Relazione presentata al Centro Psicoanalitico di Firenze il 19 marzo 2015, che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice
Per introdurre l’argomento ho pensato di farvi una domanda, una vera domanda, e di chiedervi di conservare la vostra risposta tra voi e voi, mentre parliamo di questo argomento. La domanda è:
“quale differenza c’è tra mangiare un bel panino imbottito, e raccontare, anche con dovizie di particolari, di aver mangiato un bel panino imbottito?
La rivoluzione, per me, teorica e clinica, è iniziata nel 2000, con la lettura di due degli articoli del gruppo di Boston pubblicati in onore di Louis Sander sull’Infant Mental Health Journal: l’articolo di Tronick sull’espansione diadica di coscienza e l’articolo della Lyons Ruth sulla conoscenza relazionale implicita; la rivoluzione è poi andata al galoppo con la lettura dei lavori di Larry Squire sulla memoria; e, successivamente, questa rivoluzione, si è irrobustita quando ho sentito Rossi Monti parlare del gruppo di Boston, e quindi delle cose che avevo letto, in un convegno a Milano, forse nel 2001.
L’espansione diadica di Tronick corrispondeva ad una trasposizione comportamentale, oltre che simbolica, dell’alfabetizzazione di Bion (eventuale esempio del falso baratro di Emde) e metteva una sottolineatura ulteriore sul fatto che i cambiamenti passano dalla coscienza.
La trasposizione comportamentale dell’alfabetizzazione, si realizza dentro gli scambi relazionali, genitori-bambini e analista paziente; richiede un riconoscimento dello stato dell’altro e una reciproca regolazione.
Che i cambiamenti coinvolgano la coscienza non è una novità, l’interpretazione, nella sua esplicitazione al paziente, utilizza la dimensione cosciente di analista e paziente.
La conoscenza relazionale implicita della Lyons Ruth diventava la trasposizione comportamentale del conosciuto non pensato di Bollas e rendeva gli oggetti interni mobili e trasformabili dagli oggetti esterni reali.
Già Winnicott, nel lavoro sulla prima poppata teorica, dimostra efficacemente, come le rappresentazioni interne si costruiscano sulla esperienza di relazione con gli oggetti reali esterni; e lo stesso Bollas, parlando di inconscio ricettivo, scrive: “Tale ricezione comincia nella prima infanzia, quando la madre comunica al bebè messaggi complessi attraverso forme di comportamento, schemi ricorrenti che il bambino assimila come forme interne per elaborare l’esperienza vissuta…”
Bollas prosegue: “…un passo decisivo nella mia conversione all’idea che sia l’oggetto come cosa-in-sé a reclamare l’attenzione della teoria psicoanalitica…In Essere un carattere…scrivevo: ‘Così mi è sembrato piuttosto sorprendente che nella ‘teoria delle relazioni oggettuali’ si presti scarsa attenzione alla struttura distinta dell’oggetto che di solito viene visto come un contenitore delle proiezioni del soggetto’… comunichiamo noi stessi mediante l’azione…”
Ma queste ed altre voci, a partire da Ferenczi, non potevano essere ascoltate, perchè la realtà esterna era stata estromessa dalla rinuncia alla teoria del trauma, e perchè mondo interno e fantasmatizzazioni, ignorate dalle altre teorie, richiedevano tutta l’attenzione.
Veniamo a Squire; Kandell l’ho incontrato successivamente.
Squire ha fornito la base teorica neurale a sostegno della dimensione comportamentale; attraverso gli studi sui pazienti amnesici, già iniziati negli anni ’60 da Brenda Milner, ha scoperto un altro tipo di memoria, oltre alla già nota memoria dichiarativa, e l’ha definita memoria procedurale.
La memoria procedurale stocca rappresentazioni attraverso le azioni, o procedure, se non c’è azione non c’è rappresentazione; uso le parole di Squire:” La distinzione maggiore è tra la capacità di memoria dichiarativa conscia per fatti ed eventi e un insieme di capacità di memoria nondichiarativa inconscia… Nel caso della memoria nondichiarativa, l’esperienza modifica il comportamento ma senza richiedere alcun contenuto mnestico cosciente…La memoria nondichiarativa si realizza attraverso l’esecuzione…I diversi sistemi di memoria operano in parallelo… La memoria nondichiarativa si riferisce ad un insieme eterogeneo di abilità, abitudini, e disposizioni che… prendono forma dall’esperienza, influenzano il nostro comportamento e la nostra vita mentale, e sono una parte fondamentale di chi noi siamo.”
La scoperta di Squire cambia completamente la precedente concezione del sistema mentale: il sistema mentale, a questo punto, risulta composto da almeno due sistemi di memoria e rappresentazione, quello dichiarativo simbolico verbale e quello implicito procedurale comportamentale. Integrare questa acquisizione nel lavoro psicoanalitico comporta che noi abbiamo due punti di aggancio per trasformazioni e cambiamento: quello classico attraverso le parole, e quello attuale attraverso le azioni e i comportamenti; entrambi comportano rappresentazioni, e noi lavoriamo con le rappresentazioni; si tratta di metabolizzare il fatto che le rappresentazioni non sono solo quelle simboliche.
Purtroppo, avvicinarsi a questa prospettiva crea una forte sensazione di rischio di perdita della propria identità psicoanalitica, perchè la psicoanalisi è nata come terapia della parola e su questo ha fondato la propria distinzione da tutte le altre forme di terapia.
La difficoltà si fa ancora più grande se si cerca di sostenere che il comportamento è pensiero. Non è il pensiero che conosciamo, fatto di parole immagini fantasie sogni simboli; è un pensiero diverso, che pensa attraverso le azioni e, allo stesso modo del pensiero simbolico, veicola e crea significati.
“Il pensiero procedurale” presenta una serie di vantaggi rispetto al pensiero simbolico:
- 1- ha una velocità di processazione dell’informazione, superiore alla velocità del sistema simbolico
- 2- ha una maggiore flessibilità nel leggere e aggiustarsi rapidamente su ogni stimolo dell’ambiente, interno ed esterno; e le sue rappresentazioni sono continuamente aggiornabili, coerentemente con il funzionamento del sistema mnestico
- 3- contribuisce, probabilmente in quota maggiore rispetto al sistema simbolico, alla costruzione della dimensione inconscia implicita (cioè all’inconscio non dinamico), quale zona di stoccaggio sempre accessibile, che preserva lo spazio libero per il conscio
- 4- ha una non equivocità intrinseca, perché si costituisce ed è mentre è, è nell’esperienza stessa che sta esperendo
- 5- è anatomicamente già maturo, e quindi operativo, alla nascita, diversamente dal sistema simbolico
- 6
- 7- ha “esperienza” e persistenza filogenetica, perché saldamente inserito tra i meccanismi fondamentali preposti alla sopravvivenza.
- 8- La sua vocazione è di essere inconscio o nonconscio ma può essere recuperato alla coscienza
- 9- La sua incidenza sulla forza sinaptica, è probabilmente superiore a quella del sistema simbolico (scambio comunicativo con Gallese) e quindi è più efficace
- 10- È non verbale; questo significa che diversamente dal pre-verbale, può operare senza trasformarsi in verbale
- 11– Lavora, e non può che lavorare, sul livello locale dell’esperienza e quindi è più preciso, quanto a rappresentazione, del sistema simbolico.
Quanto a svantaggi…bè, ogni volta che parliamo di una sedia dovremmo portarla realmente, o non avremmo la Divina Commedia o la teoria della relatività; Samanta Cristoforetti non sarebbe nello spazio.
Delle caretteristiche positive vorrei riprendere un attimo il non verbale, il livello locale e la velocità di processazione:
non verbale, spesso viene utilizzato e sostituito con preverbale, come se i due termini fossero equivalenti. C’è una grande differenza tra i due: preverbale è un contenuto destinato a diventare verbale e quindi è per vocazione simbolico; non verbale è un contenuto a vocazione procedurale, nasce e opera senza le parole. All’occorrenza può, in un passaggio successivo, essere anche tradotto in parole.
Quando mi trovo davanti a questo uso confuso, confesso che mi viene il dubbio che sia frutto di una piccola resistenza, che porta ad addomesticare tutte le novità che arrivano da altre discipline e a trasporle nel linguaggio psicoanalitico condiviso. Faccio una piccola divagazione: anche i neuroscienziati e lo stesso gruppo di Boston ci hanno messo del loro nell’alimentare la tendenza “onnivora” dell’istituzione psicoanalitica. I neuroscienziati hanno pencolato parecchio e, ancora adesso, non sono arrivati ad una definizione univoca consensuale circa il modo di definire la dimensione implicito procedurale, si muovono tra inconscia, non conscia, implicita. Per parte sua, il gruppo di Boston, per contrastare l’accusa di comportamentismo, e per sottolineare la presenza di una dimensione affettiva e fantasmatica nel procedurale, ha deciso di sostituire il termine procedurale con il termine implicito. Gli autori, nei propri lavori, ripetono diverse volte che per implicito intendono procedurale, ma di fatto, hanno contribuito ad una ulteriore confusione perchè anche il sistema simbolico può essere implicito. Così facendo, hanno involontariamente favorito la perdita per strada del comportamento, e infatti, il concetto di implicito è entrato in molta parte della letteratura psicoanalitica degli ultimi tempi, ma sempre con un implicito scorporo della dimensione comportamentale.
Il livello locale mi è piuttosto caro perchè ha una importante ricaduta sul piano sia teorico che tecnico. Il “livello locale” è il livello fattuale dell’esperienza che si realizza nella realtà; se mentre raccontonnjkj un episodio dico la frase: “e così ad un certo punto ho preso una sedia e mi sono seduta comoda”; tutti noi capiamo quello che ho detto e che ho fatto; ma, non sappiamo niente di quella particolare sedia: se era di legno o di metallo, colorata o non, pesante o leggera…; il procedurale non può che registrare tutti questi elementi perchè è predisposto a questo, il simbolico può ignorarli perchè la sua vocazione è l’astrazione e quindi deve lavorare per categorie. Questa diversità fa sì che dal punto di vista di come si è svolta realmente l’esperienza, il procedurale sia più preciso e il simbolico risulti “grossolano” e che la rappresentazione raccontata attraverso il simbolico-verbale sia meno articolata e parzialmente incompleta. Vi porto due esempi all’opposto; una prima coppia di genitori sta parlando dei conflitti che capitano tra di loro e il papà dice: “certe volte ci arrabbiamo molto e succede anche davanti ai bambini”; l’aggettivo “molto”, in passato, mi portava a pensare e, soprattutto, a dare per scontato che alzassero la voce e discutessero in maniera molto animata. Nel colloquio successivo, chiedo di dirmi che cosa vuol dire arrabbiarsi molto, di dirmi che cosa fanno; ecco la risposta, inevitabilmente esitante, di lei: “bè…l’altro giorno…lui ha preso il mio cellulare e me l’ha tirato addosso, è andato in mille pezzi…poi mi ha detto vaffanculo e è sparito per ore”; e lui: “sì, ma tu di’ alla dottoressa che cosa avevi fatto; dottoressa, mi aveva tirato addosso un posacenere di metallo che ho evitato per miracolo, ma ha colpito un quadro dietro di me e delle schegge mi hanno fatto questi tagli… guardi!”
Un’altra coppia, sta parlando della adolescente testardaggine della figlia di 15 anni e la mamma, riferendosi al papà, dice: “questa volta lui si è proprio infuriato”; il papà commenta: “sì, questa volta proprio sì”; chiedo al papà che cosa vuol dire che si è infuriato, che cosa ha fatto; risponde la mamma: “le ha detto, serio, che non era d’accordo; e dopo le ha tenuto il muso per un po’”.
Un altro esempio: una mamma viene perchè trova strano il modo di addormentarsi del suo bambino di 2 anni; ha bisogno di stare sempre con una manina aggrappata alla sbarra del suo lettino; anche sulla base di altri elementi, quale il piangere del bambino quando deve andare al nido, la mamma mi dice che il suo bambino ha una “angoscia da separazione (con tutte le conseguenze che questa rappresentazione comporta: ho un bambino incapace di affrontare il mondo…pauroso…) . In base al racconto che la mamma fa, sembra plausibile l’ipotesi di un problema di separazione; le faccio alcune domande per verificare la sua ipotesi e, conservandola come possibile, comincio ad esplorare il livello locale: le chiedo che espressione ha il bambino quando si aggrappa, come è fatto il lettino, di che materiale è fatto, se dopo un po’ il bambino sposta la manina in un altro punto della sbarra, se tenendo la sbarra si addormenta …
Sulla base delle risposte della mamma, mi sembra che non ci troviamo di fronte ad un problema di separazione, ma che siano in gioco i gusti particolari che ogni bambino ha, e che a volte, uscendo dai soliti canoni dell’orsacchiotto o di altri oggetti transizionali ormai conosciuti, allarmino i genitori. Mi sembra che a questo Pluto, piaccia particolarmente il fresco del metallo della sbarra del lettino; chiedo alla mamma se questa idea le sembra plausibile, e lei, con un senso di grande sollievo, mi dice che allora capisce perchè fa “quella cosa strana di dormire con in mano una macchinina; ne tiene una nell’altra manina e può capitare che se la metta anche attaccata alla faccia!” Una ipotesi di questo tipo cambia la rappresentazione che la mamma ha del suo bambino: da bambino pauroso che preoccupa, diventa bambino con gusti singolari e, per questo, divertente.
La velocità di processazione, che è superiore a quella del sistema simbolico e che si interseca con l’origine filogenetica, è di facile dimostrazione: se la gazzella vuole cavarsela, non può permettersi di mettersi a pensare al leone, a come è fatto, a che cosa sta per fare ecc., deve darsela a gambe e subito.
Questa velocità di processazione, mi ha portato ad avanzare una ipotesi che vi sottopongo.
Il comportamento, per la psicoanalisi, è sempre stato come il leone per la gazzella; anche se ha cercato di darsela a gambe, la psicoanalisi, non ha potuto evitare che il leone di tanto in tanto si ripresentasse, e così ha cercato di addomesticarlo categorizzandolo in vari modi: acting, enactment, role responsiveness, interpretazione in azione…qualche psicoanalista coraggioso però, lo ha affrontato a viso aperto, è il caso di Racamier e Renik.
Racamier nel 1997 scrive:
“La mia idea guida trova radici nella psicoanalisi…è partendo da lei che mi sono interessato alla psicosi e agli psicotici… si tratta di udirli, di ascoltarli e di capirli non solo attraverso ciò che dicono, ma anche e ancor più tramite ciò che fanno e non dicono…Mi sembra essenziale avere in mente e cercare di mettere in opera idee e azioni che convoglino sia l’ordine psichico che l’ordine pragmatico… Propongo quindi un cammino… che conduce dal ‘mettere in pensiero’ e dal ‘mettere in immagini’ al ‘mettere in azioni.’ ”
Renik nel 2006 scrive:
“Il problema dell’uso del concetto di enactment come guida per la tecnica analitica è che presume che certe interazioni tra analista e paziente, cioè gli enactment, esprimano le motivazioni inconsce dell’uno o dell’altro partecipante, e ne realizzino le fantasie inconsce, mentre altre interazioni tra analista e paziente non esprimano le motivazioni inconsce dell’uno o dell’altro dei partecipanti, e non ne realizzino le fantasie inconsce, o per lo meno lo facciano in misura minore. Questo presupposto è erroneo e fuorviante. La verità è che ogni interazione tra paziente e analista esprime le motivazioni inconsce e realizza alcune fantasie inconsce dell’uno o dell’altro o di entrambi i partecipanti. E’ ingenuo da parte dell’analista pensare diversamente e questo lo condurrà a sottovalutare la sua partecipazione personale al lavoro clinico.”
Se ritagliamo Racamier e Renik, tutte le altre accezioni contengono l’idea che la messa in atto comportamentale manifesti l’inconscio in sostituzione del pensiero e delle parole; e si pensa questo perchè il comportamento, in questi casi, ha preceduto il pensiero del paziente e dell’analista. Ora, che elementi abbiamo per dire che in quel comportamento si manifesta l’inconscio? L’unico elemento sembra dato dal fatto che nè paziente nè analista hanno pensato prima quello che poi si è manifestato nel comportamento. Il fatto che si tratti di un comportamento non lo istituisce automaticamente come elemento inconscio. Quello che sembra, automaticamente e genericamente, istituirlo come inconscio è la sua posizione nella teoria psicoanalitica che, costruendosi sul simbolico-verbale, lo ha automaticamente escluso, rendendolo inconscio alla propria esplorazione.
Se invece, e questa è l’ipotesi, si prendesse il comportamento per quello che è sul piano neurologico, e cioè un altro linguaggio del sistema mentale, che non può che esprimersi con azioni, che è più veloce del simbolico e quindi non potrà che precedere il pensiero, allora si aprirebbe un altro scenario e potrebbe essere applicato al procedurale la stessa articolazione che si riconosce al simbolico: avremmo comportamenti inconsci, in senso psicoanalitico, che trasportano effettivamente significati inconsci; avremmo comportamenti non consci automatizzati, come ad esempio i comportamenti della vita quotidiana che non richiedono riflessione ma che possono facilmente essere recuperati alla coscienza; e avremmo comportamenti al servizio del simbolico che organizzerebbero azioni intenzionali. L’intensità o l’urgenza maggiore o minore dell’espressione di un comportamento non ne definirebbe la natura inconscia, è semmai da declinare in termini di maggiore o minore regolazione.
Vengo all’azione ugualmente fluttuante che è una delle conseguenze dell’ipotesi espressa poco sopra. Se pensiamo alla dimensione procedurale come una dimensione aggiuntiva, regalataci dalle neuroscienze, allora possiamo ipotizzare e trovare che ha gli stessi meccanismi e processi della dimensione simbolica. Troviamo che all’attenzione ugualmente fluttuante corrisponde una azione ugualmente fluttuante, alla reverie simbolica corrisponde una reverie comportamentale, alla identificazione proiettiva simbolica corrisponde una altrettanta identificazione proiettiva comportamentale e così via.
L’azione ugualmente fluttuante si differenzia dall’attenzione ugualmente fluttuante dal punto di vista della processazione; mentre l’attenzione fluttuante comporta un processo, un tempo di svolgimento; l’azione fluttuante, proprio per la caratteristica del procedurale, è istantanea e sincretica; lo si coglie bene se si pensa ad uno scambio relazionale spontaneo, sia esso buono o conflittuale; i due interagenti si aggiustano continuamente ed estemporaneamente l’uno sull’altro.
Come ultima cosa pensavo di dirvi il mio punto di arrivo attuale. Il mio punto di arrivo attuale riguarda il dare indicazioni. E’ un concetto che fa rizzare il pelo psicoanalitico come un’unghia sulla lavagna, anche se, ascoltando i lavori dei colleghi, molti degli interventi verbali che vengono fatti, sono di fatto delle indicazioni più o meno dirette. Comunque, avendo deciso che il comportamento è parte integrante del sistema mentale, ho pensato di prenderlo di petto e utilizzarlo fino in fondo; se il comportamento è pensiero, veicola affetti fantasmi e significati, così come lavorando sulle rappresentazioni simboliche introduciamo nuovi significati attraverso le interpretazioni, penso di poter introdurre significati anche attraverso i comportamenti; e perchè parlare esplicitamente di indicazioni? Perchè, mentre il lavoro simbolico utilizza pensieri e parole, sappiamo che il procedurale non può che utilizzare le azioni e quindi non posso che dare indicazioni relative al provare a “fare”, affinchè si crei la rappresentazione nel sistema procedurale.
Il materiale clinico che pensavo di portarvi è proprio un esempio di indicazioni.
Concludendo e in sintesi, credo si possano riassumere tutte queste considerazioni dicendo che quello che mi sembra interessante è di provare a lavorare muovendoci in contemporanea, tra l’anima simbolica e procedurale delle parole e l’anima procedurale e mentale dei comportamenti.
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