VENERDÌ 30 NOVEMBRE / ORE 21.00
ARMADILLO
di Janus Metz
(Danimarca, 2010, 90’)
Uno sguardo diretto e senza mezzi termini rivolto al cinismo e al bisogno di adrenalina che contraddistinguono alcuni giovani soldati in missione in Afghanistan. Mads e Daniel sono due militari di stanza nel campo Armadillo, impegnati sul fronte della provincia dell’Helmand che è scenario di terribili e violenti scontri con le milizie talebane. Con il passare del tempo e con l’inasprimento dei combattimenti, i due giovani e i loro commilitoni si ritrovano in preda a uno strisciante senso di alienazione e di disillusione.
INTERVIENE: Teresa Lorito
Teresa Lorito (Centro Psicoanalitico di Firenze) ha curato Psicoanalisi e guerra.
Il lavoro degli psicoanalisti in situazioni di conflitto, ETS 2008
Commento a Armadillo
di Teresa Lorito
Partiamo dal titolo Armadillo.
L’armadillo è un mammifero che si presenta con un corpo ricoperto da scudi, placche ossee ricoperte da tessuto corneo. Vive in ambienti desertici ed è attivo soprattutto di notte. Scava gallerie fra loro comunicanti per procurarsi cibo e fuggire ai predatori. Sono animali solitari e predatori.
Sembra quindi un buona scelta come nome per una base militare. La base dove nel 2010 arriva un gruppo di militari danesi per restarvi 6 mesi.
Con loro arrivano in Afganistan anche il regista Junus Metz e il suo operatore per produrre un documentario.
Documentario che è diventato il film che abbiamo visto stasera e che ha vinto il Grand Prix al festival di cannes del 2010.
Per documentario si intende generalmente un prodotto audiovisivo destinato alla rappresentazione visiva di aspetti di realtà.
E armadillo ci restituisce, in modo molto crudo, non solo la realtà della guerra, ma una serie di problematiche legate ai nostri tempi.
Quindi:
guerra
violenza
problematiche identitarie
cultura del macismo
idea della donna
il concetto di diverso\altro\estraneo
Ma anche la vergogna, gli affetti, i condizionamenti, internet e video giochi, una realtà virtuale che non sempre siamo in grado di governare, ma di cui spesso siamo vittime.
Dice il regista in un intervista il mio film è “iper-realista. Nel senso che mostra la realtà non come la guardiamo noi, da qui, ma come la guardano quei ragazzi. Un misto di suggestioni che vengono da videogame, da internet, dai reality televisivi e dalla caduta di una serie di tabù, propria di condizioni estreme”
L’inizio del film mostra la preparazione alla partenza: esercitazioni, familiari preoccupati, curiosità e feste d’addio.
E qui viene in mente che la violenza non c’è solo in situazioni di guerra guerreggiata, ma anche nelle nostre vite tranquille dove uomini così giovani trattano le donne come oggetti di piacere, come esseri disumanizzati ed equiparati a mondi virtuali dove la relazione non esiste, esiste solo una specie di incontro basato su finti soddisfacimento di bisogni (denaro – sesso – godimento – eccitazione).
Se questo era sicuramente nella consapevolezza del regista, non so quanto abbia pensato al paralllelo fra festa e guerra così come si può leggere in Franco Fornari.
Riportando alcune teorie sociologiche ci dice che possiamo determinare alcune aspetti psicologici implicati nelle feste:
-
produrre un’unione materiale dei membri del gruppo
-
l’essere un rito di spesa e di sperpero
-
il costituire una modificazione più o meno grande delle regole morali
-
l’essere un rito di esaltazione collettiva
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l’instaurare una specie di annullamento della sensibilità fisica
-
l’instaurare riti sacrificali.
In quest’ottica la guerra sarebbe la festa suprema
Il film poi ci porta nel quotidiano della vita in Afganistan.
La tensione cresce, si occupa la giornata fra ginnastica, pc, telefonate a casa, pulizia delle armi, in attesa dello scontro.
E non c’entra la simpatia per gli abitanti del luogo, la pietà per le loro misere condizioni, la bellezza dei paesaggi e delle notti. Piano, piano questi ragazzi diventano macchine da guerra, perdono la loro identità, peraltro già in crisi, per acquisire l’identità del soldato, di colui che salva, che aiuta, che decide chi vive e chi muore.
Anche qui Fornari ci spiega che sono proprio i più giovani a essere spinti “più facilmente ad alienarsi per uno scopo ideologico”. Sono i giovani che “accettano l’idea di perdere la vita al servizio di un’idea”.
Ed è durante queste azioni che vediamo cambiare lo sguardo di questi ragazzi.
Si intravede la vergogna per aver colpito una ragazzina indifesa.
Questa vergogna viene superata con la ragione della missione, con l’orgoglio di aver fatto fuori dei talebani.
Appare sempre più chiaro che al di là della spiegazione freudiana di un’innata aggressività dell’individuo, sia preminente l’aspetto gruppale, l’identità che il gruppo ti può restituire, la forza con cui ti sostiene, il senso che ti può dare.
Mi sembra, infatti, che proprio nel gruppo l’aggressività trovi la migliore via per esprimersi.
A questo proposito il costrutto di deindividuazione che possiamo mutuare dalla psicologia sociale sembra poter dare un minimo comune denominatore ai gruppi di ultras, agli stupri collettivi, al terrorismo religioso, insomma a tutti quei fenomeni di violenza collettiva a cui siamo sempre più tristemente abituati.
Ma torniamo al nostro Armadillo, una delle modalità con cui si rinforza questo senso del gruppo è il segreto: sappiamo noi quello che è successo, gli altri là fuori non possono capire.
L’indifferenza dinanzi alle atrocità, ai corpi dilaniati, ai “danni collaterali” può sussistere solo nel gruppo.
Alla fine, dopo il rientro in patria, si vede che quasi tutti tornano o vorrebbero tornare in azione, in Afganistan o altrove, pur di poter rivivere quei momenti di esaltazione, per poter riprovare quelle emozioni.
Si forma cioè una dipendenza, una dipendenza da comportamenti, una dipendenza sensa sostanza. E anche questo è un fenomeno sempre più diffuso nelle nostre società, dipendenza da gioco d’azzardo, da sesso, da lavoro, da cellulare o da internet.
Tutti i critici sottolineano come appare chiaro il bisogno di mantenere alta l’adrenalina, di vivere in una situazione di eccitamento dell’organismo che fa sentire l’individuo potente, forte, sicuro del controllo. L’altra faccia della medaglia è la fase di down, la fase in cui tutto sembra grigio, senza senso.
Questo grigio lo possiamo vedere nello sguardo del caporale che mangia in un ristorante con la sua ragazza e degli amici, uno sguardo vuoto, triste, che si confonde con il nulla.
Per concludere, questo documentario, che usa in modo magistrale i canoni estetici e tecnici della cinematografia per suscitare l’interesse degli spettatori, mi sembra sottolineare come la guerra e l’esercito siano una metafora molto efficace per indicare le problematiche sociali e individuali che si ritrovano nella vita “in pace”.