H. Shmuel Erlich, Ph.D.
L’ebraismo di Freud non è mai stato messo in discussione. La sua posizione anti-religiosa, i suoi dubbi e timori riguardo al movimento sionista e alla sua fattibilità politica, e i suoi decisi sforzi verso l’universalismo scientifico tutto ciò non ha potuto mascherare nè sradicare il profondo ed essenziale nucleo ebraico della sua identità. Nella prefazione che egli scrisse per l’edizione ebraica di Totem e Tabù egli lo ha affermato chiaramente:
“Per nessuno dei lettori [dell’edizione ebraica] di questo libro sarà facile immedesimarsi nell’atteggiamento emotivo dell’autore, che non conosce la lingua sacra, che si sente completamente estraneo alla religione dei padri come ad ogni altra religione peraltro e che non riesce a far propri gli ideali nazionalistici pur non avendo mai rinnegato l’appartenenza al suo popolo e sentendo come ebraico il proprio particolare modo d’essere che non desidera diverso da quello che è. Se gli venisse rivolta la domanda: “Dal momento che hai lasciato cadere tutti questi elementi che ti accomunano ai tuoi connazionali, cosa ti è rimasto di ebraico?’, la mia risposta sarebbe: “Moltissimo, probabilmente ciò che più contà. Tuttavia egli non saprebbe al momento esplicitare a chiare lettere in cosa consista questa natura essenziale dell’ebraismo; maconfida che un giorno o l’altro essa diventerà intelligibile per la scienza” (Freud, 1912-13, pp.8-9, corsivo mio).
Quel giorno venne negli anni 1934-1938, nel corso dei quali Freud scrisse il suo L’uomo Mosè e, dopo molte esitazioni e ricerca interiore, infine lo pubblicò, immediatamente dopo la sua fuga forzata da Vienna, città che si era spontaneamente consegnata al nazismo. Questo lavoro per molte ragioni è unico fra gli scritti di Freud; ma ciò che io intendo sottolineare in questa presentazione è costituito dai legami stretti e intrecciati fra i dilemmi di Freud a proposito della sua identità ebraica, le sue profonde preoccupazioni riguardo alla sua leadership e alla sua futura eredità, e la sua comprensione della posizione degli ebrei nel mondo in relazione all’antisemitismo.
Permettetemi di spiegare perchè ho scelto di intitolare questa presentazione “Der Mann Moses, l’Uomo Freud”. Ciò ha a che fare con la mia lettura di Mosè e il Monoteismo. Fra i numerosi modi in cui questo testo sfaccettato e strano può essere (e viene) letto, io non sono particolarmente attirato dai suoi aspetti anti-religiosi, critici nei confronti della Bibbia, storico naturali, letterario-romantici ed anche ebraico-nazionali. Tutti questi aspetti ed altri ancora sono già stati estesamente affrontati. Ciò che mi intriga è il titolo che Freud ha dato al suo lavoro, Der Mann Moses und die Monoteistiche Religion, e la mia enfasi cade su “Der Mann Moses” e il suo parallelo: “L’Uomo Freud”.
L’Uomo Mosè” è in realtà una espressione presente nella Bibbia, ed è ragionevole assumere che Freud la conoscesse bene. Se cerchiamo dove essa compare nel testo biblico, la troviamo menzionata solo in due passi, entrambi nell’Esodo, ed entrambi chiaramente connessi con la leadership di Mosè. Il primo passo ha una coloritura nettamente positiva: “Il Signore fece si’ che il popolo trovasse favore agli occhi degli Egiziani. Inoltre l’uomo Mosè era assai considerato nel paese d’Egitto, agli occhi dei ministri del faraone e del popolo” (Esodo 11, 3).
La seconda occorrenza è in concomitanza col peccato della creazione del Vitello d’Oro, ed ha un’impronta negativa:
Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un Dio che cammini alla nostra testa, perchè a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto” (Esodo, 32, 1).
La connotazione negativa è ulteriormente enfatizzata dall’inversione dell’ordine: “Mosè, l’uomo”, cioè Mosè che è dopotutto soltanto un uomo e non Dio. La comparsa dell’espressione “L’Uomo Mosè” nel contesto della leadership è significativa rispetto alla linea di pensiero che voglio sviluppare.
L’Uomo Mosè occupa una nicchia speciale nell’illustre corpus degli scritti freudiani. La persistente fascinazione che promana da questo singolare testo è probabilmente dovuta ai molti fili dinamici intrecciati in esso. La parziale consapevolezza, da parte dell’autore, riguardo a connessioni ed allusioni personali, gli conferisce l’aspetto di uno sguardo autoriflessivo a una vita lunga e produttiva. Potrebbe anche essere considerato come l’ultimo stadio dell’autoanalisi di Freud, durata tutta la vita, che cominciò con l’analisi dei suoi sogni e consistette in gran parte in essa. Ci si può avvicinare a Mosè e il monoteismo come al sogno sognato da Freud nella tarda fase della sua vita. Forse questo è implicato nel sottotitolo che egli diede al suo lavoro, “Ein Historischer Roman”, un sottotitolo che “inevitabilmente […] suscita associazioni sia riguardo allafiction sia riguardo al “romanzo familiarè psicoanalitico (Familienroman)” (Yerushalmi, 1989). Visto in quest’ottica, la sua ricchezza tematica richiama immediatamente la nostra immaginazione.
Menzioniamo alcuni di questi temi. Si tratta dell’ultimo e più esplicito attacco di Freud al narcisismo ebraico. Esso mira a risolvere una volta per tutte l’enigma della peculiarità, interna ed esterna, degli ebrei. Il Popolo Eletto (e perciò perseguitato) è trasformato in Popolo tragicamente Colpevole, in continua espiazione per il suo crimine, ma al tempo stesso impegnato nell’interiorizzazione della carneficina e dell’assassinio e nella loro trasformazione in spiritualità e in preziose risorse spirituali per tutta l’umanità. Questo scritto è la più audace incursione di Freud nella questione della spiritualità, o Geistigkeit. Bisogna tenere a mente che Freud si formò sull’empirismo helmholtziano e rinnegò la validità di ogni sforzo metafisico. Il lavoro della sua vita fu dedicato a trasformare lo “spiritò e l'”animà nei più operativi concetti di “mentè e “apparato mentalè, e a trasformare l’ispirazione divina in “Inconsciò, in definitiva di derivazione somatica e biologica. Egli è anche l’uomo che, in risposta a Roman Rolland che sosteneva l’esistenza di sentimenti “oceanici’, confessò di “non riuscire a scoprire in se stesso questo sentimento “oceanicò” (Freud, 1929, p.558). Per lui scavare nella problematica della Geistigkeit era certamente una questione di non poco conto.
Lo sforzo di Freud di capire la Geistigkeit è connesso con ancora un’altra lotta: il suo tentativo di integrare la sua delimitata identità ebraica con la sua fedeltà alla cultura centro-europea prevalentemente non-ebraica (per non dire anti-ebraica) e con l’universalismo scientifico. Freud è, ovviamente, un esempio rilevante degli sforzi eroici dell’Illuminismo ebraico, da Mendelssohn in poi, volto a riconciliare il separatismo ebraico con la prevalente cultura cristiana. Gli sforzi di Freud per salvare la psicoanalisi dal diventare una scienza ebraica lo condussero ad innalzare C.G. Jung alla posizione di suo erede e futuro leader del movimento psicoanalitico. Jung doveva essere il suo Giosuè un ariano, potente conquistatore della nuova terra. Che questo tentativo sia miserevolmente fallito non è soltanto cosa ben nota: ma è anche dolorosamente presente sullo sfondo di ciò che il Mosèfreudiano affronta: un ultimo tentativo di chiarire, ma anche di accettare, l’enigma dell’isolazionismo ebraico, la scissione fra giudaismo e cristianità, o meglio ancora: fra Ebraismo e Gentilismo i due che erano uno e che divennero nemici inseparabili.
Un altro aspetto della speciale attrattiva di questo lavoro è la sua qualità profetica, in termini di tempismo storico e di significatività culturale. La lotta fra Ebraismo e il resto del Mondo, d’impronta sia cristiana sia neo-pagana, stava per erompere con piena forza nella forma dell’ideologia e della persecuzione naziste. La connessione fra le esitazioni di Freud e la decisione finale di pubblicare questo lavoro in seguito alla sua fuga in Inghilterra (il suo “esilio” verso una nuova Diaspora), sono temi toccanti che operano con forza sullo sfondo. La formidabile attrazione e fascinazione del Mosè di Freud deve molto a questo intreccio perturbante del livello personale con quello storico, dell’analisi intellettuale con l’esperienza reale e col fato dell’uomo Freud.
Come ho detto, non mi dilungherò su questi temi affascinanti. Ciò che vorrei prendere in considerazione è un altro tema che, sebbene implicito in ciò che ho già menzionato, non è ancora stato, per quanto ne so, descritto e discusso fino ad ora come tale. Questo tema connette profondamente l’Uomo Freud e Der Mann Moses. E’ il tema della leadership, che è correlato sia con l’antisemitismo e con gli sforzi di Freud per comprenderlo, sia con l’identità psicoanalitica.
La mia tesi, in breve, è questa: Freud è profondamente interessato al Mosè leader di uomini, e questo interesse deriva dalla sua stessa identità e posizione di leader. L’analisi dell’uomo Mosè è infatti qualcosa che serve a lui stesso e va molto oltre la semplice identificazione: è strutturata per illuminare l’uomo Freud riguardo al fato e al futuro della sua stessa leadership. Al tempo stesso, questa prospettiva è strettamente connessa col ruolo storico e sociale degli ebrei e con l’odio diretto verso di loro sotto forma di antisemitismo.
Freud come leader
Che l’identità di Freud contenesse una notevole componente di leadership, può difficilmente essere messo in discussione. Sono ben conosciuti il suo interesse nei confronti di Annibale e di Alessandro Magno, degli leader politici e degli eroi militari antichi e contemporanei e la sua precoce identificazione con essi (Jones, 1953; Gay, 1988). Un’altra variante di questa ricerca di leadership prese la forma di un’identificazione coi grandi scopritori e della sua passione per raggiungere la fama attraverso le scoperte scientifiche. E’ evidente, in molta parte del suo pensiero e della sua opera, la tematica dell’andare oltre, dell’impadronirsi, appropriarsi, civilizzare e fondare nuovi territori ignoti, inesplorati e incontaminati.
Una delle forme che questa leadership prende è il portare la luce della verità e dell’insight ai “pagani” o non informati. In realtà Freud è interessato non solo alla figura di Mosè, ma anche a quella di Paolo, che realizzò la trasformazione del giudaismo in cristianità offrendo al mondo pagano una via di uscita alla colpa parricida. Entrambi sono ebrei, entrambi trasformano il genere umano e lasciano il loro indelebile segno su di esso. Il centro del suo interesse, comunque, è chiaramente Mosè, e non Paolo. Ciò è perchè Mosè è una figura precedente e più originale, e gli è attribuita la miracolosa trasformazione delle tribù semitiche nomadi nel popolo ebreo. In questo senso Mosè rappresenta meglio il profondo potenziale e l’effetto a lungo termine della leadership.
In più, Mosè è direttamente connesso con le radici dell’antisemitismo, mentre Paolo rappresenta una possibile risoluzione attraverso la negazione e l’abbandono dell’identità ebraica, una soluzione storicamente rigettata dagli ebrei, cosi’ come da Freud. Il conflitto rappresentato da Mosè e da Paolo è il problema a partire dal quale l’antisemitismo affiora sulla scena della storia. E’ perciò significativo che Freud scelga chiaramente Mosè anzichè Paolo, in tal modo confermando una volta ancora la sua identità ebraica, al tempo stesso riconoscendo le tragiche e inevitabili conseguenze di questa scelta, e portandone il lutto.
Freud sulla leadership
Prima di lasciar parlare Freud stesso su questo punto, è necessario passare brevemente in rassegna i suoi pensieri sul processo di gruppo e sulla leadership. Freud fece numerose incursioni nelle aree culturali e sociali, culminanti nel suo Mosè. Esse rappresentano l’applicazione dei principi e dei concetti psicoanalitici, forgiati nell’arena della psiche individuale e del setting diadico, a un livello sopra-individuale. In effetti, Freud perseguiva un metodo che ho descritto come “sommatoria” (Erlich, 1996) nella sua comprensione del gruppo e dei fenomeni sociali. In base a questo approccio, i processi che avvengono nel gruppo (l’orda, la massa) sono derivati dalla psiche individuale, e poi vengono ad assommarsi mediante numerosi partecipanti. Il gruppo, in questa concezione, non costituisce realmente l’emergenza di un nuovo fenomeno, che obbedisce alle sue dinamiche, ma una collezione di menti individuali.
Per sottolineare questo approccio additivo (che non è solo di Freud), lo si potrebbe mettere a contrasto col successivo sviluppo della comprensione psicoanalitica dei processi di gruppo, associato con Bion (1961). Diversamente da Freud, Bion vede il gruppo come possessore di caratteristiche che trascendono i processi e gli input psichici del membro individuale. Impiegando concetti post-freudiani e kleiniani, Bion arriva a una dimensione del “gruppo come un tutto”, espressa nelle sue nozioni di un livello protomentale e dei gruppi per Assunti di Base. Questi operano nascostamente al livello di gruppo, ed asserviscono gli individui ai loro propri fini.
Lo sforzo innovatore di Freud nella comprensione dei processi di gruppo è costituito dal suo Psicologia delle Masse e analisi dell’Io (1921), il primo tentativo di costruire una spiegazione psicoanalitica dei processi di gruppo. Mentre questo testo segue fondamentalmente lo schema che ho descritto cioè la “sommatoria” dei processi psichici individuali come spiegazione di quanto affiora nei gruppi – esso colpisce per la sua analisi concettuale. Freud divide il gruppo in due componenti fondamentali: il leader e i seguaci. Ciò che rende un gruppo coerente è la sostituzione da parte dei membri del gruppo dei loro ideali dell’Io individuali con quello del leader, che diventa investito come il comune ideale dell’Io che il gruppo è disposto e pronto a seguire. E’ come se nella mente di ciascun seguace il leader avesse preso il posto precedentemente tenuto dal suo personale ideale dell’Io. Inoltre i membri del gruppo si identificano, al livello del loro Io, gli uni con gli altri attorno alla loro comune idealizzazione del leader.
Due elementi dellaPsicologia delle Masse di Freud sono degni di nota, ed entrambi sono intrinsecamente correlati al suo rilevante interessamento riguardo all’Uomo Mosè. In primo luogo, Freud attribuisce il vero e proprio momento della formazione del gruppo, cosi’ come la continuativa funzione ed esistenza del gruppo, alla presenza della leadership. Senza l’avvento del leader, il gruppo non potrebbe esistere, e il processo sociale subirebbe un brusco arresto. Freud attinge all’orda primaria come al costituente primitivo del gruppo: “Il capo della massa è ancor sempre il temuto padre primigenio, la massa continua a voler essere dominata da una violenza senza confini, è sempre sommamente avida di autorità, ha […] sete di sottomissione” (Freud, 1921, p.315, corsivo mio). La visione che Freud ha dell’autorità è verticale, e deriva dal rapporto di un bambino col padre: l’autorità proviene da sopra, ed è agognata da sotto. Egli non sembra avere alcuna nozione di un’autorizzazione orizzontale da parte dei pari.
La seconda osservazione segue direttamente dalla prima: il processo attraverso cui il gruppo si forma è dall’alto al basso. Impiegando la metafora dell’orda primitiva, esso è letteralmente creato e tenuto insieme attraverso l’azione dello spietato padre primordiale. Questa nozione è direttamente connessa con la dialettica hegeliana del capo e del seguace, o del padrone e dello schiavo. Nei termini dell’analisi strutturale dello psicoanalista-antropologo Robert Paul, il Mosè di Freud tratta delle relazioni fra maschio dominante anziano e maschio giovane sottomesso (1996).
Desidero sottolineare l’immensa valutazione, e anche la sopravvalutazione, da parte di Freud, del ruolo del leader nell’inizio e nella strutturazione dei processi sociali di formazione del gruppo e di azione del gruppo. Le dinamiche sono quelle dell’amore, come nella suggestione e nell’ipnosi, sebbene egli certamente noti anche la presenza della paura. L’investitura del leader è un atto essenzialmente narcisistico, giacchè l’ideale dell’Io è investito con libido narcisistica. Il leader è colui che è amato da tutti (tenendo a mente che tale amore implica ambivalenza). Inoltre, egli è colui dal quale tutti desiderano essere ugualmente amati. L’annientamento delle differenze e l’accettazione dell’uniformità da parte dei membri del gruppo sono attribuiti alla loro identificazione gli uni con gli altri nel loro comune amore per il leader. Ma ciò che Freud non prende completamente in considerazione, precisamente per la stessa ragione che gli impedisce di apprezzare il sentimento “oceanicò, è l’aspetto fusionale come un fondersi dell’amore narcisistico.
L’amore e le aspirazioni dell’ideale dell’Io dei seguaci verso il leader implicano un potente desiderio di fondersi con lui. In altre parole, vi è una spinta dinamica verso l’annientamento del delimitato Sè individuale mediante la fusione con la sovrastante unità e l’accordo che il gruppo potenzialmente offre. Tali tendenze alla fusione operano in maniera particolarmente potente nelle situazioni dei grandi gruppi, ma sono anche presenti nei piccoli gruppi, e fino a un certo punto anche nei gruppi di lavoro (Erlich, 1996, 2000). L’esperienza di fusione rappresenta la potenziale promessa di riguadagnare il Sè attraverso la perdita di esso nel gruppo, in una forma e in uno stato che non sono soltanto superiori ma, ciò che è più importante, essenziali per l’assunzione della propria identità. La formazione dell’identità dipende non solo dalla propria distinta auto-definizione, ma anche dalla propria capacità di fondersi e di sentirsi tutt’uno con un ruolo sociale dato e con la comunità che lo offre. Tornerò su questo punto giacchè esso è correlato con l’antisemitismo e ancor di più con il fenomeno nazista.
Per Freud, il leader è il Grande Uomo, con l’ovvia allusione all’uomo fisicamente grande (Der Grosse Mann) o al padre, di cui egli eredita la collocazione psichica e l’aura, oltre all’autorità, all’approvazione e al prezioso amore paterni. La domanda che preoccupa Freud nell’intero Mosè è quella che lui pone esplicitamente riferimento al Grande Uomo: “Come è possibile che un uomo solo esplichi un’azione cosi’ straordinaria da formare un popolo da individui e famiglie qualsiasi, da imprimergli il suo carattere definitivo e determinare il suo destino per millenni?” (Freud, 1934-38, p.426). L’ipotesi che questa domanda lo conduca a ritroso nel tempo e rappresenti un problema profondamente personale, che tocca le fondamenta del suo sviluppo primario e della formazione della sua identità, è suggerita dalla frase immediatamente seguente: “Supporre questo non è forse ricadere in quella maniera di pensare che ha fatto sorgere i miti di un creatore e il culto degli eroi, ricadere nei tempi in cui la storia scritta si riduceva a narrare le imprese e le vicende dei singoli, dominatori o conquistatori?” (ibid., corsivo mio). Freud sa che il pensiero scientifico moderno preferisce le forze impersonali, nelle quali “la parte riservata agli individui è quella di essere esponenti o rappresentanti di tendenze collettive”(ibid.).
Ciononostante, egli insiste sul posto che ha il Grande Uomo nella catena o nella rete delle cause. Nonostante che sia impossibile definire questa grandezza, egli suggerisce che noi dovremmo “attenerci al concetto che il grande uomo opera sul suo prossimo per due vie: con la sua personalità e con l’idea per la quale si impegna” (ibid., p.428, corsivo mio). E aggiunge:
Il perchè il grande uomo acquisti importanza non ci risulta oscuro neppure per un istante. Sappiamo che nella massa degli uomini vi è grande bisogno di un’autorità da ammirare, a cui inchinarsi, da cui essere dominati, fors’anche maltrattati […]. E’ la nostalgia del padre insita in ognuno dall’infanzia […]. La risolutezza dei pensieri, la forza di volontà, l’impeto dell’azione appartengono all’immagine paterna, ma più di tutto vi appartengono l’autonomia e l’indipendenza del grande uomo, la sua divina noncuranza che può crescere fino alla mancanza di qualsiasi riguardo. Lo si deve ammirare, è consentita la fiducia in lui, ma non si può fare a meno anche di temerlo” (ibid., pp.428-429).
Mosè assunse questo ruolo paterno del grande uomo, offrendo ai “poveri servi ebrei” un oggetto per la loro devozione: un Dio che essi potessero venerare ed obbedire in cambio del suo amore, e la cui collera e punizione potessero temere. Il bilanciamento è fra l’essere i Figli Prediletti di Dio e il contraccambiarlo con un’eterna obbedienza.
Tutto ciò sembra sovradeterminato e soffuso di un significato personale. Le identità dei due Grandi Uomini Mosè e Freud appaiono intrecciate, e il popolo ebraico sembra attivamente cementare la loro fusione. Notiamo, come già ha fatto Erikson (1968), che l’unica occasione in cui Freud usò il termine “identità’ nel suo formidabile corpus di scritti è quando allude alla sua identitàebraica. Nel suo “Discorso ai membri della Associazione B’nai B’rith” in occasione del suo settantesimo compleanno egli disse:
… Tante altre cose rimanevano che rendevano irresistibile l’attrazione per l’ebraismo e gli ebrei, molte oscure potenze del sentimento, tanto più possenti quanto meno era possibile tradurle in parole, cosi’ come la chiara consapevolezza dell’interiore identità […]. Fu soltanto alla mia natura di ebreo che io dovevo le due qualità che mi erano diventate indispensabili nel lungo e difficile cammino della mia esistenza. Poichè ero ebreo mi ritrovai immune dai molti pregiudizi che limitavano gli altri nell’uso del loro intelletto e, in quanto ebreo, fui sempre pronto a passare all’opposizione e a rinunciare all’accordo con la “maggioranza compattà […]. In un’epoca in cui in Europa nessuno mi ascoltava e a Vienna non mi ero ancora fatto degli allievi, voi mi donaste la vostra benevola attenzione. Foste voi il mio primo uditorio” (Freud, 1926, p.342, corsivo mio).
Le parole di Freud dischiudono le connessioni fra questi temi profondamente personali: la sua identità interiore è strettamente collegata con l’essere ebreo e l’essere leader. Il secondo tema è chiaramente espresso in una serie di modi: la sua capacità e prontezza ad assumere posizioni non-consensuali, e il suo bisogno di seguaci, a lungo frustrato ma persistente. Entrambi questi temi sono intrecciati col suo Mosè. Elaboriamo questi punti.
La leadership può essere definita in molti modi. Ho già menzionato il tentativo di Freud di dare una spiegazione del fenomeno del Grande Uomo. La visione moderna della leadership è basata sull’integrazione fra i concetti e la comprensione psicoanalitici (Bion, Melanie Klein e altri) e la visione sistemica e strutturale della vita organizzativa conosciuta come Teoria dei Sistemi Aperti. Questa integrazione unica ha dato molti frutti in direzione di una più profonda comprensione dei processi di gruppo. La leadership è considerata come un fenomeno di confine. “La leadership del gruppo, come quella dell’individuo, è una funzione di confine che controlla le transazioni fra interno ed esterno” (Miller and Rice, 1967, p.20, corsivo mio). E’ la disponibilità del leader a farsi carico di questa funzione, che è anche gravata di notevole pericolo, a fare di lui/di lei un leader.
Le aspirazioni e la prontezza personale di Freud a farsi carico di una tale posizione di confine si riflettono chiaramente nei passaggi sopra citati, ma anche in numerosi altri modi. E’ sempre pronto a fare a meno della maggioranza compatta, nella quale potrebbe comodamente perdersi. Stare all’opposizione, in sè e per sè, non costituisce ancora un ruolo di leadership. L’opposizione è, tuttavia, un modo per tracciare una linea di disaccordo o un confine. Giacchè questo nuovo confine e mi sto riferendo alla psicoanalisi è tracciato da nessun altro se non da Freud stesso, egli non è soltanto dentro l’opposizione: è l’opposizione. Egli traccia questo confine e sta su di esso durante tutta la sua vita adulta. Questo lo pone chiaramente in una posizione di leadership. Che egli sia fin troppo penosamente consapevole di ciò, si riflette nella sua dolorosa affermazione riguardo all’assenza di discepoli e di seguaci per cosi’ tanto tempo.
Ma Freud non è da solo in questa posizione di confine: egli vede il popolo ebraico in un ruolo di leadership faccia a faccia col resto del mondo. Questa non è una idea originale. E’ l’essenza della tradizione ebraica.
Ciò che è significativo è che lui adotti tale idea, in modo ambivalente e con difficoltà. La sua stessa leadership si evolve nell’identificazione con la leadership spirituale ebraica. E qui è dove Mosè entra in scena. Mosè tiene la chiave dell’enigma con cui Freud, il moderno risolutore dell’enigma della Sfinge, sta lottando. E’ l’enigma presentato dalla tarda età, dalla morte imminente e dal problema dell’eredità e della trasmissione. Essendo stato cosi’ immensamente generativo, egli è ora preoccupato rispetto alla durevolezza ed alla permanenza delle sue realizzazioni. Il problema per Freud, a questo punto della sua vita, non è la sopravvivenza degli ebrei o la sua stessa sicurezza. Ciò che è in questione, come lo è stato in una quantità di altre precedenti congiunture nel corso della sua leadership, è la sopravvivenza della psicoanalisi cosi’ come lui l’ha concepita.
Mosè, sotto questo aspetto, è quasi intercambiabile con Freud. Anch’egli è descritto come una persona che non ha bisogno della maggioranza compatta, costituita nel suo caso dai sacerdoti che si opponevano alle riforme del faraone E khnatòn. Egli è un uomo caratterizzato dalla risoluta dedizione a un’idea che cozza contro le credenze culturali prevalenti, le norme sociali e le esperienze personali. La sua astratta concezione di un Dio senza immagine e senza corpo è il confine che egli crea, cosa che lo separa dal resto del mondo. Egli è la prova immortale che un’idea può essere cosi’ trasformativa da dilagare in un intero popolo e nella sua cultura e da cambiarli per sempre. La spiritualità e l’ideologia vincono la battaglia e cambiano il corso della storia.
Questa è la prova che Freud va cercando a questo punto della sua vita. Avendo posto quasi da solo la psicoanalisi sulla scena della cultura del ventesimo secolo, egli ha bisogno di sapere che le sue idee e la sua forza spirituale continueranno immutate nel futuro. Il suo interrogativo è rivolto a se stesso e al tempo stesso ai suoi seguaci: aderiranno per sempre ai suoi insegnamenti? La sua eredità rimarrà impressa in loro per sempre, cosi’ come gli ebrei hanno interiorizzato Mosè e i suoi insegnamenti? Questi insegnamenti e queste idee resisteranno alla prova del tempo, e saranno al tempo stesso capaci di adattarsi sufficientemente al cambiamento delle circostanze?
Mosè fornisce una fonte di speranza e una risposta positiva a questo dilemma. Al tempo stesso, comunque, Freud è consapevole della dimensione tragica implicata. La posizione del leader sul confine fa di lui il bersaglio e l’oggetto dell’aggressività del gruppo. Il porsi sul confine è un atto di coraggio precisamente perchè si può essere momentaneamente trasformati nel Nemico del gruppo (Erlich, 1997). La percezione tragica che Freud ha di questo dilemma va ancora più in profondità. Affinchè l’eredità del leader sia interiorizzata, egli prima deve essere ucciso dal gruppo. La condizione per l’elevazione spirituale e l’interiorizzazione ideologica è il divoramento distruttivo della persona che le contiene e le simbolizza (Freud, 1912-13). L’assassinio, l’incorporazione cannibalesca e il culto totemico servono come fulcro dell’avanzamento spirituale, mentale e intellettuale della Geistigkeit. Le nobili altezze spirituali di cui l’uomo è capace non sono meramente dei derivati pulsionali, trasformati, sublimati e acculturati in maniera irriconoscibile. Esse divengono nuovamente reali soltanto attraverso processi trasformazionali e incorporativi connessi con le pulsioni. Le idee sono messe dentro e assimilate attraverso l’annichilimento omicida di coloro che le rappresentano. L’interiorizzazione dello spirituale [Gestig] avviene attraverso l’annientamento aggressivo del leader che ne è portatore e che lo rappresenta.
Potremmo aver voglia di discutere la visione intrinsecamente pessimistica che Freud ha dell’avanzamento della spiritualità umana. Personalmente, penso che ci sarebbe molto da dire a tale riguardo. Mi sembra che valga particolarmente la pena di considerare un particolare aspetto dell’eredità di Freud: i contenuti spirituali ed ideologici non sono certamente entità pure, non di questo mondo e non pragmatiche, come raffigurate dal mondo commerciale e cinico in cui viviamo. Non vi è aggressività che sia remotamente comparabile all’aggressività generata da un’idea. Questo fatto non dovrebbe essere liquidato come irrazionalità, per essere infine superato attraverso i nostri aspetti più razionali. Le idee e le ideologie generano cosi’ tanta aggressività e reale distruzione a causa del bisogno di uccidere i loro portatori, con lo scopo di difendere la purezza delle proprie credenze, ma anche come un passo verso l’incorporazione della loro ideologia. Questo bisogno è spesso proiettatoall’esterno, sugli altri-nemici, che devono essere distrutti in nome della purezza richiesta dall’idea. Una parte di questa aggressività è rivolta all’interno, nel gruppo, dove essa conduce alle lotte ideologiche e alla faziosità.
Vivere a Gerusalemme fornisce un’ampia evidenza del potere distruttivo delle ideologie e dei desideri di morte che le idee sono capaci di evocare. Simili difficoltà, comunque, affliggono oggi la maggior parte del mondo. Il problema dell’identità ebraica, riguardo al quale è stato detto e scritto cosi’ tanto, è radicato nell’eterno dilemma lasciato in eredità da Mosè: essere un popolo simile a tutti gli altri, o avere un destino e un compito speciali? Scegliere la seconda opzione significa vivere per sempre sul confine, cioè assumere una posizione di leadership faccia a faccia col resto del mondo, con tutto l’odio, l’aggressività e la persecuzione che ne conseguono, ma anche con tutta l’ammirazione e il fascino che questa posizione evoca ed attrae. Tuttavia la storia prova che anche quando gli ebrei preferiscono essere un popolo come tutti gli altri, rigettando e ripudiando questo ruolo unico di leadership, è probabile che altri non accettino tale ripudio alla leggera. Questo fatto sembra fornire sostegno ed evidenza alla tesi di Freud secondo cui le radici dell’antisemitismo sono nella sfera della Geistigkeit, dell’essere un volontario o involontario rappresentante dello spirituale [Geistig] per il resto del mondo. Il mondo non ripudia facilmente lo spirituale [Geistig], nè può farlo, perchè senza di esso non può essere veramente umano. Ma esso può odiare, disprezzare ed esprimere la sua ambivalenza attraverso l’odio, il disprezzo, il ripudio e la persecuzione di coloro che rappresentano lo spirituale.
Il corso dell’evoluzione umana segue, come hanno colto Darwin e Freud e come è stato confermato dalla scienza genetica moderna, un percorso ininterrotto dall’inanimato al mondo animale a quello spirituale. Freud (1920) dapprima ha messo a fuoco la transizione dalla materia inanimata a quella vivente ed ha concepito gli istinti come forze che colgono questo momento di transizione, conservandone e preservandone, nella vita, l’oscillazione dinamica, come forze duali di vita e di morte. In L’Uomo Mosè, egli focalizza l’attenzione sulla transizione dall’animismo e dal paganesimo alla fede astratta e alla dominanza della dimensione spirituale e intellettuale. Questo è lo spostamento cruciale che mette in grado la mente di immaginare e di pensare, di andare oltre la percezione e le presentazioni sensoriali verso le rappresentazioni mentali, il simbolismo e l’astrazione. E’ forse il più importante singolo passo evolutivo che il genere umano abbia fatto, strappandoci dalla stretta mortale dei sensi e delle presentazioni sensoriali. Esso richiese un’enorme energia e forze esplosive, come un liberarsi dall’attrazione gravitazionale della Terra. Queste forze derivano dalla capacità dell’uomo di odiare e di distruggere, ma anche di amare e di sperimentare il lutto, come appare nella immaginaria ricostruzione che Freud fa dell’assassinio di Mosè. Tuttavia l’esplosione scatenata da quell’omicidio, esplosione che creò il popolo ebraico, non si è mai acquietata. Come un vulcano, continua a rimbombare al di sotto della superficie, erompendo con orrenda irrazionalità e dirigendo le sue enormi energie di odio e di distruzione contro la testimoni sopravvissuti all’esplosione originaria. La lotta che creò la Geistigkeit continua a erompere nell’odio antisemita nei confronti degli ebrei.
L’antisemitismo è perciò, come Freud ha compreso, sempre intrecciato con la storia del genere umano. E’ l’ambivalenza e l’odio che noi sentiamo verso i nostri genitori per averci dato la vita e per essere esistiti prima di noi e, ancora di più, per aver rappresentato la moralità, e le limitazioni e costrizioni imposte sulla nostra libertà istintuale. Nella nevrosi, noi ci sottomettiamo a queste proibizioni genitoriali e le interiorizziamo, insieme all’idealizzazione dei nostri genitori, mentre soffriamo a causa dell’odio e dell’aggressività che inconsciamente dirigiamo verso di loro, verso noi stessi e verso i sostituti che troviamo e creiamo. Nella perversione, d’altra parte, noi non accettiamo mai nè interiorizziamo questi sentimenti e queste relazioni, e siamo impegnati in un processo distruttivo senza fine di decostruzione iconoclastica distruggendo i loro significanti, concretamente e/o simbolicamente. Il desiderio perverso è quello di creare un mondo libero dal fardello dei genitori, della moralità e della spiritualità, della storia, e delle differenze interpersonali e generazionali. L’individuo perverso vive, di conseguenza, in un mondo vuoto e desolato, nel quale solo l'”azione” e il “fare” possono momentaneamente alleviare la sua solitudine e il suo vuoto. A un livello differente, una Società perversa è predestinata all’autodistruzione e all’annichilimento del suo futuro. L’ideologia nazista rappresenta precisamente una tale soluzione perversa.
Vi è una profonda voragine fra l’antisemitismo “normale” e il nazismo.
L’antisemitismo si appoggia sull’ambivalenza nevrotica, per cui gli ebrei sono amati ed ammirati mentre al tempo stesso li si odia per tutto ciò che rappresentano. Il nazismo, d’altra parte, rappresenta il desiderio perverso (come pure il suo enactment come in tutte le perversioni) di creare un nuovo mondo, liberato dagli ebrei e dal tipo di Geistigkeit che essi rappresentano. L’ideologia nazista rappresenta il desiderio psicotico perverso di annientare la differenziazione civilizzata, accuratamente costruita sulla base del riconoscimento delle differenze fra uomini e donne, fra famiglie e Società differenti e rispettando tali differenze attraverso la Legge. Il prevalente antisemitismo tradizionale europeo ha fornito a questo desiderio psicotico il terreno fertile e l’impeto sulla cui scia impadronirsi della intera Società e della cultura tedesche, e dilagare in esse (Bursztein, 1998 [2004]). Come Freud ha cosi’ acutamente anticipato, questa acquisizione del controllo fece perno sulla leadership di Hitler, e cioè sul suo successo nell’abile sostituzione di se stesso come ideale dell’Io di un’intera nazione e di vaste porzioni dell’umanità.
Il rischio e il pericolo della mia discussione fino a qui è che essa potrebbe condurvi a pensare che l’antisemitismo, specialmente nella sua forma perversa nazista, sia una cosa del passato, un mero fenomeno storico. Tale conclusione sarebbe davvero pericolosamente fuorviante se non delirante. L’antisemitismo è vivo e vegeto, in particolare nel suo nuovo aspetto di sentimenti e di odio anti-Israele. Giacchè il mio punto di vista in questa presentazione è psicoanalitico e sociale, piuttosto che politico, non mi soffermerò su questo tema e mi limiterò a citare un mio collega, Robert Wistrich, docente di storia all’Hebrew University. In una recente intervista (ottobre 2004) egli afferma:
– Dal 1945 non c’era più stato un tale livello di preoccupazione, angoscia o depressione fra gli ebrei d’Europa come quello di cui siamo oggi testimoni. L’Europa recentemente emergente sta risultando il peggiore dei mondi possibili per i suoi ebrei.
– L’antisemitismo è un sintomo primario della patologia dell’Europa. Ogni Società che diviene seriamente infettata da esso, riceve con ciò un segnale di sveglia riguardo alla sua salute sociale, culturale e politica.
– Spesso gli stessi europei che si oppongono alle più ovvie e non controverse manifestazioni di antisemitismo lo incoraggiano, consapevolmente o inconsapevolmente, attraverso il loro atteggiamento complessivo verso Israele.
Vi è una grande somiglianza fra il dilemma dell’identità degli ebrei e quello degli psicoanalisti. Entrambi significano e simbolizzano per gli altri l’esistenza e la superiorità dell’illuminismo spirituale, che Freud considerò come il paradigma dello sviluppo umano. E per entrambi vi è un pericolo sempre presente che la scelta del loro ruolo possa essere confusa con l’essere i Prescelti, gli Eletti.
Gli psicoanalisti sono attratti dalla loro professione per la loro elevata sensibilità alle difficoltà inerenti all’integrazione fra mondo esterno e mondo interno. La pratica della psicoanalisi ci fornisce un ruolo sociale e professionale (essere uno psicoanalista e fare psicoanalisi) che permette e sanziona l’utilizzazione di questa ipersensibilità al servizio degli altri. In effetti, noi invitiamo gli altri a fare uso della nostra specifica formazione (o, se volete, deformazione) di personalità. Ma questo non significa che il problema sia stato risolto.
L’analista è costantemente sul confine fra l’interno e l’esterno, fra il fantasmatico e il reale, ma anche fra ciò che si può e ciò che non si può permettere, fra ciò che è professionale e ciò che non lo è. Sembra che di regola non ci piaccia vederci in questa prospettiva. Come per gli ebrei, essa ci pone sul confine, cioè in una posizione che comporta leadership, autorità e responsabilità: verso noi stessi, verso l’analizzando reale e il suo mondo interno, e verso la Società che rende possibile la nostra occupazione professionale ma che ha anche aspettative e richieste nei nostri confronti. Collocare noi stessi sul confine significa permetterci di essere gli oggetti di proiezioni aggressive ed omicide, ma anche di ammirazione e idealizzazione, in altre parole di transfert e controtransfert. Ma diversamente dai leader usuali, che sono ben coscienti del loro ruolo nel mondo esterno, noi abbiamo una chiara preferenza per il mondo interno, talvolta alle spese della nostra esistenza nel mondo esterno.
Queste prevenzioni hanno delle ramificazioni reali. Le stesse caratteristiche che consentono a una persona di essere un buon analista, la conducono a una vita di reclusione nel rifugio protettivo dell’istituto psicoanalitico e della stanza di consultazione. Vi è una quasi insormontabile differenza fra ciò che è accettabile come evidenza nella sfera oggettiva e ciò che lo è in quella soggettiva. Per conseguenza, l’analista frequentemente si affida all’autorità come modo di convalida di concetti e pratiche, e per stabilire standard professionali, clinici e scientifici. L’affidamento, comunemente osservato, a una specifica autorità o figura carismatica si addice all’analista in quanto si adatta bene alla sua identità interiore: essa è basata sull’identificazione e sull’interiorizzazione idealizzante (o idolizzante), piuttosto che su un esame oggettivante e distaccato.
Il risultato è ben noto: un pesante affidamento su una quantità di colleghi selezionati e consacrati, che sono riveriti e citati ripetutamente in una maniera che sostiene la propria identità, facendo sentire che si appartiene a loro e si fa parte di loro. Se questo ci richiama alla mente un atteggiamento religioso, ciò è perchè è davvero cosi’. L’intimità, la privacy e l’isolamento del lavoro analitico rendono estremamente difficile, se non impossibile, che sia diversamente.
Le connotazioni religiose trovano espressione anche in un altro aspetto: l’enfasi sulla purezza e la sua ricerca. Il bisogno di purezza, che ritengo essere universale, diviene particolarmente acuto in aree e imprese che si identificano col mondo interno, con la soggettività e con le idee (come la religione, l’anima, l’ideologia, il sè soggettivo). L’identità analitica, sopravvalutando, come fa, il mondo interno e la soggettività, è perciò incline in modo immanente alla ricerca della purezza e ad aborrire ogni cosa che la possa contaminare. Una pesante conseguenza è la tendenza alla scissione, alla controversia ideologica e alle faziosità caratterizzate da mentalità ristretta. Tutto questo è ciò che Freud, come Mosè, desiderava prevenire, ma forse in questo modo ha soltanto contribuito al fenomeno.
Consentitemi di concludere col pensiero che la lotta fra la spiritualità e l’illuminismo intellettuale da una parte e l’antisemitismo dall’altra è ben lontana dall’essere conclusa.
L’antisemitismo, dal mio punto di vista, può erompere in luoghi e culture che non hanno niente a che fare con gli ebrei. Poichè esso scaturisce dalla lotta fra gli istinti e la Geistigkeit, sarà sempre presente in una forma o nell’altra. Sarà sempre diretto contro coloro che rappresentano la memorabile transizione nella quale laGeistigkeit emerse e fu scelta al posto del soddisfacimento istintuale. Questa è l’eredità della psicoanalisi di Freud, del suo Uomo Mosè, e degli ebrei, chiunque essi possano essere a un dato momento della storia del genere umano.
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Traduzione di Francesco Carnaroli
Seminario tenuto nei Centri Psicoanalitici Italiani (Milano, Bologna e Firenze), maggio 2005
(2) Sigmund Freud Professor of Psychoanalysis, Università Ebrea di Gerusalemme. Past-president della Israel Psychoanalytic Society. Analista di training e docente della Israel Psychoanalytic Society and Institute. Rappresentante regionale europeo nell’IPA Board of Representatives.
(3) Colpisce il fatto che anche Freud era consapevole e colpito da questa nozione di confine. Due dei suoi concetti principali implicano l’essere sul confine: “la “pulsionè (Trieb) ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico” (1915, p.17). E l’Io (das Ich), il sottosistema della mente che fornisce la leadership interna, funziona come “un elemento di confine, […] [che] vorrebbe farsi mediatore fra il mondo e l’Es” (1922, p.517). Questo è in accordo con l’attuale pensiero sulle organizzazioni, altamente sofisticato.