalle caratteristiche del servizio, ‘il setting’, che a sua volta determinato dal contesto più generale.
Il setting non ha la funzione di ‘impedire’ o di giudicare ciò che accade, ma ha la funzione di attribuire un senso a tutto ciò che accade all’interno di quella organizzazione. Se cambiano i parametri del contesto sociale, i parametri del servizio, e quindi del gruppo, e questi parametri solo in minima parte possono essere scelti, cosa succede se li accettiamo come dati di realtà, e in che modo essi incidono e determinano elementi strutturali (prima che dinamici) nel gruppo?
Qualsiasi tipo di ‘setting’ non va confuso con ‘i processi’ possibili, perché il setting è un non-processo che ha la funzione di permettere e ospitare processi. Se gli operatori solo in minima parte possono intervenire nella costituzione del setting, la loro sostanziale responsabilità non riguarda soprattutto i ‘processi’ rispetto ai quali avrebbero piena competenza di indirizzo creativo o meno?
La ricaduta di questa distinzione è, per Riefolo, di una certa importanza nella posizione degli operatori nel gruppo di lavoro del servizio, in quanto evita la colpevolizzazione automatica e spesso paralizzante, che deriva da interventi in cui gli operatori si ritrovano impotenti nell’occuparsi della organizzazione della ASL o delle politiche sociali o sanitarie. Riefolo non suggerisce in tal modo la passività o la non responsabilità dell’operatore. Ma propone una posizione dinamica che permetta a ciascun operatore di essere efficace evitando di perdersi nella posizione della lamentazione. Una dinamica della “lamentazione” che si basa sull’individuazione inconscia di un elemento esterno al proprio “dominio di competenza” riconosciuto responsabile della sofferenza del gruppo: carenza delle risorse, cambiamento delle politiche sanitarie ai vari livelli, ecc… Questi sono elementi che sicuramente entrano e determinano il setting, ma che dovrebbero chiamare alla sana posizione depressiva, per essere accettati e usati come elementi della realtà che non possono essere evitati e con i quali bisogna costruire un personale processo di cura .
Liberman poi ha suggerito che il setting è composto necessariamente da questi elementi che noi non possiamo decidere né controllare e che andrebbero accettati come inevitabile espressione della nostra collocazione in una cornice di realtà che ci comprende. Si tratta degli elementi del cosiddetto ‘meta-setting’ descritto come “l’ambiente sociale, culturale ed economico che ci circonda”.
Prendere atto di questi fattori esterni nelle nostre istituzioni (o anche nella nostra pratica privata) non dovrebbe implicare necessariamente un appiattimento adattivo e passivo nei loro confronti. Si tratta di tenerne conto come elementi strutturali della realtà esterna, e di considerarli inevitabili, appunto, alla stregua di quelle situazioni occasionali che, piuttosto che impoverire, arricchiscono il campo istituzionale della vitalità soggettiva dei vari componenti del gruppo di lavoro, tipo: “l’ascensore può guastarsi, la luce andare via, o i bambini fare occasionalmente un baccano infernale… o capita di … dover traslocare o i pazienti possono incontrarsi, … l’analista può restare incinta, o ammalarsi”…
Il ‘meta-setting’ poi è anche influenzato da quelli che Alain Touraine ha descritto come i “Garanti Meta-sociali”, cioè gli impliciti contratti sociali che sostengono – e danno senso – alle relazioni sociali. Anche in questo caso non possiamo evitare di considerare che i cambiamenti dei Garanti Meta-sociali – che organizzano implicitamente le nostre relazioni sociali – abbiano avuto nel tempo sempre una potente funzione strutturante nei nostri rapporti di appartenenza al gruppo di lavoro e che quindi sicuramente rispetto ad alcuni anni fa ne sono cambiati molti, p.e. le funzioni del leader di un gruppo, la stessa adesione dei soggetti sociali ai vari gruppi, o anche le nostre rappresentazioni dei Servizi Pubblici e dell’utenza, un tempo solo ‘bisognosa ed emarginata’, mentre ora sempre più responsabile e partecipe… O i livelli normativi ed economici attraverso cui è strutturata una ASL, o i livelli culturali espliciti ma soprattutto impliciti che sono alla base della organizzazione della società in cui viviamo.
Ognuno di questi livelli funziona da meta-setting verso il livello inferiore del setting e, in quanto meta-setting, non potrebbe essere accettato e integrato come caratteristica importante e funzionale del nostro setting, senza pensarlo modificabile, in quanto non appartenente al nostro dominio di competenza? Può prevalere nel “riconoscimento dell’evidenza”, la posizione di “resa” ovvero la sana ammissione di una inevitabile posizione di impotenza? Insomma, se i nostri gruppi di lavoro sono evidentemente cambiati, sia nei setting, sia nei meta-setting sia nei garanti meta-sociali, questi cambiamenti dovrebbero essere anche colti nelle loro potenzialità e nelle tensioni innovative che generano, dato che comunque siamo solo noi ad avere la responsabilità di mantenere vivi ‘i processi’ rispettando gli elementi a disposizione?
Le comunicazioni del paziente
‘I processi’ possono naturalmente evolvere indipendentemente da noi. Anche quando si assiste allo spegnimento di un processo, e alla decadenza di una parabola, scrive Riefolo, bisogna concentrarsi sulle possibilità che questa “perdita” apre e rende possibili.
Quello che occorre mantenere , diciamo in continuità con le esperienze passate, è considerare le comunicazioni concrete dei pazienti sempre secondo un registro psicologico, con la disponibilità da parte nostra a “farsi usare” dal paziente, dato che tali comunicazioni rappresentano sempre la loro fatica e la loro tensione a stabilire sufficienti relazioni oggettuali e sanamente depressive o a verificare sufficienti competenze relazionali e intersoggettive o di rispecchiamento mentalizzante.
La difficoltà dell’incontro con la psicosi, negli anni, ha rafforzato l’importanza della dimensione gruppale per cui ciascun operatore può sentire di non essere solo e di condividere difficoltà altrimenti insostenibili. Soprattutto attraverso le supervisioni, è stato possibile permettersi di contenere la frammentarietà che l’incontro e la cura di questi pazienti necessariamente comporta. La domanda allora che ci possiamo porre è: cosa vogliamo farne della comunicazione psicologica dei pazienti, siano essi gravi o affetti da Disturbi Emotivi Comuni?
In ogni servizio ci sono, per esempio, pazienti che puntualmente mettono alla prova la tenuta dell’intera organizzazione. Non si tratta semplicemente di ‘pazienti borderline’, ma di pazienti che nella loro estrema fragilità individuano transferalmente ‘il servizio’ come oggetto a cui chiedere un grandioso quanto impossibile contenimento secondo un codice iperconcreto. Sono pazienti che chiedono senza sosta una interazione che possa contenere il continuo vissuto di frammentazione e di pericolo in cui vivono.. Non potendo ottenere sufficiente contenimento per le loro richieste concrete, possono arrivare a essere vissuti dagli operatori come una minaccia ( psichica oltre che concreta) e spesso possono creare grandi tensioni e conflittualità tra gli operatori che li seguono e il resto del servizio..
L’uso della comunicazione psicologica richiede allora una precisa organizzazione, mentre l’adozione di una comunicazione più concreta ne richiede un’altra. Non è detto che la prima sia più ‘costosa’ della seconda. Anzi, nell’ottica della valutazione dei processi e degli esiti, la prima posizione è sicuramente la più economica. Non è un problema di costi o di ‘risparmi nei bilanci aziendali’: questi sono meta-setting e non contenuti.
Si tratta, invece, di decidere quale indirizzo culturale e quali parametri economici adottare per i servizi, considerando che è sempre più urgente che se ne pensino dei nuovi che, però abbiano una organizzazione precisa e sempre più ‘specialistica’, fondata cioè su una posizione culturale chiara. Si tratta di riconoscere che i servizi sono da tempo in una posizione di fisiologica crisi di modelli e che vivono una transizione che, se ostacolata, può solo creare danni ai servizi, ai pazienti, alle loro famiglie e agli operatori, sostenendo quest’ultimi conflittualità sterili dove si cerca spesso chi vince o chi perde, ma dove alla fine tende spesso a prevalere il disinvestimento difensivo ad ogni livello.
Proprio i nostri pazienti ci insegnano che le transizioni vanno accompagnate, perché sono la soluzione al dolore e costituiscono la promessa che deve per forza esistere una nuova organizzazione che sappia farsi carico, creativamente, del dolore. Le transizioni sono dei processi fertili e ogni soluzione può frenare o rilanciare il processo.
La responsabilità soggettiva e il gruppo
I cambiamenti dei livelli di meta-setting, allora, necessariamente comportano che la nostra responsabilità verso i pazienti e verso i processi di cura debba tener presente una nuova cultura delle ‘prestazioni’, dei ‘processi’ e degli ‘esiti’. Ora la nostra responsabilità non può essere più sostenuta da posizioni sociali, politiche e culturali radicalmente mutate, mentre deve cercare sostegno e confrontarsi con il valore delle ‘prestazioni’, dei ‘processi’ e degli ‘esiti’. E la conseguenza di ciò è che la responsabilità della possibile cura non passa più dalla diluizione nel gruppo, ma dal fatto che gli operatori siano coinvolti a una maggiore responsabilità soggettiva, in cui il gruppo di appartenenza senei fatti interviene sempre meno direttamente nel processo terapeutico, venga invece istituzionalmente chiamato a sostenere e ‘fidarsi’ per definizione di chi sta mettendo in gioco la propria soggettività con quel paziente.
Nei progetti terapeutici, un tempo, ciascun operatore era considerato come appartenente a un gruppo ‘coeso’, che ne era responsabile in maniera solidale. Da tempo questa posizione risulta sterile e frequentemente fallimentare, soprattutto perché ciascun operatore lamenta la indisponibilità ad assumersi responsabilità soggettive, evocando, spesso e inutilmente, il ripristino di una responsabilità collettiva ‘del gruppo’.
Se ci si attiene invece all’analisi dei rapporti istituzionali, dei livelli di meta-setting e dei Garanti Meta-sociali, ciascun operatore viene chiamato alla responsabilità soggettiva possibile, non perché condivisa ma perché retta dal sostegno professionale e affettivo degli altri colleghi nei propri confronti. Siamo sempre più chiamati a “essere soli in presenza di qualcuno”. Se però ci si sente sostenuti si può correre il rischio e permettersi posizioni originali, altrimenti si converge verso quella che viene chiamata da Gaburri e Ambrosiano una “coazione a massa”, che permette la diluizione di una responsabilità insostenibile e pericolosa e in cui “ è palesemente rischioso opporsi e ci si tranquillizza adeguandosi all’esempio che si mostra tutt’intorno e magari addirittura “ululando con i lupi”. Ed è per questi motivi che le riunioni convocate per discutere della sofferenza del gruppo a causa di un paziente si dovrebbero concentrare non sul paziente, ma sulla fatica e sulla sofferenza dell’operatore
Pertanto ciascuno, nella propria appartenenza al gruppo del servizio, dovrebbe essere sempre più chiamato in prima persona ad assumersi la ‘responsabilità psichica’ del paziente, indipendentemente dalla sua gravità psicopatologica. E nell’assumersi tale responsabilità, l’operatore hacosì la possibilità di oscillare fra la fusionalità offerta dalla massa e la soggettività permessa dal sentirsi appartenente a un gruppo.
Il gruppo e la responsabilità psichica dei propri componenti
Quindi, siccome una istituzione di qualunque natura essa sia, dovrebbe essere chiamata per definizione ad occuparsi della responsabilità psichica dei propri componenti, anche il gruppo istituzionale ha l’estrema necessità di un ‘vertice esterno’ che osservi le dinamiche globali del sistema.
Questo ‘vertice’, nei nostri servizi, è stato riconosciuto a volte nel ‘consulente’ oppure nel ‘supervisore’ . Ma oltre il ruolo del supervisore – che ha il limite di essere episodico e sufficientemente esterno – la funzione del ‘vertice esterno’ dovrebbe essere assunta da ciascun componente del gruppo nella misura in cui ciascuno ha la capacità di ‘astrarsi’ dal gruppo e osservare il sistema capace di assumere anche un vertice esterno. Non si tratta di una posizione o funzione alternativa al ‘supervisore’, ma di una funzione potente e originale spesso poco riconosciuta all’interno delle competenze del gruppo e, magari, delegata in modo automatico ed evitante proprio al supervisore. Alla fine si tratterebbe della stessa visione che un analista assume quando riesce ad avere una ‘funzione di campo’ rispetto a quello che sta accadendo nella stanza di analisi.
Il vantaggio di questa posizione è che ciascun operatore, nella misura in cui è capace di una ‘visione di campo ’ rispetto a ciò che accade nel servizio, diventa abile soprattutto di valutare il proprio contributo soggettivo agli eventi del campo e di usare se stesso come ‘sonda’ e ‘risonanza’ di ciò che accade, evitando una posizione di isolamento autoreferenziale e “lamentatorio”. Una funzione sonda che possa evidenziare soprattutto la distanza significativa che si può creare fra i pazienti e l’organizzazione che se ne prende cura. Quella distanza che c’è spesso fra l’utenza e l’organizzazione attraverso cui emerge la specificità di quella organizzazione, che si fonda su una particolare modalità di funzionamento del gruppo di lavoro. La distanza che esprime la fase attuale di transizione dei servizi.
Per concludere, mi sembra che questa intensa e complessa dialettica tra le diverse parti di sè del paziente, dei suoi familiari e del terapeuta, tra i diversi vissuti dei terapeuti coinvolti nei diversi mandati istituzionali da cui sono condizionati, costituisca “un processo in cui gli elementi opposti si creano vicendevolmente, si preservano e si negano, rimanendo ognuno rispetto all’altro in una relazione dinamica e in continuo cambiamento” (Ogden, 1994). Il movimento dialettico tra questi aspetti contrastanti, dovrebbe nel tempo tendere verso integrazioni che, però, non sono quasi mai raggiunte perchè ciò che è creato dialetticamente è in perenne movimento e rimane nel processo per essere continuamente creato e negato.
Nei servizi, come nella stanza di analisi, non si possono comprendere i diversi soggetti in relazione se isolati l’uno dall’altro. Noi, i nostri pazienti e il gruppo di cui comunque siamo parte, facciamo esperienza solo attraverso un processo in divenire, in cui il soggetto è contemporaneamente costituito e decentrato da se stesso mediante meccanismi dissociativi, ed è proprio attraverso questi particolari meccanismi dissociativi che ci costituiamo come soggetti in relazione ad altri soggetti. Il cambiamento diventa allora “ il riflesso di uno spostamento all’interno della relazione dialettica delle diverse modalità di generare esperienza, in un modo per cui venga creata una interazione più generativa” (Ogden, 1994).
E cosi, come nel percorso terapeutico con il paziente si tratta di pensare a un metodo non più per ‘scoprire ciò che è nascosto’ ma per ‘creare soggetti che non sono mai esistiti prima’, anche nei servizi il compito degli operatori può consistere nell’adattarsi a oltranza a ‘setting’ che possano rendere i ‘processi’ autonomi dai cambiamenti istituzionali, pretendendo però che l’istituzione sia garante di gruppi capaci di sostenere e proteggere.