Francesco Conrotto dialoga con Amedeo Falci, Mario Rossi Monti, Benedetta Guerrini Degl’Innocenti (Firenze, Ist.Stensen 15 Ott 2016) che pubblichiamo per gentile concessione dell’Autrice.
Benvenuti a questo seminario organizzato dal CPF che rientra in una serie di seminari che da qualche anno abbiamo portato avanti scegliendo temi psicoanalitici che di volta in volta ci sembrava necessitassero di una riflessione e di un approfondimento, e lo abbiamo fatto a partire dal libro di un collega recentemente uscito sull’argomento. Come ricorderete abbiamo parlato di adolescenza con Goisis, di violenza e di antisocialità con Maggiolini e Saottini, di corpo e di disturbi alimentari con Carla Busato, di Narcisismo con Marina Breccia, di tecnologia virtuale con Andrea Marzi e oggi abbiamo scelto l’argomento più psicoanalitico che ci sia e parleremo di inconscio. Questa scelta ci è stata appunto favorita dalla pubblicazione del libro di Francesco Conrotto “Ripensare l’inconscio”, che ringraziamo per aver accettato il nostro invito. Questo suo titolo incontrava infatti perfettamente quella che era la nostra idea di ripensare appunto al concetto di inconscio, facendo una riflessione che lo collocasse in una prospettiva diacronica, tale da permettere uno sguardo nel tempo che ne possa cogliere elementi di continuità, ma anche di discontinuità o di ampliamento del nostro modo di leggerlo come costrutto teorico, ma anche di utilizzarlo clinicamente.
Per fare questo abbiamo pensato di far dialogare Franco Conrotto con Amedeo Falci, (presentazione) che ormai da molti anni studia e scrive sui rapporti fra psicoanalisi e neuroscienze e che ci è sembrato quindi la persona più adatta a riflettere su questo tema aiutandoci a inquadrare quali siano oggi le questioni che interrogano la nostra riflessione su questo che è l’oggetto della psicoanalisi par excellence. L’altro aspetto oltremodo rilevante e attuale, a cui il libro di Conrotto dedica un ampio spazio, riguarda la questione dello statuto scientifico ed epistemologico del concetto di inconscio freudiano e più in generale della psicoanalisi, argomento sul quale sarà Mario Rossi Monti a dialogare con il nostro ospite.
Io mi limiterò ad introdurvi nel tema e nella struttura del libro.
E’ indiscutibile che il concetto di inconscio, fondamento del pensiero psicoanalitico in quanto oggetto principe della sua osservazione e riflessione, abbia aperto orizzonti vastissimi alla comprensione del rapporto corpo-mente, individuo-gruppo sociale e, più in generale, ad una nuova visione del Mondo (citare discorso di Tomas Mann per gli 80 anni di Freud). Da quel momento in poi però gli analisti, come scrive Laurence Khan, sembrano operare con l’inconscio come con qualcosa di tattile, tralasciando troppo spesso il fatto che l’inconscio è soltanto un’ipotesi. (Khan, Psiche, 2007).
L’inconscio come oggetto di studio e la psicoanalisi come dispositivo conoscitivo e come disciplina, nascono a cavallo fra 800 e 900, non per caso. Il 900 è stato definito il secolo dell’invisibile: nei tre secoli precedenti, a partire da Galileo, la scoperta scientifica si era fondata sull’osservazione dei fenomeni.
Da quando alla fine del 500 gli occhialai olandesi inventarono un nuovo sistema di lenti che ha permesso l’espansione della nostra capacità percettiva, il guardare/osservare ha dominato la scena avvicinando oggetti molto lontani e ingrandendo oggetti infinitamente piccoli.
Finché non si è arrivati a toccare l’invisibile. Durante un’intervista, a Max Roentgen, scopritore dei raggi x, fu chiesto: “L’invisibile si può vedere?”. La sua risposta fu: “Non con gli occhi”.
Per questo motivo Einstein per la fisica e Freud per la psicologia si dovettero misurare con la necessità di un nuovo paradigma conoscitivo. Quello che entrambi realizzarono, nel tentativo di affrontare una serie di fenomeni scarsamente aggredibili secondo i parametri del pensiero riflessivo, fu un vero e proprio ribaltamento di prospettiva all’interno del pensiero razionale. Secondo Conrotto, la metapsicologia che si propone come lo strumento specifico della conoscenza dello psichismo inconscio, cioè di qualcosa d’invisibile e di inosservabile, sarebbe analoga ai procedimenti conoscitivi dei fenomeni invisibili della fisica, come la meccanica quantistica. La metapsicologia, secondo Conrotto, come la teoria dei quanta, proietterebbe all’interno della sfera del visibile degli elementi arbitrari – i fenomeni clinici – cioè dei punti di vista teorici. In questo modo sarebbe l’invisibile che forma il visibile.
Facciamo un passo indietro seguendo la struttura del libro.
Come sappiamo e come ci ricorda l’autore, l’inconscio non è una scoperta di Freud, ma cominciò ad essere oggetto di riflessione già intorno alla fine del 700 con Leibniz che si poneva il problema del funzionamento della mente a partire dal sistema delle piccole percezioni (cioè di quelle percezioni prive di appercezione e di riflessione, quindi al di fuori del sistema di intuizione cosciente). Freud quindi non scopre l’inconscio, ma “conferisce ad esso un primo, originale, coerente statuto teorico scientifico, criterio ordinativo di un modello di mente che viene posto come spartiacque tra le scienze della psiche del vecchio secolo e le scienze della mente del nuovo secolo” (Falci, 2009).
Per F. ci sono due tipi di contenuti inconsci:
- 1.Quelli invisibili: cioè solo temporaneamente inconsci, nel senso non sotto lo sguardo della coscienza;
- 2.Quelli nascosti: stabilmente inconsci, cioè rimossi perché portatori di conflitto/dispiacere. Questa è la caratteristica dell’inc. nella prima formulazione che ne ha dato F. (Le neuropsicosi di difesa, 1894): l’inconscio sarebbe il prodotto della espulsione dalla coscienza di rappresentazioni ritenute incompatibili o inaccettabili da parte dell’ Io. Il processo espulsivo è definito rimozione, e come ci ricorda Conrotto, da quel momento, e per molto anni ancora, l’inconscio verrò identificato con il rimosso. E’ dunque il concetto di rimozione ad aver fondato l’inconscio freudiano.
Ma siccome il processo di rimozione riguarda la rappresentazione incompatibile, la questione che secondo Conrotto, e anche secondo altri, si pone è quella relativa allo statuto della nozione di rappresentazione nel pensiero di F.
Il concetto di rappresentazione ha una storia lunga nel pensiero filosofico, lunga forse quanto il pensiero stesso. L’etimo del termine, che deriva dal latino ‘re’ e ‘praesentare’, rivela che in esso sono contenute due idee fondamentali: quella di presenza attuale e quella di sostituzione da parte di un rappresentante. Il rappresentare, nel senso di ‘stare per qualcun altro’ o ‘per qualcos’altro’, indica una seconda presenza, ripetizione più o meno perfetta della prima. Per questo con tale termine s’intende, in generale, tanto l’atto del rappresentarsi un oggetto, l’operazione conoscitiva in base alla quale un oggetto risulta più o meno chiaramente alla coscienza, quanto il contenuto mentale proprio di tale operazione, che si distingue dalla percezione in quanto il suo oggetto non è necessariamente presente. Il concetto di rappresentazione rivela così, fin dalle prime battute, tutta la sua centralità all’interno di una riflessione sul funzionamento del pensiero umano, configurandosi come il prototipo di ogni possibile esperienza psichica, la modalità di funzionamento in cui si origina ogni possibile significazione e le sue successive articolazioni (Funari, 1991) .
Sarà Freud che per primo ne lascerà intravedere anche tutta l’ambiguità: la straordinaria portata creativa attraverso le innumerevoli vie della simbolizzazione, ma anche l’inesorabile dipendenza da quel groviglio inestricabile e potente che lega insieme pulsioni e affetti.
Fino dalle sue prime opere Freud collega la rappresentazione all’affetto e, a partire dagli scritti sulla metapsicologia, alla pulsione.
Se volessimo sintetizzare quello che per Freud è il percorso dal primo contatto con un oggetto del mondo alla sua rappresentazione psichica che può accedere alla consapevolezza, potremmo sintetizzarlo così: l’oggetto esterno (quel qualcosa che è presente là, di fronte a noi, che sia esso il seno, una parte del proprio corpo, o, progressivamente, l’esperienza di una interazione con un altro da sé) si presenta al neonato e la percezione di questa prima presentazione (Darstellung), investita da una carica affettiva, forma una traccia mnestica. Questa prima forma di rappresentazione, definita da Freud rappresentazione di cosa (Sach-Vorstellung), costituisce il primo autentico investimento oggettuale (Freud, 1915b). Per Freud l’inconscio è la regione nella quale i contenuti sono presenti come cose, fino a quando questi vengano processati in modo tale da permettergli di accedere alla regione del sistema preconscio-coscienza, ed essere così rappresentati, diventando cioè rappresentazioni. Perché questa trasformazione possa avvenire il contenuto inconscio, la rappresentazione di cosa, deve essere legato alla rappresentazione di parola (Wort-Vorstellung) (Freud, 1915b). L’universo dell’affetto, almeno fin dove Freud è giunto a comprenderlo, ci può essere comunicato nella misura in cui rappresentazioni di cosa e rappresentazioni di parola formano con esso un complesso psichico intelligibile. Ma quello che la clinica psicoanalitica dopo Freud ci ha progressivamente mostrato è come l’affetto si presenti talvolta nella sua brutalità, nella sua forma cioè più grezza e informe, senza che vi sia legata alcuna rappresentazione che lo possa contenere, modulare o offrirgli un significato (Green, 1970).
Mi riferisco in particolare a pazienti che per espressività clinica e funzionamento psichico non sembrano rientrare nelle patologie tradizionalmente nevrotiche, senza però corrispondere alla fissità spesso stereotipata dei quadri psicotici. Quelle forme che possono essere caratterizzate da una pervasiva mancanza di strutturazione e organizzazione e da una difficoltà pressoché totale a costruire rappresentazioni degli stati interni che possano essere messe in parole. In questi pazienti gli stati affettivi, così come si manifestano in seduta, emergono non-integrati né strutturati, privi nella maggior parte dei casi di contenuti rappresentativi e vissuti come esperienze prevalentemente sensoriali, indistinte e spesso minacciose per l’effetto disorganizzante che sembrano portare con sé: un sentimento di sconfinamento affettivo che sembra soffocare la psiche (Green, 1975).
Freud sembra avvicinarsi a questo con il passaggio alla seconda topica, sancito con il lavoro L’Io e l’Es del 1922, passaggio nel quale si sancisce la perdita della centralità della rimozione nella formazione dell’inconscio e in seguito al quale anche la questione della rappresentazione e del suo statuto perde d’importanza in quanto è il moto pulsionale ad acquistare una importanza centrale con la sua tendenza ad esprimersi attraverso la scarica nell’azione e/o nel corpo.
Sarà comunque la teoria del pensiero di Bion che spingerà potentemente in avanti la teoria psicoanalitica, aiutandoci a comprendere come l’individuo possa giungere a percepire, nominare, mettere in connessione e pensare gli affetti umani. Per Bion l’inconscio si struttura attraverso un processo trasformativo della mente di esperienze sensoriali ed emotive che raggiungono il neonato nelle relazioni primarie con modalità che prescindono dalla rimozione.
Senza entrare oltre nel merito degli sviluppi teorici, di cui si occuperanno i nostri ospiti, vorrei concludere con alcune riflessioni più attuali e che hanno motivato la giornata di oggi.
Dopo aver scavato, all’interno della cultura del 900 mutandola senza possibilità di ritorno, il concetto di inconscio si misura ora con nuove realtà e necessita, per poter mantenere non solo il suo statuto teorico, ma anche il suo portato rivoluzionario, di un continuo lavoro di ridefinizione, usuale peraltro nel pensiero scientifico. “Considerarsi insediati for ever nella terra promessa dell’inconscio, ci farebbe venir meno all’inderogabile compito della ricerca psicoanalitica insito in quello stesso assunto di «provvisorietà» ed «indeterminatezza» di quadri teorici ancora aperti e suscettibili di completamento, che era parte assolutamente fondativa del pensiero freudiano” (Falci, 2009).
Al tempo Freud per poter affrontare il peculiare oggetto di indagine che è la psiche fu costretto a trovare uno strumento adatto che superasse le insufficienze della biologia e della neurofisiologia del tempo, cioè il concetto di inconscio come concetto-limite che consente le operazioni di collegamento corpo-mente, ragione-affetto, sogno-veglia (Preta).
Da allora però i paradigmi scientifici sono cambiati e adesso abbiamo nuovi paradigmi come la complessità o l’auto-organizzazione dei sistemi, che ci hanno spinto molto al di là del vecchio determinismo. Nonostante questo, o forse proprio per questo, alla psicoanalisi viene chiesto costantemente di misurarsi con i parametri scientifici classici e da questo nascono le polemiche che tutti ben conosciamo. Come scrive Conrotto, la moderna neurobiologia, nonché le teorie della mente di impronta cognitivista, ritengono che l’inconscio non possa essere identificato con il prodotto della rimozione di idee o di stati affettivi angosciosi o eccessivamente eccitanti, ma che lo statuto di inconscietà sia proprio delle caratteristiche strutturali e funzionali dei circuiti cerebrali e dell’architettura computazionale della mente.
L’idea che Conrotto propone è che “sia possibile e opportuno riflettere sul concetto di inconscio alla luce della evoluzione del pensiero scientifico che è avvenuto dopo F. senza rinunciare a una teoria dell’inconscio psicologico, cosa che qualora venisse fatta, ridurrebbe l’inconsceità al solo funzionamento neurologico cerebrale”.
Mi pare allora si possa dire che il rapporto con le neuroscienze, i cui continui sviluppi e scoperte hanno di molto arricchito il campo di indagine sulla mente, è ineludibile e imprescindibile. Tuttavia la psiche è, in quanto tale, irriducibile al suo equivalente biologico e quello che dobbiamo fare è tenere conto degli avanzamenti in questo campo per cercare di costruire una visione più integrata e complessa della dinamica psichica, facendo ogni sforzo perché questa visione sia il più possibile vicina all’esperienza clinica e il più possibile verificabile in contesti extra-clinici.
Le scienze cognitive, che hanno ampiamente contribuito ad allargare l’orizzonte sulla conoscenza e il funzionamento della mente, hanno incardinato il loro discorso principalmente sulla coscienza, la consapevolezza e l’intenzionalità, lasciando in ombra il discorso sul simbolico. D’altro canto però potremmo dire che la psicoanalisi da questo punto di vista sembra avere “un problema di coscienza”, per parafrasare il titolo di uno dei numeri monografici di Psiche che abbiamo contribuito a realizzare. Questi infatti sono proprio gli aspetti che la psicoanalisi, privilegiando l’indagine della lacuna della coscienza, ha lasciato così al margine da distanziarsi non poco persino dal dettato Freudiano: “ Tutto il nostro sapere è sempre legato alla coscienza” scrive Freud nella nuova serie di lezioni (1932), “ senza il faro della qualità dell’essere cosciente noi saremmo perduti nella tenebra della psicologia del profondo”.