Marina Abramović (2016) Attraversare i muri. Un’autobiografia con James Kaplan. Giunti, Firenze 2018.
Titolo originale Walk Through Walls. A Memoir
Recensione a cura di Chiara Matteini
Ci sono molte possibili linee di lettura dell’autobiografia di Marina Abramović, un autoritratto di artista, la necessità di ogni essere umano di dare una forma alla propria biografia, quel tentativo di ordinare il caos dell’esistenza attraverso un filo, dei segni, delle traiettorie di significato, che regola sempre ogni operazione autobiografica.
Così in queste pagine si incontrano tante Marina Abramović, la figlia di un eroe di guerra (un padre idealizzato e amatissimo, ma in fondo distante e perduto, assente per lungo tempo dalla vita della figlia dopo il divorzio dalla madre), l’artista che ha rivoluzionato la performance art, la volitiva ragazza di Belgrado che è convinta che con la volontà sia possibile abbattere ogni ostacolo, l’icona del successo planetario di The Artist Is Present (Museum of Modern Art, New York, 2010), la compagna di Ulay, con il quale attraversano gli spazi mutevoli di una relazione esplorata in un intreccio creativo e sentimentale (maschile/femminile, amore/odio, simbiosi/distanza, intimità/esibizione) terminato dopo 13 anni di rapporto artistico e sentimentale nell’ultima performance comune, tre mesi di cammino sulla Grande Muraglia cinese partendo da punti opposti, due traiettorie differenti per un unico punto di incontro e di perdita, la fine di una relazione esibita in uno spazio pubblico. Una donna che ha molto vissuto, molto viaggiato, molto sperimentato, in varie e differenti parti del pianeta, che ha osservato la propria esperienza del mondo attraverso la lente deformante della performance artistica, che ingigantisce dettagli e fa scomparire porzioni di realtà.
Percorrendo i differenti tragitti in rilievo in Attraversare i muri si possono così ascoltare voci differenti, tessere di un’esperienza indubbiamente straordinaria. Leggendo ci si può imbattere nella storia di un’infanzia infelice, di una figlia della Jugoslavia post bellica, sempre immersa in scenari in cui l’ombra della guerre alimenta il tempo e scandisce lo spazio. La seconda guerra mondiale, che ha fatto incontrare i genitori, entrambi partigiani, la guerra fredda, che sigilla la Jugoslavia di Tito in un tempo fermo, la guerra fra i genitori di Marina, consumata fra urla e litigi fino alla separazione, la guerra di Marina con la madre Danica, donna controllante, dispotica, violenta, ma anche direttrice del museo di arte e rivoluzione pronta ad incoraggiare la figlia a dipingere, la guerra che ha sbriciolato la ex Jugoslavia quando Abramović già era un’artista affermata, e che lei ha rievocato in un’installazione forte e terribile alla Biennale di Venezia del 1997 (Balkan Baroque), con la quale vinse il Leone d’oro come miglior artista. Un conflitto costante, fra ombra e luce , fra il bello e il disturbante, fra le radici e il cielo, fra la volontà spietata e costante, appresa nella rigidissima disciplina materna, con la quale ha perseguito il successo e la fragilità che ha alimentato e dato forma ai sogni e agli incubi che hanno creato le sue performance.
Oppure si può leggere questa storia come l’autoritratto di un corpo, un corpo percepito come brutto e sgraziato, poco amato, un corpo ingombrante, costretto in vestiti imposti dalla madre brutti, goffi e punitivi, un corpo che sanguina, per le botte della madre e della zia, ma anche per una misteriosa forma di emorragia per la quale a sei anni è costretta a rimanere in ospedale un anno per accertamenti. Un anno che lei definisce “il momento più felice della mia infanzia” e che si conclude dopo che l’ipotizzata leucemia viene esclusa dai medici che concludono che Marina soffre di “qualcosa di misterioso, forse una reazione psicosomatica ai maltrattamenti che subivo da mia madre a da sua sorella” (pag. 22). Un corpo a cui lei stessa infligge dolore, come quando adolescente tenta di rompersi il naso gettandosi contro la spalliera del letto dei genitori, per poter essere operata ed avere un naso come Brigitte Bardot, o quando si taglia un polso il giorno del suo sedicesimo compleanno, nel tentativo di dare una forma al dolore e alla sensazione di infelicità.
Quel corpo diverrà nel tempo il centro dell’esperienza artistica di Marina, il luogo delle sue performance più famose, basate spesso sulla ricerca del limite, limite al dolore, limite alla resistenza, limite alla fusione con un altro corpo (come nei lavori in coppia con Ulay). E’ un corpo inciso (per esempio da una stella a cinque punte incisa sul ventre in Thomas Lips, Innsbruck,1975), ferito (come in Rhythm 10, eseguita la prima volta a Roma nel 1973, in cui colpisce con un coltello gli spazi fra le dita, sempre più velocemente, i coltelli utilizzati sono dieci e il sangue che esce catturato da un foglio bianco).
Un corpo provato, consegnato all’altro, come in Rhythm 0 (Napoli,1975) una famosissima performance allo Studio Morra di Napoli, dove Marina è immobile di fronte al pubblico e su un tavolo davanti a lei ci sono settantadue oggetti (da una boccetta di profumo, ad un martello, da una piuma ad sega, da un rossetto ad una pistola con un proiettile…).
L’illustrazione dell’opera a disposizione del pubblico è questa:
“RHYTHM 0
Istruzioni
Sul tavolo ci sono 72 oggetti che possono essere usati a piacimento su di me.
Performance
Io sono l’oggetto.
Durante questo intervallo di tempo mi assumo ogni responsabilità.
Durata: 6 ore (dalle 20 alle 02)
Studio Morra, Napoli, 1975”
La foto di Rhythm 0 sono inquietanti, l’artista è mezza nuda, sanguinante, punta da spilli, bagnata. Chi si consegna a chi? Il corpo dell’artista è l’oggetto consegnato al pubblico, ma a che cosa vengono consegnati gli spettatori nel segmento spazio-temporale creato da Abramović? Il tentativo è quello di favorire l’emersione di uno spazio dove il limite e il profilo di qualcosa di violento e oscuro è sempre in agguato, si attiva il contatto con aree segrete, il rapporto con l’inconscio dell’artista, ma anche dello spettatore.
Un altro itinerario che possiamo tracciare, fra i mille possibili, leggendo fra le righe di questa straordinaria avventura umana, è quello del rapporto con l’invisibile. Di questo invisibile in fondo è fatto il percorso artistico di Marina Abramović, che comincia bambina a dipingere quadri con i colori dei suoi sogni, verde scuro e blu notte, ma che forse nel tempo ha cercato di creare attraverso le sue opere un disegno in filigrana, invisibile a occhio nudo, un ritratto dello spazio di relazione fra esseri umani, costruito dall’artista in presenza e attraverso la presenza del pubblico, in cui si impastano, come in ogni opera, i colori dei sogni e degli incubi dell’artista e di ogni singolo spettatore.
Ci sono due immagini bellissime di questo invisibile nel libro. Una è quella del plakar, il ripostiglio segreto della casa dell’infanzia, in cui Marina veniva chiusa per punizione dalla madre. Un luogo buio “pieno di fantasmi e di presenze spiritiche – esseri lucenti, informi e silenziosi, ma per nulla spaventosi. Io parlavo con loro. Mi sembrava del tutto normale che fossero lì. Semplicemente facevano parte della mia realtà, della mia vita. E appena accendevo la luce, svanivano” (pag. 18). Forse in qualche modo potremmo immaginare che la straordinaria carriera artistica di Abramović sia un costante dialogo con quello spazio magico dell’infanzia, con quel buio che apre le porte all’invisibile, con un dolore verde scuro e blu notte al quale si cerca di dare una forma.
Un’altra immagine potente della forza dell’invisibile è contenuta nel ricordo di una prima lezione di pittura, fatta a quattordici anni con un amico partigiano del padre. Filipović, questo il nome del pittore, si presenta a casa Abramović con tutti i materiali necessari per dipingere, colori, tele, colla. Su un pezzo di tela getta un po’ di colla, poi della sabbia e pigmenti di colore. Poi butta della benzina e fa esplodere tutto con un fiammifero. “Questo è un tramonto” dice all’allieva prima di andarsene.
Marina lascia raffreddare la tela e appende quello che ne rimane con cautela alla parete. Parte con la famiglia per le vacanze e al suo ritorno trova sul pavimento solo un mucchio di cenere e sabbia. Abramović legge quest’esperienza come quella che le ha insegnato che il processo conta più del risultato, che la performance conta più dell’oggetto. Quest’esperienza però può anche essere letta come esemplare del rapporto con l’invisibile, come il tramonto di un’idea di arte (il dipinto come oggetto) e l’impronta nella giovane aspirante pittrice di un’idea, quella di trasbordare il verde scuro e il nero, le ombre del plakar e i loro silenziosi discorsi, in uno spazio intermedio, potenziale forse, fra l’esperienza e l’opera.
Allora forse quell’attraversare i muri, il bellissimo titolo che Abramović ha scelto per la sua storia, che si riferisce apparentemente alla determinazione ferrea appresa dai genitori partigiani, a un’educazione spartana, basata sulle punizioni e sulla necessità di forgiare il carattere e la volontà (“Ero tenuta a subire le punizioni senza lamentarmi. Penso che, in un certo senso, mia madre volesse addestrarmi a essere un soldato come lei (…) i veri comunisti dovevano avere una determinazione capace di farli passare attraverso i muri – una determinazione spartana”, pag. 22), riguarda soprattutto quello che non si vede, che non si può toccare, che segna senza lasciare traccia apparente, attraversare i muri rimanda forse a quell’esperienza dell’invisibile, che permette di immaginare dietro ogni muro, spazi sconfinati e differenti, dietro ogni realtà concreta percepire altre realtà in agguato.
La lezione di pittura di Filipović, quel tentativo di quadro mandato in fumo, trova la forma per una domanda sempre attuale, umana prima che artistica. Ci sono storie per cui il tempo non basta, ci sono storie che hanno bisogno di altre dimensioni. Ci sono storie che stanno fuori del tempo, in un tempo di altra natura, che necessitano altre strade per poter prendere una forma, ci sono storie che forse non sono ancora storie, ci sono opere (umane e/o artistiche) che attendono di poter comparire, o che resistono invisibili a ogni tentativo di riproduzione .
Quel tramonto bruciato richiama la persistenza di quello che non si vede. Che cosa rimane di un tramonto quando compare la notte?