Il caftano blu, il secondo lungometraggio della regista e sceneggiatrice marocchina Maryam Touzani, racconta una storia ambientata nella bottega tradizionale nella quale il malem (maestro) Halim (Saleh Bakri) confeziona e ricama il caftano, l’antica veste musulmana di origine persiana, mentre la moglie Mina (Lubna Azabal) si occupa del rapporto con i clienti. Mina sembra gestire quasi ogni aspetto della vita della coppia, in casa come in negozio, mentre Halim appare quasi sottomesso. Tuttavia Mina valorizza profondamente le qualità del marito, il suo amore per il dettaglio e la sua passione per la bellezza. La loro relazione, intessuta di abitudini costruite negli anni, fatta di lunghi silenzi, scarne parole, piccoli gesti e profondi sguardi densi di comunicatività, è attraversata anche da momenti di allegria e divertimento (particolarmente espressiva è la scena in cui Mina mima la cliente altezzosa ed esigente che non comprende la qualità del lavoro di Halim).
Halim e Mina sembrano inizialmente una coppia di mezza età come tante altre, ma ben presto lo scorrere della narrazione rivela che nel loro matrimonio c’è un non detto, qualche cosa che si sa ma di cui non si può parlare: l’omosessualità di Halim, che intrattiene fugaci incontri sessuali con altri uomini, probabilmente nell’accettazione silenziosa della moglie, con la quale Halim ha un rapporto molto solido, intessuto di profonda complicità.
Scopriamo poi che Mina ha una grave malattia, un tumore al seno, che rallenta i ritmi del lavoro fino a rendere indispensabile assumere un apprendista per soddisfare le pretese dei clienti più esigenti. Entra così in scena il giovane Youssef (Ayoub Missioui) che, con il suo carattere mite e la sua passione per il lavoro, attira subito l’attenzione di Halim. È attraverso i suoi occhi che lo spettatore intuisce con naturalezza la complessità del rapporto tra Halim e Mina e alcuni dei suoi aspetti più segreti.
A un livello di struttura narrativa di superficie, il film racconta la ben nota storia di un triangolo amoroso: lei, lui, l’altro. Con un’importante differenza: l’altro ama (ricambiato) lui e non lei. La storia è tuttavia molto più complessa.
Mentre entrambi, Mina e suo marito, scoprono la nascente attrazione tra Halim e Youssef, Mina (e Halim) diventano sempre più consapevoli della sua condizione terminale. La gravissima malattia di Mina svolge una sorta di funzione enzimatica che orienta il dipanarsi della vicenda.
Il film racconta tre forme di amore e di relazione diverse l’una dall’altra, che si intrecciano in un percorso che unisce Halim, Mina e Youssef e li trasforma profondamente, sia nel loro assetto psichico che nelle loro reciproche relazioni.
Mina è all’inizio tesa, irritabile, talvolta scorbutica. Appare molto preoccupata per gli affari e il denaro. Quando percepisce l’attrazione fra il marito e il giovane apprendista, allontana Youssef con una ingiusta accusa di furto. Il ragazzo subisce e non protesta. Halim, pur avendo probabilmente compreso che l’accusa è ingiusta, non lo fa notare alla moglie, anzi le è vicino in modo affettuoso e allegro. Progressivamente Mina si fa tuttavia sempre più dolce e comprensiva, e arriva a riconoscere l’ingiustizia inferta al ragazzo e a scusarsi con lui. Il suo animo muta gradualmente fino a intuire che l’amore del marito per il ragazzo potrà aiutarlo a vivere e a evolvere, fino a immaginare una sorta di ‘passaggio’ di amore fra lei e il ragazzo. La sua rinuncia a sottoporsi a ulteriori cure e lasciarsi morire, accudita dall’uomo che la ama ricambiato, diventa così anche un atto d’amore. Youssef non rompe una relazione solidissima, piuttosto ne raccoglie il testimone.
Halim appare sottomesso, ma si intuisce anche la forza insita nella sua pazienza e resilienza. Mina è per lui colei che ha riscattato un’infanzia infelice e svalorizzante (una madre morta prematuramente, un padre sprezzante forse perché aveva intuito l’omosessualità del figlio). Il suo modo di amare è la rinuncia alla sua vera natura, omosessuale, che vive in modo discreto e occultato, ma anche inevitabilmente triste e forse umiliante, nei bagni turchi maschili, con sconosciuti. Per non ferire Mina, Halim rinuncia a una parte autentica e fondante di sé. La sua trasformazione coincide con il coraggio di vivere, sempre con grande discrezione e gentilezza, e con il supporto affettuoso e comprensivo della moglie, il suo autentico amore per Youssef, abbandonando il sesso compulsivo e umiliante dei suoi rapporti segreti e nascosti.
Il film lascia intuire che Halim riuscirà a comporre dentro di sé sentimenti ambivalenti e drammaticamente contraddittori, quali il dolore per la perdita di Mina e la consapevolezza che la sua morte lo “libera” da un legame che, seppure lo abbia profondamente sostenuto fino a quel momento, costituisce anche un limite alla sua possibilità di riconoscere la sua propensione più autentica e non avere più “paura di amare”, come Mina stessa lo esorta a fare poco prima di morire.
Youssef si inserisce nella relazione di Mina e Halim dapprima in modo perturbante e disturbante, poi, man mano che ne percepisce le componenti più intime, con discrezione, rispetto e amore. Youssef incarna la capacità dell’attesa, il rispetto per i tempi e il silenzio dell’altro, la perseveranza del sentimento. È significativo che, in questa paziente attesa, lui diventi sempre più bravo ed esperto nell’arte di ricamare il caftano, giungendo a trasformare in bellezza il suo desiderio, e la sua attesa.
Le trasformazioni che attraversano i tre protagonisti trasformano Youssef da minaccia a potenziale risorsa, simbolo di una possibile evoluzione nel modo di concepire l’omosessualità, la bellezza e l’amore, liberato almeno in parte da pregiudizi conformistici. Mina, superando la gelosia e il senso di esclusione iniziale, giunge ad amare Youssef in quanto amore futuro di Halim, forse vivibile in un possibile futuro nel quale sia possibile accettare una relazione omosessuale senza nasconderla nei gabinetti dell’hammam. La scena che maggiormente comunica quanto sia profondo l’intreccio tra i tre personaggi è quella del ballo intrapreso da Mina, Halim e Youssef su una melodia marocchina coinvolgente che proviene dalla strada, con un gioco di sguardi che trasmette accettazione, amore e complicità.
Altrettanto libero nei confronti di tradizioni strutturanti ma troppo limitanti è il dono finale che Halim fa a Mina, che accompagna alla tomba rivestita del magnifico caftano blu che Mina amava tanto e che Halim (e in parte anche Youssef) aveva ricamato con tanta paziente perizia, anziché vestita dell’anonima tunica bianca prescritta dalla tradizione. Un caftano magnifico, del colore più pregiato di tutti, il blu, simbolo di una tradizione artigiana che va scomparendo, che va mantenuta ma trasformata per poter evolvere verso una libertà personale più autentica.
Così come i personaggi comunicano e si capiscono per gesti minimi, per movimenti impercettibili, la confezione del caftano è fatta di infiniti piccolissimi punti, ognuno indispensabile nella sua infinita minuzia.
Così, il caftano blu che Halim confeziona diventa, con la sua bellezza, il frutto e al tempo stesso il tramite dell’unione tra i tre protagonisti, arricchendo la storia di note sensoriali e sensuali.
Il caftano blu è un film nel quale i dettagli, anche i più minuti, appaiono fondamentali e capaci di impreziosire una storia apparentemente tradizionale. “Ormai nessuno è più capace di farli. Guarda i dettagli di questi ricami, la perfezione di queste curve… è ancora splendido come se fosse nuovo”, dice Halim a Youssef porgendogli un antico caftano. Come accade con i caftani preziosi che Halim ricama, che racchiudono la fatica, la pazienza e l’amore che la bellezza esige, solo chi sa prestare attenzione ai dettagli e si prende il tempo necessario per guardarli e apprezzarli, può scoprire che Mina e Halim condividono un amore che neanche la morte può cancellare.
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