Così lontano così vicino, verrebbe voglia di dire guardando questo film iraniano complesso e sorprendente che ci consente di gettare uno sguardo su una società e un modo di tessere le relazioni tra i generi e le generazioni da un lato così ’diverso’ dal nostro, dall’altro invece più simile di quanto potessimo immaginare.
Chissà se il regista del film, premiato a Cannes e poi sottoposto ad un grottesco provvedimento di ‘rieducazione’ artistica da parte del regime iraniano, avrà anche sentito una eco del viscontiano “Rocco e i suoi fratelli”, eco quasi inevitabile per lo spettatore italiano, soprattutto di fronte al racconto di una vera e propria epopea di trasformazioni sociali, colte però attraverso l’intreccio di relazioni familiari in cui quotidianità e drammaticità convivono fianco a fianco: più incline a toni ‘epici’ il racconto di Visconti, più con toni da commedia grottesca questo di Saeed Roustay.
Varrà la pena anche di specificare che il film precede l’ondata di proteste del movimento “Donna Vita Libertà” la cui breve stagione di speranza è stata seguita da una sanguinosa repressione tutt’ora in corso, purtroppo inabissatasi nel silenzio di fronte ad altre drammatiche crisi internazionali. Varrà la pena ricordarlo per non schiacciare troppo la lettura di un film complesso e articolato sui movimenti di protesta e le legittime istanze di libertà che abbiamo conosciuto negli ultimi mesi . La stessa protagonista del film, attrice molto nota in Iran, ha partecipato attivamente ai movimenti di protesta ed è stata incarcerata per breve tempo: questo tanto per sottolineare quanto la collocazione politica dei realizzatori della pellicola sia inequivoca ma la finestra che ci offrono sull’Iran contemporaneo forse ci consente di capire più profondamente non solo le istanze di libertà espresse ma anche quanto potrebbe essere fuorviante leggere proprio queste istanze soltanto con ‘gli occhi dell’occidente’ .
Leyla, unica femmina in una ‘fratria’ composta dai cinque figli di una coppia di anziani a suo modo affiatata ma del tutto incapace di intendere i desideri dei propri stessi figli, si trova così al centro di una rete familiare allargata in cui nessuno dei ‘fratelli’ sembra capace di trovare una propria strada nella vita, un modo per emanciparsi da una ‘povertà’ di mezzi, di risorse e di prospettive che sembra minare ogni possibilità di futuro. Con diversi accenti i ‘fratelli’, che sono però anche ‘figli’ e soprattutto figli che non possono in alcun modo correre il rischio di contestare la già fragile autorità paterna, sono tutti persi in progetti velleitari e inconcludenti o schiacciati da precoci disillusioni cosa che porterà il co-protagonista, Alireeza, il fratello più maturo e tormentato, ad affermare che “crescere è stato solo un rinunciare ai sogni e alle speranze”.
E già in questo ‘affresco’ inaugurale ci affacciamo su una realtà relazionale sospesa tra rispetto, almeno formale, delle tradizioni e precarietà del vivere quotidiano: fabbriche che chiudono relegando in una dipendenza avvilente, canali televisivi sintonizzanti su improbabili incontri di wrestling e tentativi di riscatto attraverso concorsi di body-building o promesse di affari mirabolanti. Sembra quasi, mutatis mutandis, di trovarsi in un’atmosfera da film di Ken Loach in cui un intero tessuto sociale mostra tutte le sue ‘sfilacciature’ e l’incrinatura profonda dei legami tra le generazioni.
Questa è probabilmente la cifra più potente e drammatica del film: il rischio di una frattura insanabile tra le generazioni, tra padri e figli, e forse ancora più radicalmente, figlie, frattura che con modalità apparentemente molto distanti sembra invece poter accomunare ‘oriente’ e ‘occidente’.
Quel vero e proprio ’furto di futuro’ -evocato da Cecilia Ieri nella appassionata discussione seguita alla proiezione del film nella giornata conclusiva della rassegna ‘Buio in sala’, curata da Stefania Nicasi, Vincenza Quattrocchi e Rossella Vaccaro- riguarda allo stesso modo paesi in cui i padri sembrano non voler in alcun modo accettare di morire o semplicemente di ‘passare la mano’, come nel caso di Leyla e i suoi fratelli, e paesi come quelli occidentali in cui i padri sembrano scomparsi dall’orizzonte psichico e antropologico, fallendo in entrambi i casi nel loro cruciale ruolo di ‘garanti’ della continuità della vita culturale tra le generazioni. Vita culturale che appunto non significa né rispetto cieco e ‘mortifero’ di tradizioni né tantomeno abdicazione completa a un ruolo differenziante.
E così al centro della narrazione emergono le figure di Leyla, giovane ma che sembra aver precocemente rinunciato ad una sua vita affettiva e a una sua realizzazione personale a favore di una necessità di riscatto della sua intera generazione, dei ‘fratelli’ appunto, e la figura del padre, anziano e umiliato dalla vita, anche lui ancora in cerca di una qualche forma di rivincita. Fratelli troppo schiacciati da un sentimento di tenerezza e di rispetto per un padre anziano, tirannico e fragile contemporaneamente, da cui non riescono in nessun modo a svincolarsi, di fronte ai quali Leyla sembra l’unica che possa e debba assumersi la responsabilità di un gesto fatale: prendere a schiaffi il padre nel culmine drammatico del film. Gesto talmente ‘sacrilego’ da sembrare inaccettabile anche per il fratello più scapestrato e inaffidabile.
Ancora più che una ribellione il gesto di Leyla sembra un estremo tentativo di ‘risvegliarlo’, di richiamare l’attenzione sulla china inesorabile di ‘assenza di futuro’ in cui tutti i ‘figli’ sembrano immersi.
Qualcosa può cambiare solo se i padri accettano di morire e le figlie compiono il loro destino tragico di ribellione, sembra questa la drammatica ‘sentenza’ che suggella il film. Certo rispetto alle nostre consuete rappresentazioni delle dinamiche e delle conflittualità familiari sorprende il ruolo assolutamente marginale della presenza materna, schiacciata in una posizione di totale adesione al ruolo coniugale, nemmeno avvertibile come suggeritrice occulta e vera ‘manovratrice’ delle scelte dei figli maschi in particolare, come spesso accade invece negli assetti familiari delle aree medioorientali. Basti ricordare a tale proposito che un autore come Shudir Kakar, recentemente scomparso, sottolineasse come, a dispetto della posizione sociale svantaggiata delle donne nell’area indiana, la figura materna-femminile esercitasse invece un potere assoluto sui figli, in particolare maschi, fino a descrivere una specifica configurazione edipica indopakistana in cui il figlio non si sottrae mai realmente al potere materno e la figura paterna resta marginale, certo ci sarebbe poi da chiedersi se e che legame sussiste tra questa posizione inconscia del materno e l’effettiva condizione di subalternità delle donne in questi gruppi sociali. Nel nostro caso però è al padre che sono riservate tutte le attitudini di rispetto/sottomissione da un lato, ma anche di affetto e tenerezza da parte dei figli maschi soprattutto. Secondo le nostre griglie di lettura diremmo che si assiste ad una valorizzazione culturale della configurazione dell’Edipo invertito, in cui i figli maschi aspirano soprattutto all’amore del padre: visto nello specchio dell’alterità culturale il dominio di una dimensione omosessuale maschile che pervade e sostiene l’impalcatura stessa dell’organizzazione sociale appare evidente, ed ecco perché ribellarsi a tutto questo sembra un gesto impossibile per dei figli maschi per i quali è inimmaginabile una ‘destituzione’ del paterno, oggetto di un amore identificatorio incondizionato e incontrastato. Destituirlo, sottrarsi al suo potere contrastando apertamente il suo volere, sembra esporre ad angosce insostenibili perché l’intero tessuto simbolico del proprio gruppo sociale viene messo in discussione, il nucleo stesso delle identificazioni strutturanti sul piano collettivo viene attaccato . Ed ecco perché Leyla, invece, più libera dai vincoli identificatori con l’origine e con l’autorità, può compiere il gesto di svelare la vanità e l’egoismo di un padre risentito e sconfitto, ma non per questo meno ingombrante nell’orizzonte psichico dei figli, riscoprendo in questo culmine drammatico, all’interno di un film invece punteggiato di accenti ironici e dissacranti, la figura di eroine tragiche come Medea, Antigone, Ifigenia, Fedra: figure femminili costitutivamente scandalose che ‘scardinano’ i poteri simbolici e mettono radicalmente in crisi ogni forma di ‘legittimità’ riconosciuta.
Il padre di Leyla alla fine silenziosamente si spegne, sembra accettare di farsi da parte e di lasciare che il figlio lo pianga e che le nipotine festeggino e giochino rumorosamente, che il suo stesso mondo vada avanti senza di lui verrebbe da dire…riusciranno ad accettarlo anche altri padri ed altre autorità…smettendo di condannare le figlie e di togliere futuro ai figli? Questa domanda, per il momento ancora senza risposta, sembra suggerire l’amara chiusura del film..
Una domanda che forse ci impegna a una responsabilità collettiva ancora più stringente nel nostro mondo contemporaneo, così profondamente interconnesso anche quando sembra radicalmente distante, possano verificarsi dei veri e propri ‘effetti farfalla’ non solo sul piano fisico ma anche sul piano sociale, per cui un battito d’ali ad occidente può stravolgere la vita di una lontana famiglia iraniana che vede il suo debito, e in questo senso il suo stesso destino, raddoppiare in pochi minuti in seguito a un “tweet di Trump” e alla sua immediata ricaduta sulle quotazioni monetarie: ma cos’è questo tweet, una nuova arma americana? chiederà allora l’anziana madre di Leyla, con una delle battute più indovinate del film. Armi da usare allora con grande prudenza, visti gli effetti che possono avere anche all’altro capo del mondo sulla vita di tante persone… così lontane così vicine.