Testo della relazione presentata nel secondo seminario del ciclo ASL-SPI “Claustrofilia-claustrofobia: quando la relazione di cura non si trasforma” (8 Nov, 22 Nov, 06 Dic 013) che pubblichiamo per gentile concessione dell’autrice.
22 Novembre 2013
Sala del Giardino d’Inverno, Istituto Montedomini, Via de’ Malcontenti 6 Firenze
Mi riferirò oggi alla questione della dimensione claustrofobica facendo riferimento con questo termine, non tanto ad una categoria diagnostica di pazienti, quanto piuttosto ad una modalità di funzionamento di essi e, in particolare, cercherò di concentrarmi sulle conseguenze che questo funzionamento ha sulle relazioni che tali pazienti costruiscono o, meglio, co-costruiscono con le varie figure della loro vita e quindi anche del servizio. Alludo a ciò che di potente e turbolento questi pazienti immettono nella relazione stessa, producendo una circolarità che merita di essere osservata, nel tentativo di interromperla e di attivare un processo trasformativo. Parafrasando Sassolas (1997) credo che di fronte ai nostri pazienti gravi, a quelli cioè che hanno difficoltà a dare parole alle emozioni e ai vissuti, sia ancora la psicoanalisi con i suoi concetti, che più di tutto può venirci in aiuto, nel tentativo di raffigurarci la loro vita psichica. Inoltre, proprio perché la caratteristica principale della loro vita psichica è rappresentata dalla esternalizzazione è importante occuparci di ciò che avviene in noi per provare a capire cosa accade nei pazienti.
Da ora in avanti mi riferirò, in termini psicodinamici, alla descrizione del paziente borderline, o meglio all’organizzazione borderline, provando a transitare dai vissuti del paziente, attraverso e a partire da quello che il contatto con lui suscita in noi. Sto parlando di quei pazienti che non possono stare nell’intimità di una relazione senza che questa venga vissuta come una minaccia e che dunque forzano il rapporto e sono spinti all’agire. Quei pazienti che rapidamente virano da un’idealizzazione ad una svalutazione, che ci seducono e ci abbandonano, ci riprendono e ci rilasciano, che ci controllano a distanza ma non reggono la vicinanza, che attaccano le regole e violano il setting, che ci perseguitano, che sentiamo di non saziare mai, che cambiano continuamente terapeuti e contesti di cura; sono i pazienti che inducono nei gruppi di lavoro potenti scissioni fra chi dice “poverino” e chi dice “stronzo-cattivo”, derive di posizioni teoriche diverse e opposte, grossolanamente rappresentate la prima da un atteggiamento materno, rispecchiante e di ipercoinvolgimento e la seconda da un atteggiamento paterno, rigoroso ipercontrollante.
Ma, come già detto, per uscire dal polo attrattivo e coinvolgente del disturbo del comportamento e entrare più nel merito della dimensione soggettiva che a questo soggiace, sembra utile affidarsi oltreché alla bussola psicodinamica a quella fenomenologica che tanto ci ha illuminati in tal senso. Avere strumenti che aiutano a sintonizzarsi sui vissuti e le dinamiche di fondo della condizione borderline sembra indispensabile per creare nell’operatore un assetto psicoterapeutico, in termini di pensabilità.
Il mondo borderline in tumulto è stato paragonato da Barale (2002) ad un “prisma rotante” che espone facce continuamente diverse alla luce, producendo immagini sempre in mutamento. Tale metafora sembra ben rappresentare la continua alternanza nella configurazione dei modi di essere del paziente, corrispondenti alle continue e accentuate oscillazioni tra parti di sé, parti dell’oggetto, aspetti buoni, cattivi, che produce quell’effetto di instabilità e diffusione dell’identità di cui Kernberg ( ) ha parlato molti anni orsono.
Per Gabbard (2004) la continua oscillazione di avvicinamenti e allontanamenti che corrisponde da un lato al timore della perdita del terapeuta e dall’altro al timore di una fusione con esso, è la rappresentazione di tentativi esagitati di evitare un abbandono reale o immaginario.
Traendo ispirazione da Correale (2006) che tante volte abbiamo, fascinati, ascoltato qui a Firenze, provo ad indicare alcuni elementi del mondo BD
– la presenza di una relazione infiltrante e pervasiva con un oggetto traumatico. Mi spiego: la presenza di una relazione infiltrante e pervasiva con un oggetto traumatico sembra essere all’origine del sentimento di minaccia che si attiva ogni volta che si profila un avvicinamento che contiene immediatamente anche l’angoscia di una separazione, vissuta come un abbandono e pertanto intollerabile. L’oggetto traumatico originario sembra sempre di più corrispondere ad un oggetto genitoriale abusante nel senso di imprevedibile, inaffidabile, che costringe il nostro paziente ad una continua vigilanza. Si dice che nei BD sia impedito lo sviluppo della funzione riflessiva intendendo con questa la capacità di distinguere ciò che è interno da ciò che è esterno, afferrare l’idea che l’altro possiede un mondo interno, separato e diverso dal nostro e percepire e capire se stessi e gli altri dal punto di vista degli stati mentali (sentimenti, convinzioni, desideri), in altri termini la capacità di “leggere” l’altro. La percezione dell’indisponibilità dell’oggetto, come ripetizione dell’esperienza traumatica, induce nel paziente un vissuto catastrofico di senso, di perdita totale di ogni legame ed ancoraggio e di impossibilità di accesso ad una qualche forma di pensiero. Da qui la potente rabbia che induce rabbia che però forse, se osservata nei vari significati può essere affrontata meglio. E’ la rabbia di assistere ad un mondo che scorre vorticoso senza un senso, è la rabbia di una riattivazione di oggetti interni persecutori, imprevedibili, indecifrabili da cui bisogna difendersi, è la rabbia della potente dipendenza, ma è anche la rabbia provocativa per raggiungere un’autenticità al fine di ristabilire un legame. Il paziente ha un disperato bisogno di noi, di trovare qualcosa di affidabile ma non ci crede perché il BD non sa decodificare chi gli sta di fronte e ci mette continuamente alla prova e ci confonde, suscitando in noi un senso di grande fatica legata anche al peso e alla responsabilità che ci consegna. L’oggetto è inaffidabile e fa oscillare il borderline in una danza vorticosa di idealizzazioni cariche di fantasie irrealistiche totali e rapidi rifiuti rabbiosi.
Da qui vissuti che qualunque operatore che si sia cimentato nella cura dei borderline ha sperimentato e che specularmente rappresentano la vita mentale del paziente: l’angoscia legata ai continui avvicinamenti e allontanamenti e all’imprevedibilità degli stessi, il sentirsi dal paziente controllati in ogni gesto, espressione, alla ricerca di un’inautenticità o, ancora, il sentirsi rabbiosamente, ingiustamente e incomprensibilmente attaccati, il non andare mai bene, il non capire abbastanza.
– una modalità emorragica del vissuto del sé sostenuta dall’impossibilità di trattenere eventi ed esperienze con conseguente deflusso di energia vitale. Il borderline non riesce a fare esperienza della vita perché non trasforma le esperienze in una costruzione interiore (rappresentazione) che permanga in modo stabile all’interno del Sé e gli conferisca senso e continuità. La spezzettata vita del borderline è priva di momenti di riposo e stargli accanto, dice molto suggestivamente Correale, è come vivere accanto ad una cascata che con il suo scroscio riempie giorno e notte le orecchie di chi gli sta vicino. Il riposo, inteso come momento in cui si interrompono le attività quotidiane e con la mente in uno stato fluttuante avviene l’interiorizzazione dell’esperienza, transitando per la dimensione del ricordo e delle associazioni, è impedito nel BD dalla presenza di un oggetto genitoriale che ha funzionato invece che da garante da fonte di allarme, impedendo la possibilità di raccogliersi e fidarsi dell’altro. Noi tutti sappiamo che, affinchè una cosa diventi esperienza, abbiamo bisogno, da un lato di farla e subito dopo di raccontarla o riraccontarsela. Nel paziente borderline le esperienze buone non sedimentano, non vengono trattenute, non fungono da fondo nutriente. Ogni separazione, non lasciando traccia è una cancellazione. Il presente, con il suo caos e la sua forza, incombe e non si àncora ad un passato che è un deserto abitato da oggetti traumatici. Sintomo di questi mancati processi è la sensazione di vuoto, in un soggetto che niente riesce a trattenere e sentire come proprio e che disperatamente cerca di attivarsi, rilanciarsi, alla ricerca di un’energia così incerta nelle sue fonti. Ricordo di una grave paziente BD che all’indomani della morte improvvisa del compagno (forse l’unico davvero importante e “riposante” della sua vita) si iscrisse ad una agenzia per cuori solitari.
E di nuovo fatica negli operatori, suscitata dal fantasma di una inesauribile richiesta, ricerca insaziabile di qualcosa che non è mai soddisfatto dagli oggetti disponibili e che induce il paziente a cambiare continuamente rapporti (penso alle nottate in SPDC ostaggio di continue richieste di pz BD che cercano un contatto che non li soddisfa mai ma da cui non possono staccare) Fatica per il dilagare del presente che non permette di costruire una storia anche nella mente degli operatori e fatica infine nel difendersi, attraverso meccanismi di evitamento del paziente che a tratti diventano quasi fobici, nascosti magari dietro l’irrigidimento di aspetti organizzativi.
– la ricerca dell’eccitamento tramite l’amplificazione sensoriale deriva da quanto detto sopra e prende le forme più varie, alla ricerca di qualcosa che è sempre fuori da sé (droghe, promiscuità, auto-eteroaggressività) e che si esprime nella relazione in una ricerca di un oggetto totalizzante, saturante e iperbolico, in una sempre maggior intensità, mai sperimentata, perché tutto ciò che è già sperimentato, inevitabilmente sbiadisce. Sono tentativi di rivitalizzazione dall’impoverimento da mancanza di traccia mnesica.
Vitalità inesauribile nel desiderio di un altro che non si consumi, riposo impossibile e fatica senza fine sono esperienze essenziali del BD e di chi ci si relaziona. Ma come si fa a non stancarsi, a non rispondere alla rabbia? Credo personalmente che possiamo mostrare ed esprimere la stanchezza e, con cautela, anche la rabbia e che queste espressioni in parte possono, paradossalmente, avvicinare il paziente, permettendogli così di recepire, al tempo stesso, il limite ma anche il coinvolgimento del terapeuta, mitigando così l’antagonismo. La cosa importante è che il terapeuta che mostra stanchezza mostri anche di sapere che c’è un collegamento fra perdita e rabbia, tra voglia di aggredire e necessità di ristabilire un contatto, fra essere vittima e diventare persecutore; mantenga cioè la sua funzione riflessiva, così carente e/o intermittente nel paziente.
Data l’eterogeneità dei border e i diversi livelli di gravità, non mi addentrerò in una disamina delle innumerevoli combinazioni di terapie psicofarmacologiche e psicoterapeutiche ( dal supportivo all’ espressivo) e nella valutazione della loro efficacia, né sulla questione dei diversi gradienti di intensità di cura, temi storicamente controversi. Non farò neanche menzione degli importanti e suggestivi contributi delle neuroscienze. Prenderò invece spunto da riflessioni psicoanalitiche sulla terapia con questi pazienti per cercare di fare luce sulle dinamiche trasformative che il singolo e il gruppo possono attivare e sostenere.
Occorre un buon mélange di forza e flessibilità, come dice Gabbard, senza appiattirsi sulle due succitate posizioni forti: quella paterna“o mangi questa minestra…” o quella materna “poverino, con quel che ha passato”, entrambe non scevre da rischi. La prima rischia di trasformare la relazione in un braccio di ferro feroce in cui il pz alza sempre la posta. Le interpretazioni soprattutto di transfert “mi sembra che questa sua potente rabbia che sta facendo vivere a me…” rischiano di essere dolorose punture che anziché migliorare il livello di consapevolezza fanno anzi sentire il paziente defraudato di quel poco che sente suo. La seconda, quella “materna” contiene il rischio di un’idealizzazione e di innescare poi, inevitabilmente, una spirale nella quale il buon terapeuta si trasforma nell’abusatore, confermando la profezia del paziente. Il borderline, come dice Gabbard, cerca una figura che accetti di contenere anche gli aspetti cattivi proiettati, mantenendo però una sua capacità riflessiva su ciò che sta accadendo e non assumendo il ruolo dell’oggetto cattivo arrivando ad odiare il paziente. Sempre secondo l’autore è nell’integrazione di queste due funzioni e posizioni che si può guadagnare un’integrazione della mente del paziente. Più in dettaglio Gabbard parla di un’opera teatrale con tre protagonisti: chi commette l’abuso, la vittima, il salvatore onnipotente. Inizialmente ovviamente il pz con la sua storia è la vittima che suscita nel terapeuta un furor terapeuticus da salvatore. Ma il paziente prima o poi inizia ad attaccare, identificandosi con l’abusante interiorizzato e ponendo il terapeuta nel ruolo della vittima. Se il curante rifiuta l’identificazione con l’oggetto cattivo, negando la propria rabbia ma desiderando di liberarsi del paziente, potrà insistere nel ruolo del salvatore. E così il terapeuta, a poco a poco, finirà per dare al paziente tutto ciò che vuole, perfino un’ambigua vicinanza, replicando così il modello dell’abuso, violando il setting e producendo effetti catastrofici nel paziente.
Possibili uscite dall’impasse consistono nell’ ammettere i propri limiti cercando di descrivere cosa sta accadendo o, meglio ancora, quando possibile, elaborare il lutto di un’esperienza infantile mancata.
D’altro canto se si intende provare a curare il paziente questa danza, questo viaggio sulle montagne russe va fatto, avendo bene in testa che ogni esperienza vitale riattiva nel BD il vissuto dell’esperienza traumatica. E per non farsi travolgere ma restare presenti, occorre rinunciare alla nostra pretesa di onnipotenza narcisistica. Prendendo da Monari (2000) a prestito la metafora del “far sicurezza in montagna”, ricordo che con questa espressione in gergo alpinistico si fa riferimento ad una condizione in cordata che deve essere in atto anche nei passaggi meno difficili e nella quale i destini dei due arrampicatori, legati insieme, sono fortemente intrecciati. Basilare è, per la sicurezza dei due, che il più esperto, per garantire l’altro, deve essere a sua volta assicurato. Con questi paziente che necessitano di una ricostituzione del senso di sé, quello che sembra importante è l’atmosfera globale dell’incontro i cui effetti sono tanto più forti quanto meno l’emozione prevalente di un dato momento è determinata. In tale contesto più efficaci e tollerate sono le azioni, intese come forme comunicative per esprimere qualcosa che non è ancora evoluto da poter essere messo in parole (anche banalmente una stretta di mano) . La funzione cioè della presenza, della testimonianza al fine di rinforzare la fragile trama del paziente: sintonizzarsi sui vissuti corporeo-sensoriali prima ancora che affettivi, verbali, simbolici per giungere poi ad una funzione di narrazione che segni un abbozzo di memoria pacata e non intrusiva e che possa solo successivamente accedere alla posteriorità (attribuzione di nuovi significati ad esperienze già vissute) e contenendo magari una spinta propulsiva ( infuturazione).
Dunque, come dice Correale (2009), è forse utile un lungo periodo di presenza senza spiegare, integrare, semmai riraccontare mescolando i colori ma non la sequenza, magari usando metafore o appoggiandosi a scenari-situazioni terze: notizie, libri, films che abbiano un potenziale esplicativo affettivo tale che, sia il paziente che il terapeuta possano riconoscercisi. Solo più tardi si potrà iniziare a riferirsi non solo al qui ed ora, cercando di cogliere il fondo che sorregge l’esperienza. Parlare direttamente degli stati affettivi del paziente può indurre un vissuto di furto del pensiero: nominare dall’indefinitezza può indurre travisamento e un’imprecisione può renderci inaffidabili e sospetti, così come riferirsi al passato può indurre senso di tradimento, vergogna, rabbia, vendetta. Per il mancato sviluppo della funzione riflessiva il BD ha difficoltà a riconoscere, decifrare, comunicare i propri stati emotivi e vive una attivazione aspecifica, una inquietudine che si traduce in una spinta all’agire. Mario Rossi Monti (2012), proprio l’anno scorso in questa sede individuò nella disforia questo patognomonico vissuto: una rabbia senza supporto, rigida e duratura, una tensione, una irritabilità, una pressione così a pelle che ne connota il contatto. Molto spesso i paziente borderline non hanno idea che sono i sentimenti a muovere la loro condotta e questo si esprime anche nella difficoltà degli stessi a farsi un’idea degli altri, a sviluppare una capacità di giudizio. Gli stati emotivi, senza filtro, si propagano come ondate emozionali travolgenti, vissute per lo più a livello corporeo. Una mia paziente, all’uscita da un TS dopo l’ennesima tragica fine di una relazione amorosa nella quale, entrata da vittima, si era trasformata in abusatore per poi finire inevitabilmente abusata, mi chiese di aiutarla a capire l’altro, dicendo, mentre piangeva dolorosamente e non rabbiosamente, di sentire di non averne i mezzi.
Dunque il controtransfert come capacità di sintonizzarsi con il dolore, stabile e persistente, derivante dallo sperimentare questo senso di sé fluttuante e precario.
Per ottenere l’inizio di una riorganizzazione simbolica degli stati affettivi dobbiamo attendere che essa avvenga attraverso la lentissima formazione nella mente del terapeuta di scenari relazionali, frammenti staccati che poi si aggregano.
Infine, per concludere, un cenno ai pazienti ospiti delle comunità terapeutiche. Nei pz gravi del servizio è utile che ci siano più persone perché il paziente mal sopporta che una sola persona sia il contenitore di tutto, così come ogni operatore ha bisogno di non sentirsi solo con un così grosso peso; è importante allora ritrovare poi nel gruppo le tracce del paziente proiettate sulle varie figure del servizio attraverso le emozioni suscitate in essi, al fine di far fluire l’esperienza e costruire nuove metafore sul paziente.
Per i casi più gravi che si giovano dell’inserimento nelle comunità terapeutiche, è centrale la stabilità del contesto garantito dalle regole della comunità, accettabili dal paziente gradualmente, attraverso un atteggiamento degli operatori che potremmo definire di fermezza affettuosa. Tale attitudine può costituirsi soltanto mediante un’identificazione con la soggettività del paziente e solo quando le regole sono vissute e trasmesse come strumenti per qualcosa, per la costruzione e il mantenimento cioè di un luogo che possa essere terapeutico. In queste condizioni il paziente può accettare le regole molto di più di quanto, a volte si possa pensare. Accanto a questa funzione gruppale è indicata una funzione individuale che miri, come più volte detto, all’attivazione della capacità riflessiva del paziente. D’altra parte il contesto comunitario sembra utile perché offre scenari relazionali, materiale cioè che può permettere una rielaborazione che va nel senso di decifrare gli altri.
Bibliografia
Sassolas M. (1997). Terapia delle psicosi. La funzione curante in psichiatria. Borla, Roma, 2001.
Barale F. (2004). Borderline: il fondo instabile dell’esperienza. Alcuni suggerimenti (e qualche nota storica) per chi voglia cimentarsi. Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi.
Kernberg O.F. (1987). Disturbi gravi della personalità .Bollati Boringhieri, Torino.
Gabbard O.G. (2004). La psicoterapia dei pazienti borderline. Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi
Correale A. (2006). Area traumatica e campo istituzionale. Borla, Roma.
Monari M. (2000) La terapia psicoanalitica dei pazienti gravi e difficili: le prime fasi. Rivista di Psicoanalisi, 46, 4:663-681.
Correale A. et al (2009.) Borderline. Lo sfondo psichico naturale. Borla, Roma.
Rossi Monti M. (2012). Borderline: il dramma della disforia. In M. Rossi Monti (a cura di) Psicopatologia del presente. Crisi della nosografia e nuove forme della clinica. Franco Angeli, Milano.