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Perini M. (2005). Leadership e gruppo di lavoro: tra genio ed Establishment

Terzo Seminario 2005 SPI-ASL Firenze su “La gruppalità nei Servizi di Salute Mentale”

Coordinatore del Corso Giuseppe Saraò, Responsabile M.O.M. SM Adulti Distretto 2 Firenze

6 maggio 2005, giornata sul tema “La gruppalità e la leadership”

“The individual is a group animal at war, both with the group and with those aspects of his personality that constitute his groupishness” (Bion, Experiences in Groups, 1961)

La relazione è centrata sul concetto di leadership come funzione del pensiero del gruppo e dispositivo di contenimento delle ansie primitive legate al compito, al ruolo, alle identità minacciate dai processi di gruppo, ai rischi più frequenti del gruppo di lavoro (dalla frammentazione esplosiva alla deriva paranoide) e alla temperatura elevata delle relazioni gruppali. Il punto di riferimento concettuale è essenzialmente la concezione bioniana del workgroup e l’analisi dei processi organizzativi secondo il modello Tavistock.

Il gruppo di lavoro
I gruppi si formano per realizzare un compito comune, che nella maggior parte dei casi consiste in un lavoro.

A un livello più profondo e segreto però le persone si mettono insieme anche per soddisfare bisogni personali, individuali o collettivi. Bion (1961, 1962) ha studiato approfonditamente questa duplice modalità di funzionamento gruppale, una più razionale ed orientata al compito ed una più irrazionale, inconscia e rivolta all’appagamento dei bisogni emozionali dei membri del gruppo, ed ha formulato l’ipotesi che tutti i gruppi operino sotto l’influenza congiunta di queste due configurazioni, che ha paragonato alla visione binoculare.

Nella sua teorizzazione egli chiama “gruppo di lavoro” la prima configurazione e “gruppo in assunto di base” la seconda. Il gruppo di lavoro, basato sulla cooperazione cosciente e razionale dei suoi membri, svolge nei confronti della mente del gruppo una funzione simile a quella che l’Io esercita nella mente individuale.

E’ importante sottolineare come questi costrutti, che Bion ha introdotto per descrivere degli stati mentali collettivi, generati anonimamente e inconsciamente dai membri del gruppo, si prestino bene a rappresentare anche aspetti delle culture organizzative e modelli di funzionamento sociale. Il concetto di gruppo di lavoro può quindi offrire nuovi paradigmi anche alla riflessione sulla leadership e sul governo dei sistemi sociali complessi.

Le valenze egoiche del gruppo di lavoro si traducono al livello della vita organizzativa in funzioni di tipo “manageriale”: “task, time and territory” (compito, tempo e territorio), come riassume Miller (1989), intendendo che nei gruppi di lavoro tende a generarsi un’assunzione di responsabilità e di autorità, sia individuale che collettiva, per mantenere il gruppo aderente al suo compito, gestirne i confini (di tempo, di spazio, di ruolo, interpersonali, intergruppali), assicurare il contatto e lo scambio con la realtà esterna, fornire le risorse necessarie e offrire al gruppo senso e contenimento.

La letteratura psicoanalitica e quella socio-psicologica hanno dedicato grande attenzione al “gruppo emozionale” ed alla concezione bioniana degli assunti di base, a partire dalla quale sono state sviluppate idee feconde per la psicoterapia di gruppo, l’analisi delle organizzazioni e la teoria del pensiero e della conoscenza. Lo sviluppo straordinario delle ricerche sulla psicodinamica dei gruppi all’interno di quella che è stata chiamata la “scuola inglese” ha generato, oltre agli studi pionieristici di Bion, i contributi di brillanti pensatori come Foulkes, Rickman, Main, Turquet, Jaques, Menzies, de Marè, Hinshelwood, Pines, promuovendo la nascita di movimenti di pensiero come la gruppoanalisi, la comunità terapeutica, la socioanalisi, i gruppi Balint, e la fondazione di istituzioni come la Tavistock Clinic e il Tavistock Institute, il Cassel Hospital e l’Henderson Hospital.

Altre linee d’indagine sulla psicodinamica dei gruppi e sulla terapia di gruppo si sono sviluppate ad esempio in Francia, con l’opera fondamentale di Anzieu, Kaes e Rouchy; in Argentina, con gli studi di Pichon-Rivière, Bleger, Puget; in Italia, grazie al lavoro di Napolitani, di Corrao e del gruppo detto “del Pollaiolo”.

E’ invece rimasta fino ad oggi per così dire ferma ad uno stadio embrionale quello sviluppato da Bion – la ricerca psicoanalitica sul “gruppo di lavoro”, sia nel suo significato più specifico di stato mentale del gruppo sia nella sua valenza più allargata di oggetto sociale interno e di particella elementare della vita e della struttura di un’organizzazione. (Bernabei e al. 1987)

La stagnazione delle indagini su questo tema deriva in parte dalla banalizzazione del concetto stesso di gruppo di lavoro, rispetto al quale si tende a dare per scontato che si tratti di una condizione di normalità, in cui il gruppo semplicemente fa il suo mestiere senza problemi; i problemi nascono semmai dalla sua infiltrazione per opera degli assunti di base.

Eppure Bion aveva cercato di precisare le caratteristiche dello stato mentale a cui aveva dato il nome di gruppo di lavoro: la prima è un “idea di sviluppo”, una spinta evolutiva che anima il gruppo e la sua attività la seconda è “l’idea del valore di un approccio razionale o scientifico allo sviluppo”; la terza, corollario inevitabile delle prime due, “l’accettazione della validità dell”apprendimento dall’esperienza”. Una quarta caratteristica è l’impegno nell’azione o, per dirla con Bion, “lo sviluppo di un pensiero destinato a tradursi in azione” perchè “l’azione inevitabilmente significa contatto con la realtà, il contatto con la realtà obbliga alla considerazione per la verità e quindi al metodo scientifico, e da tutto ciò viene evocato il gruppo di lavoro”. (Bion 1961)

Queste osservazioni di Bion purtroppo non sono state ulteriormente sviluppate nè da lui nè da altri studiosi. (Armstrong 2003)

Un altro ostacolo allo sviluppo della ricerca è stato lo scarso interesse mostrato dalla psicoanalisi per la dimensione del lavoro umano. E’ sorprendente constatare quanto poco esso sembri aver stimolato il pensiero psicoanalitico, ed anche nei rari analisti che in passato se ne sono occupati l’esplorazione parrebbe essere giunta più o meno rapidamente ad un punto morto, inducendoli ad abbandonare il campo. Freud stesso, che si era votato con passione ed acume all’esplorazione della sessualità e della vita amorosa, prestò invece assai poca attenzione alle componenti psicologiche del lavoro, sebbene lungo tutta la sua opera egli abbia continuamente identificato nella capacità di lavorare – in congiunzione con quella di amare e di provare piacere – un requisito basilare della salute psichica (Freud 1903, 1912, 1916-17); e nonostante il suo frequente ricorrere al termine “lavoro” (arbeit) per descrivere processi interiori di grande importanza come il lavoro del sogno, quello del lutto e, in generale, il “durcharbeit” o “working through”, l’attività elaborativa della mente.

Bion, come abbiamo detto, con il concetto di “work group” avviò un filone d’indagine innovativo e promettente, ma lo abbandonò quasi subito insieme con l’interesse verso i gruppi per rivolgere le proprie ricerche ai processi di pensiero ed alla revisione della teoria psicoanalitica.

Un altro analista inglese, Elliott Jaques, dedicò pagine memorabili all’esplorazione del lavoro umano e delle dinamiche organizzative, ma anch’egli dopo qualche tempo si lasciò alle spalle, nel suo caso non l’oggetto bensì lo strumento di studio, ossia il metodo psicoanalitico. (Jaques 1951, 1955, 1970, 1995)

Forse la psicoanalisi, nata dalla rinuncia di Freud all’influenzamento ipnotico e dall’esperienza delle “cure parlanti” (talking care), ha finito con lo sviluppare una sorta di idiosincrasia o più semplicemente una posizione di disinteresse pregiudiziale verso tutto ciò che concerne il fare, la dimensione dell’azione e quella dell’intervento sulla realtà fin dal tempo degli anatemi contro Ferenczi la disciplina dell’astinenza e la vigilanza contro gli “acting out” l’hanno probabilmente resa sospettosa verso ogni forma di comportamento attivo, come se il “fare” recasse stabilmente in sè lo stigma del passaggio all’atto e la sua maligna capacità di evacuare le funzioni della mente o di attaccare la relazione.

Il guanto della sfida che la psicoanalisi aveva lasciato cadere esplorare la natura e il significato psicologico profondo del lavoro individuale e collettivo venne almeno in parte raccolto dalla psicologia sociale, dalle frange “psicodinamiche” degli studiosi di teoria dell’organizzazione, e dalla psichiatria di comunità.

In sintesi potremmo dire che le funzioni basilari del gruppo di lavoro sono sostanzialmente due: quella di svolgere il compito pratico per cui è stato costituito e quella di gestire la vita emotiva del gruppo in modo tale da favorire la cooperazione tra i membri.

La seconda funzione ci riporta a contatto con la dimensione dei sentimenti e dei processi istintuali, ma ciò non significa che il discorso sia virato sul gruppo emozionale o sugli assunti di base. L’equivoco sta, come già si è detto, nel pensare al gruppo di lavoro bioniano in termini esclusivamente coscienti, realistici e razionali; così come l’Io, che pure rappresenta nella vita mentale dell’individuo l’istanza di governo e il negoziatore con la realtà, ha le sue radici profondamente immerse nella matrice pulsionale ed è esso stesso in buona parte inconscio, analogamente anche il gruppo di lavoro (diversamente dal team!) presenta inevitabili aspetti affettivi ed inconsci, il cui ruolo positivo per le relazioni e la performance attende ancora di essere sottoposto ad indagini sistematiche.

David Armstrong in un lavoro recente (Armstrong 2003) ha aperto un primo varco a queste indagini: riprendendo le formulazioni bioniane sul gruppo di lavoro egli sottolinea il carattere pulsionale e perciò emozionale ed inconscio della “spinta allo sviluppo” che presiede al suo funzionamento, e cerca di dar forma agli aspetti penosi impliciti nel lavoro e nell’apprendimento che questo comporta, ricordando come la tensione creativa del gruppo di lavoro sia sempre a rischio di essere sovvertita dagli assunti di base e dalla loro capacità di evitare alle persone l’ansia e la fatica della crescita. In questo senso potremmo dire che il “gruppo di lavoro” come funzione mentale del gruppo e non in quanto oggetto sociale reale rappresenta per l’organizzazione la radice emozionale della leadership razionale e orientata al compito.

Leadership, autorità e meccanismi decisionali
L’esplorazione del gruppo di lavoro non può disgiungersi dalla questione della leadership e questa a sua volta chiama in causa il ruolo del conflitto dipendenza/autonomia nel determinare la cultura organizzativa in cui il gruppo di lavoro si muove e si radica. Entrambe le questioni sono analizzabili da varie angolature, psicodinamiche, psicosociali, politiche; quella che propongo parte dalla dinamica dei meccanismi decisionali e del conferimento dell’autorità.

Il modo come un gruppo prende le sue decisioni dice molte cose sui valori espliciti a cui vuole ispirarsi e sulle fantasie inconsce che di fatto lo influenzano. In linea di principio un’organizzazione democratica dovrebbe istituire processi decisionali di tipo assembleare, ossia con ampia partecipazione da parte di tutti i membri dell’organizzazione. Sfortunatamente l’esperienza dimostra che le assemblee, ossia i grandi gruppi, non riescono a decidere quasi su nulla. I loro sforzi tendono a disperdersi in un dibattito circolare senza fine che spesso termina per sfinimento dei partecipanti.

Quando una decisione emerge di solito si rivela una pseudo-decisione per una serie di motivi:

1. non è sostenuta da sufficiente autorità (l’autorità è altrove) ed è quindi suscettibile di venire subito disattesa;
2. è una semplice ratifica di decisioni già prese in altre sedi;
3. è formulata in termini troppo generici, allo scopo di guadagnare l’unanimità e una coesione “ecumenica” destinate a sfaldarsi appena si precisano i dettagli ed emergono le differenze;
4. si mette al servizio delle difese istituzionali, come l’impulsività della decisione che esonera dalla fatica di riflettere e negoziare, o la dispersione della responsabilità, che porta il gruppo a dire “si è decisa la tal cosa” senza chiarire il ruolo personale giocato dagli individui.

L’equivoco è pensare che possa esservi democrazia senza leadership, laddove l’assemblearismo rischia in realtà di allevare leader occulti, paternalistici o manipolativi, mentre la visibilità della leadership e la chiarezza della struttura dell’autorità sembrano ancora il modo migliore per governare un gruppo di lavoro evitando gli opposti pericoli dell’autoritarismo e della demagogia.

Anche gli strumenti della democrazia politica non è poi detto che si adattino a tutti i gruppi di lavoro. Il metodo della votazione, ad esempio, se può essere appropriato per scegliere una persona con compiti di rappresentanza, può rivelarsi un pessimo modo di prendere decisioni di natura più “clinica” come la dimissione di un paziente o la scelta dell’operatore di riferimento. Infatti da un lato la maggioranza potrebbe far pesare sulla decisione fantasie e pregiudizi difensivi o anti-terapeutici, dall’altro la minoranza potrebbe essere portatrice di idee nuove o di visuali non-convenzionali che sarebbe negativo ignorare solo perchè elettoralmente perdenti.

A questo tema dell’autorità decisionale è strettamente legato quello della dipendenza. Le relazioni di gruppo e quelle capi-collaboratori sono inclini a sviluppare una cultura della dipendenza (Miller 1993), in base alla quale i dirigenti sanno sempre più dei subordinati e questi ultimi hanno costantemente bisogno dei primi del loro sostegno e della loro autorizzazione per svolgere il proprio ruolo: una divisione di ruoli fondata sullo splitting verticale tra bisogni e capacità, vistosamente costruita sulla falsariga della relazione genitore-bambino e non molto diversa da quella che separa nettamente i pazienti dagli operatori. Questa cultura, centrata sulla dinamica dominanza/sottomissione, sostiene una struttura d’autorità basata sulla posizione e sulla gerarchia, che ostacola lo sviluppo e l’apprendimento di tutti i membri dell’organizzazione, dei collaboratori quanto degli stessi capi, e ne mutila le capacità innovative.

La cultura contrapposta, quella dell’autonomia o, meglio, dell’interdipendenza, sostiene invece una struttura d’autorità basata sulla competenza e quindi mobile e migratoria attraverso ruoli e posizioni differenti. Naturalmente la leadership basata sull’autorità di posizione sente come una minaccia l’autorità basata sulla competenza e tende a trattare ogni movimento di autonomia dei collaboratori come un atto di insubordinazione. Inoltre per conservare gli equilibri gerarchici alimenta il mito organizzativo secondo il quale la posizione coincide con la competenza e non si può nemmeno concepire che un subordinato abbia qualcosa di nuovo da insegnare o qualcosa di utile da offrire.

Le radici emozionali della leadership
La leadership svolge nei confronti del gruppo e dell’organizzazione una funzione press’a poco sovrapponibile a quella esercitata dall’Io nella vita mentale dell’individuo.

Le funzioni principali di queste istanze “egoiche” sono sostanzialmente :
– la gestione dell’identità (Sè, appartenenza al gruppo, membership dell’organizzazione)
– la regolazione e il controllo (autocontrollo, norme e leggi, controllo di gestione)
– la memoria (storia individuale, gruppale, istituzionale, preservazione del passato)
– il rapporto con la realtà esterna (esame di realtà, scambi e negoziati con l’ambiente, contatto con il compito attuale e con il tempo presente)
– la relazione interpersonale (relazioni oggettuali, relatedness, relazioni di ruolo)
– l’appagamento (parziale) dei bisogni pulsionali (Es. bisogni emotivi del gruppo, sicurezza)
– la difesa e il contenimento dell’ansia (difese psicologiche e sociali)
– il trattamento dell’informazione (mappe e modelli cognitivi, comunicazione istituzionale)
– la spinta alla conoscenza e al cambiamento (pulsione epistemofilica, lavoro di gruppo, knowledge management, gestione dell’innovazione, visione del futuro)

“La Leadership si presenta… come una funzione complessa…. Anche per la leadership è caduta la centralità di un qualche punto base, fondamentale e irrinunciabile, cui ricondurre in ogni caso l’organizzazione del sapere. Scomparsa dunque la centralità di un qualche Principio d’Autorità, di qualche Divinità (mono – o politeistica), della Ragione, dell’Idea, della Materia, dell’Inconscio… la caduta dell’idea stessa di un “centro” tende a dar luogo a modelli molteplici per la comprensione del fenomeno”. (Trentini, 1997)

La natura poliedrica della leadership permette di guardare ad essa non solo come una funzione razionale, cosciente e orientata al compito del gruppo o dell’organizzazione. Proprio come l’Io individuale emerge al pari dell’Es da una matrice indifferenziata di tipo pulsionale (Hartmann 1964) così la leadership gruppale, istituzionale prende forma incorporando accanto alle componenti razionali e visibili una grande varietà di elementi irrazionali, emotivi e nascosti sotto la soglia della coscienza collettiva e dietro la facciata della struttura organizzativa.

Le grandi passioni e le innumerevoli grandi e piccole tragedie che si muovono nella vita istituzionale attorno alle vicende del comando, dell’autorità e del potere dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, quanto potenti e a volte devastanti possano essere gli affetti primitivi che vi sono coinvolti. Di qui la possibilità di considerare le radici emozionali della leadership come una singola faccia del poliedro, anzichè una “teoria psicologica” della leadership.

Lo scenario familiare come matrice dell’autorità e della leadership
La leadership, la guida del gruppo nasce è abbastanza ovvio nello scenario familiare. La riflessione sociopsicologica e quella psicoanalitica hanno esplorato abbastanza a fondo le qualità delle funzioni parentali alla luce dell’autorità esercitata per il compito educativo, delle interazioni di coppia, del dialogo/confronto tra i codici materno e paterno, del rapporto tra affetti arcaici, potestà genitoriale e funzioni normative (rimando in particolare ai concetti lacaniani di Legge e di “Nome del Padre”).

Se consideriamo il gruppo familiare come proto-organizzazione possiamo riconoscere che nel suo ciclo di vita esso va incontro a una transizione dalla leadership materna dell’universo fusionale della prima infanzia (con il padre presente nella mente della madre o altre volte escluso o assente) alla leadership paterna della frattura simbiotica e delle relazioni con il mondo esterno e poi a una leadership condivisa, concertativa, negoziale o conflittuale, che coinvolge alternativamente la coppia genitoriale o la coppia genitori-figli.

La qualità originaria della leadership è di natura libidica, nel senso che è sostenuta dall’interesse affettivo e sessuale tra i vari membri del gruppo. L’autorità di ruolo è funzione dei processi di attaccamento Bion parlerebbe di leadership dell’assunto di base di dipendenza ed i bisogni primari che chiedono di essere appagati sono l’identità, la sicurezza e l’amore. Le trasgressioni alle norme del gruppo familiare sono sanzionate con la loro perdita (o con la minaccia della perdita). La gerarchia dei ruoli familiari è fortemente legata alla sfera sessuale.

Tralasciando le questioni complesse della parità/disparità di genere e della distribuzione delle valenze libidiche ed aggressive tra le figure parentali, non c’è dubbio che le prime e più evidenti disuguaglianze di posizione siano di natura sessuale: nella scena primaria i genitori fanno l’amore e i bambini “fanno anticamera” fuori della porta chiusa della loro stanza. L’onnipotenza psicologica infantile fa da contraltare all’ “impotenza genitale” e l’invidia per il potere e la libertà degli adulti è direttamente connessa con gli aspetti reali e simbolici della capacità sessuale e del diritto ad esercitarla. Il transito puberale e la maggiore età legano sempre più intimamente autorità e genitalità, aprendo il fronte complesso dei cambiamenti “politici” imposti dal processo adolescenziale, che vanno dall’emancipazione psicosessuale dalla famiglia al superamento del dilemma edipico, dove l’aumento della potenza pulsionale dei figli pone al gruppo familiare inedite esigenze di controllo del comportamento e di regolamentazione dei ruoli.

Non occorre un grande sforzo di immaginazione per riconoscere nella vita delle organizzazioni le tracce visibili delle vicende e dei paradigmi di autorità e leadership generatisi nella matrice familiare.

Il contrasto tra leadership paterna e leadership materna è ricalcato nelle differenze dei modelli organizzativi dell’impresa e dell’ente pubblico. Il rapporto capi-collaboratori ripete molte delle vicissitudini che mettono a confronto l’autorità parentale e la responsabilità filiale. L’assunzione di ruoli direttivi comporta, oltre al conferimento di autorità dal vertice e l’accettazione da parte della base, un complesso negoziato interiore che la teorizzazione del Tavistock chiama “l’autorizzazione dall’interno” (“authority from within”, Obholzer 1994) e che coinvolge la qualità degli oggetti interni (soprattutto le imago parentali), la presenza di un SuperIo depulsionalizzato e non troppo sadico, l’autostima, l’equipaggiamento libidico e l’equilibrio narcisistico che sono venuti evolvendo nello scenario familiare.

Molti problemi dell’esercizio della leadership come ha ben documentato Manfred Kets de Vries nelle sue numerose psicobiografie di capi e top manager hanno la loro origine nei primi conflitti familiari. (Kets de Vries 1984, 1989, 1993, 1999, 2001 …)

I leader freddi e alessitimici che sono stati bambini “non visti”, i narcisisti affamati di protagonismo che vorrebbero continuare ad essere figli unici dell’organizzazione, i dirigenti affetti fin da piccoli da cronica invidia distruttiva o autodistruttiva (“Aut Caesar aut nullus”), le gelosie e le rivalità per il posto di figlio “prediletto” dall’istituzione-madre, la qualità arcaica degli affetti coinvolti nella sanzione delle trasgressioni, dal livello “evoluto” della colpa e dell’autoaccusa alle esperienze sempre più regressive dell’angoscia di castrazione, della perdita d’amore e di approvazione, dell’abbandono e persino dell’annientamento; qualità arcaica che l’amplificatore istituzionale può rendere terrificante e talvolta trasformare in pericoli concreti e reali.

L’amore per il capo e l’idealizzazione del capo: leadership e vicissitudini della libido
In Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) Freud affronta in modo abbastanza innovativo il problema della leadership e delle dinamiche implicite nella relazione di una massa con il proprio capo. Egli assume che la funzione del leader di una massa sia quella di sostituirsi all’ideale dell’Io degli individui che la compongono. La massa delega così al capo non solo la funzione di guida ma anche la capacità di pensare. A ridosso di questa concezione, che si basa sull’amore per la figura idealizzata del capo, Freud colloca la sua fantasiosa teoria dell’orda primitiva, ossia del legame originario tra i fratelli in antagonismo verso il padre, contribuendo ad una prima sistemazione delle complesse relazioni tra rivalità, invidia e leadership, che acquisteranno poi grande rilevanza nelle teorizzazioni di una più “matura” psicologia dinamica dell’organizzazione.

L’amore per il capo e la sua idealizzazione riflettono non solo i bisogni di dipendenza del gruppo ma la natura profondamente sessualizzata della leadership. Dai detti popolari (“cumannari è megghiu che fùttiri”, dicono in Sicilia) alle icone mediatiche correnti l’intreccio tra sesso e potere è così pervasivo da giustificare l’ipotesi che la leadership consista primariamente nell’impiego sublimato di energie libidiche messe al servizio di obiettivi collettivi e/o personali. Naturalmente il potere è anche un’arma di seduzione ed è quindi sempre possibile che la funzione “nobile” e generativa della leadership si degradi a mero strumento di conquiste erotiche; ma esiste anche una seduzione del potere che può assicurare a un leader frustrato e perverso l’esperienza di un dominio sessualizzato sui collaboratori, del piacere di sottometterli e strumentalizzarli, del bisogno di controllarli sadicamente o di governarli con il terrore.

Il modello manageriale corrente si basa soprattutto sui codici della sessualità maschile, anche quando ad esercitarlo siano delle donne. Molte strategie “hard” di riorganizzazione aziendale o di fusione e acquisizione utilizzano concetti, linguaggi, pregiudizi e culture di lavoro di evidente origine sessuale e di taglio decisamente maschilista, tanto che si è coniata per descriverle l’espressione “macho management”. Il fatto che nella grande maggioranza dei casi queste politiche non raggiungano gli obiettivi desiderati fa pensare che la libido del sistema sia orientata più sul versante fallico-narcisistico che su quello generativo.

Infine la competizione, sia che si svolga tra i membri che si confrontano in un gruppo sia tra istituzioni o aziende concorrenti che lottano per un mercato, non può essere disgiunta dai suoi significati simbolici fortemente ancorati alle diverse forme della rivalità amorosa, da quella dei fratelli per le attenzioni materne alla conflittualità edipica; fino alle estreme propaggini di quest’ultima, che nutrono l’invidia dei padri (e delle madri) per il fiorire dei figli, l’angoscia di invecchiare e diventare obsoleti e l’aggrapparsi al potere come espressioni della paura del declino sessuale, dell’impotenza “dirigendi” e della morte, prima quella del ruolo organizzativo e poi quella personale.

Naturalmente anche nella concettualizzazione della leadership come nella vita psichica dell’individuo non è possibile tenere una netta distinzione tra le componenti libidiche e quelle aggressive. Odio, invidia e violenza sono parte del suo universo emozionale non meno dell’amore, del desiderio e della dedizione, mentre i sentimenti di gelosia, possessività e rivalità si collocano in un certo senso a ponte tra le due dimensioni. Diventa quindi inevitabile per un leader acquisire alcune speciali “competenze”, come quelle richieste dalla gestione della propria e altrui rivalità (sia quella edipica che quella fraterna), gelosia ed invidia, dalla regolazione dei bisogni affettivi in conflitto col compito (come l’esigenza di essere amati o approvati), dall’esercizio non sadico del potere di controllare e punire, dalla necessità di tollerare l’odio e la solitudine a cui sono esposte le funzioni direttive, dalla necessità di affrontare l’ambivalenza dei sottoposti ed il loro bisogno di dipendere da capi onnipotenti e infallibili.

In particolare il monitoraggio dell’invidia penso che sia tra i compiti più delicati e cruciali della leadership. Da un lato occorre riconoscere e tollerare quella quota di “invidia non distruttiva” (per riprendere un’espressione di Betty Joseph), capace di promuovere emulazione e tensione verso lo sviluppo, e di distinguerla dalle forme distruttive che possono sferrare un attacco letale al pensiero, ai buoni oggetti ed alle qualità creative di un gruppo o di un’organizzazione. Un problema centrale per la leadership è come imparare a non suscitare invidia, sia nei superiori che nei colleghi, collaboratori e subordinati. Più complesso e difficile è il compito di gestire la propria, soprattutto nelle situazioni istituzionali in cui si ripropongono le asprezze del confronto generazionale o la questione del ricambio alla guida dell’organizzazione.

In questi contesti dilagano le conflittualità di marca edipica e il fantasma del parricidio, innescando spirali di ostilità e nei leader tipicamente la diffidenza verso i follower, la negazione del tempo che passa e della necessità del cambiamento, l’incapacità di ritirarsi o di favorire la successione. Il dramma edipico va dunque riletto al contrario: il fantasma originario è semmai quello del figlicidio, e l’invidia omicida di Laio verso il figlio che gli ruberà la donna e il potere prende corpo molto prima che Edipo lo sfidi e lo uccida.

Vorrei fare almeno un accenno al tema del nesso tra leadership e narcisismo, che a dire il vero meriterebbe un intero volume. La prima e più evidente retribuzione del comando è la gratificazione narcisistica che deriva dal sentimento di potenza e dalla dimostrazione di essere in grado di influenzare il comportamento degli altri. Possiamo azzardare l’ipotesi confermata da molte evidenze che senza un rilevante investimento narcisistico del Sè non sia possibile esercitare una leadership efficace. Ma qui entriamo in un’area confusa, dove i termini possono facilmente fuorviarci: intanto il narcisismo può essere vitale, sano e costruttivo oppure distruttivo e mortifero (cfr. Rosenfeld 1964, 1971; Kernberg 1975; Green 1982); inoltre il linguaggio corrente tende a confondere i comportamenti narcisistici con le personalità narcisistiche e con le patologie narcisistiche, evocando l’idea di un sovradimensionamento del Sè quando sarebbe più appropriato parlare di un Sè lesionato e di un narcisismo debole o ferito. In questo senso l’arroganza del potere e la leadership megalomanica potrebbero essere viste non tanto come espressioni di grandiosità (Kohut ), ma piuttosto come forme di automedicazione delle antiche ferite e mortificazioni narcisistiche.

Da questo punto di vista la leadership narcisistica, così gettonata e ricercata dalle imprese, si rivela certamente efficace a breve termine e fintantochè gli obiettivi dell’organizzazione sono allineati agli interessi personali, ma tende a diventare sleale ed egocentrica non appena si dissolvono i tenui legami di un’identificazione adesiva ed instabile con il ruolo esercitato.

I leader narcisistici sono non di rado la rovina della loro organizzazione e la fonte incessante di conflitti e disagi di ogni genere per i suoi membri, perchè sono orientati a se stessi invece che al compito primario, sono incapaci di accettare ed elaborare le critiche e i dissensi, hanno un estremo bisogno di amore ed approvazione, non sopportano la colpa, la frustrazione e l’insuccesso, che sistematicamente scaricano sulle spalle altrui, e possono usare ogni mezzo difensivo dalla scissione alla proiezione, dalla riparazione maniacale alle condotte perverse o delinquenziali per salvare la faccia e l’immagine falsificata che hanno di sè e della realtà.

All’estremo di questa scala sta il ricorso a difese disumanizzanti di marca autistica o borderline, che producono una leadership “serenamente” frammentata e incoerente, dove l’evitamento dell’ansia è ottenuto con l’ “amputazione” della vita emozionale e la perdita del contatto con le persone e con la realtà: frutto di questo processo è il leader-automa o “alessitimico”, così vividamente descritto da Kets de Vries (1993).

Leader e capi: dal comando alla guida
Nella nostra cultura l’idea della leadership è legata indissolubilmente alla figura del capo e al al concetto di comando.

La funzione del capo (“headship”) è chiaramente incardinata nella dimensione insieme operativa e gerarchica del “dare ordini”, nel potere di influenzamento e di controllo, nell’adesione manageriale alla mission e nella richiesta di obbedienza da parte dei subordinati. Il suo paradigma è l’azione in vista di un risultato. Il modello più tipico è quello dell’istituzione militare.

Il clima organizzativo può essere più o meno autoritario, ma la componente energetica che sostiene la funzione direttiva è comunque prevalentemente nel perimetro del potere e della coercizione (e in definitiva della paura). L’icona del comando al suo grado estremo è Stalin, ovvero il sacrificio dei membri per sostenere l’autorità del capo.

Nel mondo anglosassone, dove certo non mancano i capi, si è sviluppata in modo più articolato la cultura della leadership, che condivide con la headship molti elementi strutturali e funzionali, ma se ne discosta e la supera in due diverse direzioni:

a) in quanto guida (è la traduzione etimologica del termine leader) di persone, processi e idee, non può certo limitarsi a dare ordini, attuare controlli o esercitare pressioni, ma è costretta a elaborare visioni e scenari futuri e a renderli plausibili e desiderabili per gli altri membri dell’organizzazione; inoltre, avendo bisogno di un seguito (followership) che l’aiuti a realizzare il suo disegno, deve sforzarsi di riconoscere e interpretare i loro bisogni anche nel caso in cui non sia in grado di appagarli.
b) in quanto funzione piuttosto che posizione organizzativa non si identifica necessariamente con il capo, nè con una sola persona o una specifica competenza ma può migrare, essere condivisa, appartenere a un gruppo e cambiare a seconda delle circostanze (c.d. leadership situazionale)

Il suo paradigma è la vision e la capacità di trasmetterla agli altri. Il modello più tipico è quello dei movimenti politici di riforma o di rinnovamento sociale. Il clima organizzativo tende ad essere più partecipativo che autoritario e lo stile della leadership più “quieto” (Badaracco 2002) e nascosto, a piccoli passi e motivante piuttosto che trascinatore, eroico e rivoluzionario. L’icona della guida al suo grado estremo è Mosè, ovvero il sacrificio delle aspirazioni personali per sostenere la missione e la capacità dei membri di realizzarla.

In questo senso idealmente la leadership confina con la genitorialità, sia nel senso che tenta di costruire un futuro non per sè ma per la generazione dei figli, sia per la sua “capacità di preoccuparsi” (Winnicott 1963) che rappresenta in certo qual modo la radice “materna” della responsabilità direttiva, ed anche per la disponibilità a lasciarsi usare come contenitore di proiezioni in grado di restituirle elaborate in termini di esperienza utilizzabile per orientare le strategie dell’organizzazione, attivando una sorta di “reverie” di sistema.

Poichè la leadership in definitiva è chiamata oggi soprattutto a promuovere il cambiamento, potremmo immaginare che svolga questo ruolo esercitando in primo luogo quella funzione di contenimento dell’ansia che le permetta di governare gli aspetti distruttivi o eversivi dell’innovazione, riducendo le resistenze al cambiamento e le angosce “catastrofiche” che le alimentano, e nello stesso tempo di preservare le nuove idee e la creatività.

Una leadership, come cercherò di illustrare nelle prossime pagine, in oscillazione tra la dimensione del “genio” e quella dell’ “Establishment”. (Bion 1970)

Il problema della followership e il processo di delega
La funzione dei “seguaci” del leader e del loro ruolo organizzativo è quasi sconosciuta e assai poco valorizzata in Italia, almeno nella maggioranza delle organizzazioni sociali. La convinzione tacitamente condivisa sia ai vertici che alla base è che solo i capi o i leader abbiano dell’autorità e che le posizioni subordinate non contino nulla, sebbene l’esperienza offra continue dimostrazioni del contrario, come l’evidenza che senza un seguito i leader non vanno molto lontano o che i collaboratori sono in grado di impedire o sabotare la maggior parte delle politiche sostenute dai piani alti dell’organizzazione.

Diversamente che in quelli anglosassoni nel nostro Paese manca una cultura della followership, e sono largamente ignorate sia la sua preziosa funzione di “sanzionamento dal basso” dell’autorità del vertice (Obholzer 1994) sia la possibilità per il follower di esercitare un “quantum” di autorità nella gestione del proprio ruolo. Insomma, tutti generali e nessun soldato.

Tra le conseguenze di questo vuoto culturale possiamo collocare al primo posto il sovrainvestimento (e il sovraccarico di stress) del ruolo del leader, gratificato dalla propria onnipotenza ma stretto in condizioni tali da non poter mai essere aiutato o messo in discussione senza sentire minacciati sia la propria posizione sia il proprio equilibrio narcisistico. Per questo da noi è così cruciale conquistare una posizione di comando, ma una volta conquistata si cerca subito di sbarazzarsi del carico delle responsabilità sentite come esorbitanti e non delegabili.

Per decongestionare il ruolo della leadership e valorizzare quello della followership esiste un meccanismo istituzionale ben noto che è quello della delega. L’esercizio della delega è uno dei fattori più importanti sia dell’efficienza che della “democraticità” di una istituzione. Il processo avviene più o meno con queste tappe:

a) Il leader sempre che sia in grado di stare a contatto con la posizione depressiva e di diventare consapevole dei suoi limiti e dell’interdipendenza del suo ruolo si rende conto di non poter fare tutto da solo e di avere bisogno di altre persone per realizzare i suoi piani;
b) Il leader cede una parte della propria autorità ad uno o più collaboratori: la sua responsabilità si sostanzia nella scelta della persona e nella definizione dei limiti della delega conferita;
c) Il delegato se accetta la delega ha piena libertà e responsabilità decisionale entro i limiti che saranno stati definiti e deve essere dotato di tutta l’autorità e delle risorse necessarie per svolgere il suo compito (empowerment);
d) Il delegante esercita un controllo non sul processo (se non in modo molto leggero, a distanza e su richiesta) bensì sui risultati parziali e su quelli finali (outcome), adottando tempi e ritmi adeguati per non interferire nel lavoro del delegato e non trasformarsi in una revoca implicita del mandato. Lo sforzo principale del delegante è quello di tollerare l’ansia di restare per un certo tempo all’oscuro dell’andamento del processo, mantenendo la fiducia nella persona scelta. Lo sforzo principale del delegato è quello di tollerare l’ansia di una nuova responsabilità rinunciando per un certo tempo alla dipendenza dal leader e dai suoi consigli, e mantenendo la fiducia nelle proprie capacità.
e) Il controllo di esito rispetto agli obiettivi intermedi si traduce in una conferma della delega o nel suo ritiro, rispetto al risultato finale dà la misura del successo o del fallimento del meccanismo di delega o dei criteri di scelta delle persone.
f) La chiarezza nel processo di delega è cruciale per il suo successo; deleghe ambigue, con obiettivi e confini imprecisi o senza adeguate autorizzazioni, sono destinate a fallire e forse si proponevano proprio questo esito perchè conferite all’interno di relazioni e vissuti ambivalenti.

Inutile dire che anche in questo contesto la nostra cultura nazionale non brilla per efficienza e consapevolezza; i nostri leader delegano raramente e tra mille ambiguità il loro potere, forse dominati dalla fantasia che i collaboratori non aspettino altro che l’occasione per portarglielo via.

Sulle funzioni e sui costi emotivi della leadership
Fiumi di pagine sono state scritte intorno alla leadership nei gruppi e nelle organizzazioni, alle loro funzioni, alle varie tipologie ed i diversi stili ed al loro impatto sul clima e sul funzionamento organizzativo.

Una recente teorizzazione di matrice aziendale precisa con chiarezza che la leadership non si sostanzia nel comando e non è un dono di natura ma riposa su abilità e competenze che possono essere apprese e che sono in larga misura di tipo relazionale.

“Una persona che riveste il ruolo formale di leader può non possedere le abilità necessarie per la leadership e non essere capace di dirigere.
La leadership è essenzialmente legata alle abilità, alle competenze e al grado di influenza di una persona (…)”.

Dirigere è il risultato dell’uso che si fa del proprio ruolo e delle proprie capacità di leadership per influenzare gli altri in qualche modo. I veri leader non sono i “capi” o i “comandanti”. Più che dal potere la vera leadership scaturisce dall’influenza, dalla coerenza e dall’integrità. I leader di successo sono impegnati a “creare un mondo a cui le persone vogliano appartenere”. La leadership di successo implica la gestione delle relazioni e la capacità di comunicazione all’interno di un gruppo per muoversi verso un fine specifico. Leadership è essere in grado di “esprimere una visione, influenzare gli altri per ottenere un risultato, incoraggiare la cooperazione di gruppo e rappresentare un esempio (…)”.

Leadership non è sinonimo di management. Management vuol dire “far sì che le cose vengano fatte dagli altri”; leadership significa “far sì che gli altri vogliano fare quelle cose”. (Isvor-Dilts Leadership Systems, 2003)

Questa concezione, pur essendo “tagliata” sulle esigenze della cultura d’impresa e derivata da modelli teorici più vicini alla PNL che al punto di vista psicoanalitico, riconosce quattro diverse dimensioni funzionali che mi pare interessante tentare di trasferire alla dinamica della leadership nel grande gruppo e in una certa misura anche del piccolo gruppo:

1. Stretching (lett. “tendere, stirare”)
E’ la capacità di sfidare le abitudini di un gruppo e di assumere dei rischi. Implica il saper creare situazioni di sfida, di fare pressione, di spingere a fare di più e ad andare oltre. Lo “stretching” è necessario per promuovere il cambiamento e ottenere risultati.
2. Empowering (lett. “potenziare”)
E’ la capacità di aiutare gli altri a raggiungere il loro potenziale individuale per realizzare un comportamento organizzativo più efficace. Richiede il saper favorire condizioni che permettano alle persone di esprimersi più compiutamente, riconoscendo il valore del loro lavoro e stimolandone la crescita personale e professionale ed anche l’autostima. L’ “empowering” è necessario per ottenere risultati e per promuovere lo sviluppo delle persone.
3. Coaching (lett. “allenare”)
E’ la capacità di essere una guida e un formatore. Si basa sulla capacità di rispettare le persone e di ascoltarle con attenzione, disponibilità e considerazione. Richiede il riconoscimento del potenziale individuale e l’assunzione della responsabilità di sviluppare questo patrimonio di competenze per poter cogliere il potenziale sottoutilizzato. Il “coaching” è essenziale per promuovere lo sviluppo delle persone e realizzare valori.
4. Sharing (lett. “condividere”)
E’ la capacità di scambiare informazioni e conoscenze. Implica il saper coinvolgere le persone rispetto agli obiettivi, facendole partecipare agli incontri dove si scambiano idee e informazioni, allo scopo di ottenere una vera collaborazione, di agevolare l’accesso alle risorse e di riconoscere che queste devono essere a disposizione di tutti. Lo “sharing” è essenziale per realizzare valori e promuovere il cambiamento. (ibidem)

In termini più “psicodinamici” possiamo agevolmente riconoscere tra le righe di queste descrizioni molte delle competenze emotive che sono richieste alla leadership quando deve confrontarsi con i processi relazionali che si attivano nei gruppi di lavoro.

Alcune funzioni hanno delle inevitabili valenze aggressive. Lo stretching rappresenta il volto meno benevolo della leadership perchè include dare compiti e richiamare responsabilità, gestire i confini e le regole, controllare il comportamento e a volte criticarlo o sanzionarlo, confrontare con la realtà, frustrare desideri e arginare l’acting out. E’ una funzione facilmente detestata (spesso anche da chi la esercita), che può esporre il leader a sentimenti di ansia, colpa e solitudine.

I leader deboli, incapaci, ambigui o contraddittori spesso lo sono perchè cercano di sottrarsi a questi costi emotivi, all’amaro calice della leadership, alle sue necessarie qualità “impopolari”.

L’ empowering invece sembra oggi un’attività alquanto popolare, come testimonia ad esempio la diffusione del termine “empowerment” in tutte le culture di lavoro, persino nel volontariato e nelle associazioni religiose. Fornire opportunità di esperienza, delegare responsabilità e incoraggiare l’iniziativa e l’autonomia si presentano come funzioni “forti” ma costruttive, dal volto paterno e visibilmente orientate alla crescita. Sfortunatamente la realtà dei fatti è molto meno solare e, come ho accennato nel paragrafo precedente, la debolezza dell’immagine culturale della followership, la diffidenza e la gelosia accentratrice dei capi e la complessità del processo di delega non incoraggiano un modello di leadership basato sul potenziamento dei collaboratori.

La funzione del coaching può essere molto gratificante per un leader perchè lo colloca nel ruolo di “maestro” e gli permette di operare all’interno del codice materno, ossia di nutrire e allevare altre persone (i “bambini dell’organizzazione”), di sentirsi accogliente, generoso e ammirato, di ricevere attestati di valore e di gratitudine. Tuttavia non può sfuggire come questo ruolo sia esposto agli stessi pericoli che minacciano la funzione materna: le innumerevoli trappole della seduzione, le resistenze alla separazione e all’autonomia, la gelosia possessiva, la creazione di “pupilli” a propria immagine e somiglianza, la tentazione di controllare le persone facendo appello ai sentimenti o ai ricatti affettivi.

La stessa attività più “rispettosa” e meno direttiva del dare consigli o suggerimenti può ergersi come un ostacolo potente alla crescita di un gruppo e degli individui che ne fanno parte. Inoltre, poichè il coaching implica il contenimento dell’ansia, il supporto e l’orientamento in vista di un aumento della consapevolezza funzioni che condivide con l’interpretazione psicoanalitica non pare superfluo l’ammonimento sui rischi che ogni leader può correre di scivolare dal ruolo di guida a quello di terapeuta.

Sharing vuol dire, come si è visto, condividere conoscenze e informazioni, fornire occasioni di chiarificazione e confronto, promuovere interazioni e una comunicazione aperta. A prima vista non sembrerebbe un compito difficile, specie se paragonato ai precedenti. In realtà la condivisione delle informazioni e delle conoscenze è uno dei più difficili “sacrifici” che possano essere chiesti a un leader, perchè il suo potere si fonda in larga misura sul possesso e sul controllo esclusivo proprio delle informazioni e del know-how.

Inoltre la comunicazione aperta, che in sè tenderemmo naturalmente ad associare ad un clima di fiducia, implica inevitabilmente la circolazione elle critiche e il riconoscimento degli errori e quindi la necessità di affrontare la tormentata gestione dei sentimenti di accusa e di colpa, inclusi quelli che riguardano i capi e che perciò chiamano in gioco la paura della loro collera e delle possibili ritorsioni.

Ma c’è di più. Per il leader di un gruppo condividere può anche voler dire comunicare i propri vissuti e sentimenti, se pensa che possano aiutare il gruppo a raggiungere meglio le sue finalità. Questo compito, che ha più di un punto di contatto con l’uso del controtransfert nel trattamento analitico, rappresenta a mio avviso il punto più alto delle competenze emotive della leadership, là dove si integrano funzioni psichiche sofisticate come quelle che Winnicott ha riassunto nel termine holding e Bion nei concetti di reverie, funzione alfa e trasformazione in “O” (vedi oltre).

Il punto che ho cercato di mettere a fuoco è in sostanza che l’esercizio della leadership può essere emotivamente molto costoso, per motivi che vanno spesso ben al di là delle prevedibili tensioni legate alle lotte di potere e al carico delle responsabilità. Oltre al carico emozionale collegato con le funzioni sopra descritte dobbiamo mettere in conto da un lato la scarsa disponibilità di tutte le culture organizzative (comprese quelle del welfare e dei servizi alla persona) ad accettare la dimensione affettiva e irrazionale del lavoro.

Le organizzazioni tendono infatti a considerare le emozioni dei loro membri e in primo luogo quelle dei leader come un dato trascurabile o, peggio, un materiale inquinante o un problema personale, invece di considerarle come elementi fondamentali del sistema la cui attenta gestione, certamente complicata e faticosa, può rappresentare un asset, una preziosa risorsa organizzativa utilizzabile per riorientare le strategie, misurare i climi organizzativi e aiutare le persone a vivere meglio e più efficacemente il loro ruolo lavorativo.

Ma nonostante il popolare libro di Goleman sull’ “intelligenza emozionale” (Goleman) e gli acuti stimoli offerti dalle ricerche del Tavistock sull’ “intelligenza delle emozioni” (Armstrong 2004), il mondo del lavoro continua a temere e ad ignorare le sue zone d’ombra mantenendo viva l’illusione della razionalità dell’organizzazione. Privi di una griglia che ne permetta la mentalizzazione gli aspetti emotivi più arcaici circolano liberamente nelle relazioni di lavoro producendo ansia e sofferenza e minando l’efficienza dei gruppi e delle organizzazioni. I loro effetti sono rubricati come stress e la loro “gestione” è lasciata all’improvvisazione e al “fai-da-te” dei membri e dei leader, sempre che l’ansia non prenda forme eruttive sfuggendo ad ogni controllo e generando uno dei tanti far west aziendali a cui ci stiamo fin troppo abituando.

Stretti tra i problemi di ruolo (l’ansia del rischio, l’incertezza crescente del mondo globalizzato, la velocità dei cambiamenti, la paura di diventare obsoleti e di perdere la posizione) e le ansie relazionali connesse con le problematiche dell’invidia, della gelosia e della rivalità, con l’ostilità o l’adulazione dei collaboratori, con le tentazioni del narcisismo e i vicoli ciechi della demoralizzazione, i leader contemporanei “sufficientemente buoni” sembrano sempre meno eroi alla “Braveheart” e sempre più spesso tessitori pazienti capaci di mantenere il senso di responsabilità e la capacità di prendere decisioni in contesti liquidi, ambigui e imprevedibili. Per mantenere questa capacità che avvicinerei alle formulazioni di Bion sulla “pazienza” e sulla “capacità negativa” sono necessarie due condizioni: la prima è che venga offerta alla leadership una definita e stabile consulenza di supporto al ruolo, non tanto per il rinforzo delle capacità di problem-solving ma semmai per lo sviluppo della sensibilità (awareness) e della capacità di fronteggiamento (coping) delle emozioni proprie ed altrui. La seconda è che i leader riconoscano questo bisogno d’aiuto e lo accettino senza sentirsene narcisisticamente mortificati.

I problemi della leadership e il loro impatto istituzionale
Tra le cause più frequenti della degenerazione del clima organizzativo sono la perdita del leader, specie se carismatico, e la presenza di leader deboli, corrotti o patologici. In particolare i leader con seri problemi narcisistici o tratti di personalità marcatamente paranoidi possono trasformare il luogo di lavoro in un vero inferno.
Non intendo addentrarmi in un’analisi dei rapporti tra leadership e struttura di personalità del leader. In questo campo autori come Miller, Rice, Kernberg, Kets de Vries, Gabriel, Hirschhorn, Eisold, E.B.Klein, Allcorn, Krantz, Gilmore, Levinson, Zaleznik, Hunt, Obholzer, Gould, French e Long per citare solo i principali rappresentanti del punto di vista psicoanalitico hanno offerto una messe più che esauriente di contributi e di ipotesi di lavoro.
Vorrei solo fare un accenno alla leadership carismatica perchè presenta alcuni aspetti che seguendo ancora Bion chiamerei “mistici” e che cercherò di approfondire nelle pagine che seguono alla luce di una riflessione su un tema che mi pare cruciale: la potenziale pericolosità del leader per la propria organizzazione.

La leadership carismatica viene solitamente contrapposta alla leadership tradizionale (orientata al mantenimento delle consuetudini e dei valori esistenti, basata sull’ “autorità di posizione” e scarsamente innovativa) e a quella burocratica (orientata al rispetto delle regole e delle procedure, basata sull’autorità legale-razionale, sui valori affermati dalla legge, e sull’efficienza delle routines).

La leadership carismatica si caratterizza per una forte carica innovativa e senso della “missione”, per la personalità “magnetica” e trascinante del leader e per la presenza di situazioni sociali, culturali e politiche favorevoli alla sua affermazione (es. emergenza di valori nuovi, carenze o crisi avvertite diffusamente come esigenze di cambiamento etc.)
Questo genere di leadership è necessario per la fondazione di un’organizzazione, un movimento di pensiero, una nuova conoscenza, ma l’esperienza dimostra che spesso si rivela inadatta al suo mantenimento e al suo sviluppo per i molti rischi che può presentare:
a) estremismo ideologico
b) reclutamento del carisma per scopi distruttivi, di potere o personalistici
c) paternalismo come corruzione del clima democratico
d) conservatorismo e possessività nei confronti della missione e dei valori istituzionali sentiti come una creatura e una proprietà personale
e) creazione di un mondo magico e isolato dall’ambiente esterno
f) successione impossibile ed esaurimento della carica evolutiva dopo l’uscita di scena del leader-fondatore
g) concomitanza di aspetti patologici del leader (narcisismo, riparatività maniacale, paranoia)

A meno che il leader non sia capace di “distribuire” il suo carisma ai collaboratori e ai continuatori, come in qualche misura e con incerti esiti ha cercato di fare Maxwell Jones con la Comunità terapeutica, il problema che si pone è quello di una doppia transizione, assai simile a quella che devono affrontare le imprese familiari:
a) il ricambio generazionale, con il passaggio del testimone ai “figli”, l’accettazione della propria caducità e la tolleranza dell’ “esproprio” e del “tradimento”, cioè del fatto che i successori si impadroniranno dell’oggetto organizzativo e lo trasformeranno come credono, probabilmente abbandonando parte dei valori e della tradizione della fase fondativa;
b) la managerializzazione ossia il passaggio da una gestione ispirata e passionale, creata da un gruppo a forte impronta amicale o familiare, a una gestione più tecnica e impersonale, portata avanti da figure estranee o poco implicate nel mito delle origini.
Le difficoltà di questa transizione sono testimoniate dalla frequenza con cui tende a trasformarsi in una fase protratta di conflitto e di stagnazione e a comportare l’inevitabile parricidio, cioè l’estromissione traumatica del padre-fondatore.
Le questioni che ho tratteggiato mi permettono di introdurre il tema della potenziale distruttività e pericolosità della leadership, anche quando non sia nelle mani di una personalità patologica o delinquenziale.
Le mie riflessioni seguiranno la linea inaugurata da Bion con le sue teorizzazioni dei processi di gruppo in particolare i concetti di “leadership del gruppo in assunto di base”, e le osservazioni sul rapporto tra “mistico” e gruppo e tra “genio” ed Establishment.

Leadership tra genio ed Establishment
Nel formulare la sua teoria “binoculare” del funzionamento dei gruppi, oscillante tra la configurazione più orientata ai bisogni emotivi detta “assunto di base” e quella più orientata al compito detta “gruppo di lavoro”, Bion dedica una particolare attenzione all’emergere della leadership nelle diverse situazioni.

Il leader per Bion è essenzialmente una funzione del gruppo, che lo seleziona (e in un certo senso lo crea) a partire dallo stato mentale in esso prevalente. Ciò significa che non è il leader a scegliersi il gruppo nè sulla base dei propri bisogni nè della percezione di quelli del gruppo ma è semmai quest’ultimo a cercare un leader appropriato ai suoi bisogni consci o più spesso inconsci.

Così il gruppo in assunto di base di dipendenza genera un leader a cui i membri del gruppo possano affidarsi ciecamente per trovare sicurezza e l’appagamento a tutti i loro bisogni; il gruppo in assunto di base di attacco/fuga cerca un leader che individui un nemico esterno e guidi il gruppo contro di lui per distruggerlo o lo conduca in salvo al riparo dal pericolo; il gruppo in assunto di base di accoppiamento è alla ricerca di un’idea salvifica o di un “messia” che ne sostenga le speranze e sceglie come leader una coppia da cui attende che l’idea o il messia vengano generati.

Il gruppo di lavoro invece sceglie una leadership orientata al compito e capace di relazionarsi con la realtà. Funzione di questa leadership è di rendere possibile per il gruppo svolgere il proprio lavoro e raggiungere i risultati desiderati. “Perciò scrive Lazar uno degli obiettivi principali della leadership di qualità è quello di mantenere il gruppo quanto più a lungo possibile nella modalità di funzionamento del tipo “gruppo di lavoro” in tutte le situazioni lavorative”. (Lazar 2003)
In questo senso ad esempio potremmo pensare che ad esempio un leader narcisista non sia tanto l’artefice quanto piuttosto il prodotto (o la scelta) di un’organizzazione narcisistica.

L’idea comunque è che il leader sia un “individuo eccezionale”, non tanto per le sue eventuali doti straordinarie ma per il fatto di rappresentare il gruppo e di contenerne le fantasie, i pensieri e le proiezioni. In modo diverso lo sono sia il leader del gruppo in assunto di base e il leader del gruppo di lavoro, ma mentre “il primo è determinato in base all’intensità dei processi patologici del gruppo ed alla necessità della loro manifestazione (esso è impersonato dall’individuo più malato del gruppo); il secondo è invece determinato dai processi cognitivi del gruppo e dalla tendenza alla loro realizzazione”. (Corrao e Neri, 1981)

In “Attenzione e interpretazione”, scritto nel 1970 quando era negli Stati Uniti, Bion riprende il tema della leadership nel gruppo introducendo alcuni nuovi concetti per definire i quali si sforza di evitare il ricorso alla familiare terminologia psicoanalitica. Da questo sforzo scaturiscono termini piuttosto astratti ma emotivamente pregnanti e intrisi di trascendenza: “mistico” o “genio” (che sviluppano l’idea del “messia” dell’assunto di base di accoppiamento) ed “Establishment”. Le funzioni descritte da questi termini riguardano primariamente la formazione del pensiero del soggetto ma sono agevolmente applicabili al funzionamento dei gruppi e delle istituzioni.

L’ introduzione della figura del “mistico” creata da Bion soprattutto per descrivere aspetti dell’attività di pensiero dell’analista consente di superare la rigida contrapposizione tra leader del gruppo in assunto di base e leader del gruppo di lavoro. “Infatti, se da una parte il mistico ricopre un ruolo simile a quello del leader del gruppo di lavoro, poichè come questo è in rapporto col gruppo e ricerca la verità, d’altra parte egli si pone all’unisono ed accoglie in sè, trasformandole, le istanze emotive primitive proprie dell’assunto di base”. (Atzori e Rendina, 1997)

Bion aveva osservato come il gruppo fosse una rappresentazione esterna “drammatizzata” di una gruppalità interna e come l’universale conflitto individuo-Società sorgesse da una matrice essenzialmente intrapsichica.

“L’individuo scrive in “Esperienze nei Gruppi” – è un animale di gruppo in lotta, non solo col gruppo, ma con quegli aspetti della sua personalità che costituiscono la sua ‘tendenza a formare un gruppo”. (Bion, 1961)

E’ in questo contesto irriducibilmente conflittuale che il gruppo e la sua leadership sono costretti a operare cercando un ragionevole compromesso tra i bisogni emotivi degli individui e le necessità di sviluppo del gruppo nel suo insieme, sviluppo che dipende dalla sua capacità di permettere l’emergere dell’ “idea genuinamente nuova” che l’individuo eccezionale il “messia”, il “mistico” fa irrompere nel gruppo. L’idea nuova è un contributo prezioso per la crescita del gruppo, così come l’innovazione per le organizzazioni di lavoro, ma la sua capacità di distruggere la tradizione, le regole, i dogmi e le conoscenze pre-esistenti le conferisce un potere distruttivo che Bion poi descriverà nel suo saggio sul “cambiamento catastrofico”. (Bion 1966)

In “Attenzione e interpretazione” Bion scrive:

“il mistico è sia creativo che distruttivo”. (Bion 1970)

e più oltre:

“Il gruppo e il mistico sono fondamentali l’uno per l’altro; è quindi importante riflettere su come e perchè il gruppo possa distruggere il mistico, da cui dipende il suo futuro, e su come e perchè il mistico possa distruggere il gruppo” (ibidem).

Dunque il pensiero innovativo (il cambiamento, la verità) per poter emergere ha bisogno di essere accolto e assimilato dal gruppo, che deve subire una trasformazione ma deve anche essere protetto dall’azione distruttiva del mistico e del suo pensiero. A questo scopo provvede un’ “agenzia interiore” (nella mente, nel gruppo, nell’istituzione) che usando un termine del linguaggio politico Bion ha denominato Establishment. La funzione dell’ “Establishment è quella di intercettare e assorbire le conseguenze [della nuova idea] in modo che il gruppo non ne venga distrutto” (ibidem).

Nelle organizzazioni e nella Società le nuove idee sono spesso sperimentate come devastanti perchè, distruggendo o mettendo in discussione il pensiero tradizionale, minacciano di distruggere anche le organizzazioni e le Società che si sono sviluppate sulla base di quel pensiero.

Uno dei modi con cui il gruppo mobilita l’Establishment per proteggersi dalle nuove idee è la difesa dell’ortodossia: le innovazioni vengono bollate come eresie o condannate come idee blasfeme; il gruppo allora si scinde in due sottogruppi: i tradizionalisti attaccano il mistico (o genio, che ne è un sinonimo) cercando di eliminarlo in quanto personificazione dell’idea nuova, mentre i seguaci e i discepoli inizialmente sembrano sostenerlo ma di fatto si dispongono gradualmente a neutralizzarlo attraverso l’istituzionalizzazione, la creazione di una Chiesa e di una nuova ortodossia, finchè le nuove idee vengono incasellate in un dogma.
“L’individuo manifesta sempre qualche aspetto stabile e costante della propria personalità, (…) Questa stabilità corrisponde a ciò che ho chiamato Establishment”. (Bion 1970)

Rispetto alla formazione del pensiero, questo modello evidenzia la paura del cambiamento, la tendenza al mantenimento del noto e la rigidità assimilabili ai meccanismi mentali che sostengono i sistemi di credenza. Rispetto al funzionamento dei gruppi e delle organizzazioni emerge una questione cruciale che riguarda il ruolo della leadership nel gestire la creatività e l’innovazione assicurando nello stesso tempo condizioni di sufficiente sicurezza nel quadro istituzionale.

Come si è visto l’Establishment ha la capacità e la forza per addomesticare i “pensieri selvaggi” e soffocare le idee nuove istituzionalizzando il genio, che in tal modo come ricorda Bion rischia di “essere coperto di onori e di affondare senza lasciare traccia”. D’altra parte il genio, incorporato in un contenitore istituzionale troppo rigido, può rivelarsi così violento da romperlo e provocare un “cambiamento catastrofico”.

La qualità della relazione tra il mistico e il gruppo ovvero tra il genio e l’Establishment diventa quindi il fattore cruciale per deciderne i rispettivi destini e le speranze di sviluppo.

Bion descrive tre tipi di relazione che si formano all’interno del gruppo fra il gruppo stesso e il mistico-genio, in parallelo a quelle che al livello del pensiero si creano tra contenitore e contenuto:
1. la relazione di tipo parassitario, dove ognuna delle due parti cerca di soddisfare le proprie esigenze a spese dell’altra;
2. la relazione di tipo simbiotico, dove tra le due parti avvengono scambi vantaggiosi per entrambe e lo sviluppo dell’una facilita quello dell’altra;
3. la relazione di tipo commensale, dove non avvengono scambi e ognuna delle due parti persegue separatamente il proprio sviluppo.

A queste tipologie può aggiungersi la modalità relazionale più attiva, di tipo cooperativo, che contraddistingue il gruppo di lavoro.

Schermer descrive così la relazione tra il “messia” (il genio, il mistico) e l’Establishment:
In “Attenzione e Interpretazione” Bion concentra l’attenzione sull’assunto di accoppiamento e vi rinviene una relazione paradigmatica tra l’individuo e il gruppo. Sebbene non si riferisca mai in modo esplicito alla storia di Cristo il parallelismo è evidente. La speranza del gruppo è attualizzata nella coppia che produce un “messia”, il cui ruolo è quello di introdurre nel gruppo un’idea genuinamente nuova. (…) La nuova idea viene poi accolta in modo ambivalente dall’Establishment (ma naturalmernte essa stessa finisce spesso col diventare un nuovo Establishment persino più dogmatico!) Lo sviluppo successivo del gruppo è dunque espressione della relazione tra la nuova idea, il suo portatore e l’Establishment, cioè i valori e le convinzioni tradizionali del gruppo, come pure le resistenze al cambiamento sostenute dai suoi assunti di base.

Il vero messia è per Bion quello che è in grado di restare in assenza di memoria e desiderio abbastanza a lungo da poter ottenere una consapevolezza genuinamente nuova. L’Establishment cerca di evitare la paura e le trasformazioni implicite in questa inquietante vicinanza a “O” Schermer (2003).

Più oltre l’Autore osserva che la dialettica tra “genio” ed Establishment avvicina Bion a Foulkes e al suo concetto di “evoluzione democratica” del processo di gruppo. Infatti, poichè anche i membri del gruppo sono in grado di attingere alla nuova consapevolezza (alla trasformazione in “O”), ciò significa che “i membri e il collettivo possono essere portatori di una nuova idea tanto quanto la leadership. Parte del compito del leader del gruppo consiste nell’aiutare il gruppo a riconoscere e ad accedere a questi stati mentali” (ibidem).

Se il genio può essere tanto creativo quanto distruttivo, d’altro canto anche l’Establishment può ostacolare la crescita ma anche promuoverla ed è verosimile che l’alternativa venga decisa in entrambi i casi proprio dalla qualità delle reciproche relazioni, il che rimanda da un lato alla questione della collaborazione nel gruppo e dall’altro al ruolo della leadership nel promuoverla o al contrario nell’ostacolarla.

Da quanto riportato finora appare evidente che il primo pericolo che la leadership esercita nei confronti della propria organizzazione non dipende tanto dal rischio di diventare espressione degli assunti di base e delle loro tendenze anti-compito. Anche una leadership creativa e orientata al compito può minacciare l’istituzione se si pone prevalentemente sul versante del “genio”, ovvero dell’innovazione, ignorando le resistenze al cambiamento e la paura della catastrofe che questo reca con sè. E in questi tempi in cui l’acceleratore dell’innovazione e del “change management” come compiti primari della leadership viene schiacciato “a tavoletta” possiamo ben immaginare con quanta facilità i leader vengano temuti ed i loro piani sabotati.

Sulla base di queste considerazioni sarei quasi tentato di formulare l’ipotesi che gli attacchi alla leadership condotti così frequentemente all’interno dei gruppi e delle organizzazioni non dipenda tanto o primariamente dall’invidia dei membri per i privilegi e il potere del capo, ma da un’oscuro e non del tutto irragionevole timore per la potenziale distruttività implicita nella funzione del comando e per la carica eversiva delle nuove idee e delle visioni innovative della leadership.

La leadership in quanto portatrice di innovazione e cambiamento sarebbe dunque intrinsecamente pericolosa; perciò il suo pensiero strategico deve includere elementi di Establishment, cioè azioni e dispositivi che imbriglino l’idea nuova, la canalizzino e ne ammortizzino gli effetti impedendole di esercitare liberamente la sua azione eversiva. Occorre naturalmente tenere presente che l’Establishment teme il genio e cercherà perciò con ogni mezzo di sottometterlo, di istituzionalizzarlo e di ucciderne la creatività, a meno che non si crei tra le due istanze una relazione collaborativa.

Come per l’oscillazione PS <==> D, anche l’oscillazione della leadership tra genio ed Establishment sembra dipendere dalla qualità del contenitore e della sua capacità di accogliere contenuti preziosi ancorchè problematici ed ansiogeni senza soffocarli, evacuarli o venirne distrutto.
La funzione del contenimento sembra perciò emergere come la qualità fondamentale della leadership e l’antidoto alla sua duplice intrinseca pericolosità, quella dell’innovazione che minaccia lo status quo e quella dell’istituzionalizzazione che soffoca la creatività.

Concludo con le parole di Lazar:
“… solo un gruppo che si sente sufficientemente contenuto sarà in grado di funzionare con successo nella modalità del “gruppo di lavoro” per un lungo periodo di tempo. Le ansie, l’irrazionalità, le aggressioni, l’invidia e la rivalità, le idee e le fantasie inconsce distruttive se non vengono adeguatamente contenute minacciano di paralizzare il gruppo o di farlo esplodere. In questo caso il gruppo verrà spinto a ripiegare su un funzionamento secondo la modalità degli assunti di base per impedire che queste minacce o queste perturbazioni finiscano col distruggerlo completamente. Il prezzo da pagare per questa difesa è ovviamente la perdita dell’orientamento al compito e con esso quella della capacità di lavorare. Quando invece il leader del gruppo di lavoro è capace di offrire al gruppo un sufficiente contenimento, allora questi elementi disturbanti possono essere “digeriti” e meglio metabolizzati nella vita dinamica del gruppo, che può allora “nutrirsi” di questa esperienza, crescere su di essa, ricavarne dell’apprendimento e in tal modo migliorare la propria capacità di dedicarsi al compito in corso e di raggiungere dei buoni risultati”. (Lazar 2003)

Riferimenti bibliografici
ARMSTRONG, D. (1992) “Names, thoughts and lies: the relevance of Bion’s later writings for understandingexperiences in groups”. Free Associations, 3, 26: 261-82
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(2005)

Mario Perini
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