Francesco Carnaroli (2010), Figure della sofferenza femminile oggi. Note a margine del libro “Figure del femminile”. Relazione presentata al seminario di Formazione Psicoanalitica – Firenze, La Colombaria, 6 febbraio 2010 Figure del Femminile
6 febbraio 2010 , La Colombaria, Firenze
Seminario su Figure del femminile
Intendo qui presentare alcune riflessioni sulla specificità della sofferenza psichica femminile nel nostro mondo contemporaneo occidentale. Lo farò soffermandomi su alcune configurazioni di relazioni oggettuali e su alcuni quadri clinici che sono stati descritti nel libro Figure del Femminile (a cura di Amalia Giuffrida). Nel leggerlo, si è colpiti dal fatto che vi emergano alcuni temi convergenti, nonostante la diversità delle griglie teoriche utilizzate dai 14 autori. Nella lettura complessiva dei capitoli (uno dei quali scritto da me) mi sono sentito stimolato dalla percezione di una non voluta, non cercata, non concordata convergenza.
A mio parere forse l’aspetto più interessante del libro è che esso riesce a coniugare psiche e storia, mostrando alcune trasformazioni nel mondo interno femminile nel corso delle ultime generazioni. Tali trasformazioni mostrano come i cambiamenti ambientali e in particolare della struttura familiare incidano nella stessa configurazione delle fantasie inconsce e nel percorso dello sviluppo psicosessuale femminile.
In Le catene di Eros (1997, 209) André Green ha scritto: “Nella misura in cui la sessualità infantile dipende dalle identificazioni coi genitori e da come i genitori stessi hanno integrato nella loro vita e nei loro fantasmi la sessualità, il modo in cui intervengono modellando lo psichismo (quindi la psicosessualità) del loro bambino provoca alla lunga dei cambiamenti di cui non percepiamo ancora tutte le conseguenze”.
Seguendo Green, Amalia Giuffrida si domanda (nella sua Nota introduttiva a Figure del Femminile) “se i cambiamenti di costumi e le trasformazioni culturali avvenuti nell’epoca attuale potranno a lungo termine produrre dei rimaneggiamenti significativi nelle configurazioni fantasmatiche inconsce a noi note. L’inconscio potrebbe allora modificarsi nella sua essenza stessa e questo non solo nel registro dei suoi meccanismi regolatori difensivi, ma, soprattutto, nel registro dei suoi contenuti rappresentativi” (5).
Mi interessa sottolineare l’accenno che Green e Giuffrida fanno ai tempi lunghi delle trasformazioni fantasmatiche. Le configurazioni fantasmatiche cambiano per l’influenza dei mutamenti ambientali: ma lentamente. Un po’ per le identificazioni che si trasmettono di generazione in generazione. Un po’ per l’angoscia di disorganizzazione del Sé che viene vissuta sulla soglia del cambiamento identitario, così da determinare inerzia, resistenze, coazione a ripetere: un vero e proprio aggrappamento al già noto.
Ma anche questa tensione lacerante tra il vecchio e il nuovo fa parte delle forme identitarie femminili contemporanee.
Nel cercare di delineare alcuni dei temi convergenti presenti in Figure del Femminile, terrò in particolare considerazione due dimensioni:
1) La prima è rappresentata dalla struttura triangolare, costituita da: il rapporto di coppia tra i genitori, il rapporto madre-bambina, il rapporto padre-bambina, e anche il rapporto che la coppia genitoriale ha nel suo insieme con la bambina.
2) La seconda dimensione è costituita dall’asse temporale, che va dal rapporto madre-neonata, all’emergere del terzo (figura paterna), fino al rapporto della adolescente con la propria famiglia, col proprio corpo e con le proprie fantasie sessuali e di maternità.
Cercherò di muovermi sul crinale tra realtà ambientale (ossia la realtà della madre, del padre, della coppia genitoriale…) e il riverbero di vissuti fantasmatici della bambina che ne influenzano lo sviluppo del sé.
LA COPPIA DEI GENITORI (ESTERNA ED INTERNA)
Come nota Sarantis Thanopulos nel suo contributo al libro, si rimane stupiti di fronte al frequente “disquisire su ciò che è caratteristico della donna o dell’uomo senza partire dalla loro assoluta interdipendenza e complementarietà” (45).
Uno dei temi in cui la realtà esterna e il vissuto fantasmatico sono strettamente interrelati è costituito dalle qualità che pervadono il rapporto di coppia dei genitori: se esso è appassionato o se è un rapporto per così dire fra separati in casa; se esso pur nella complementarietà è paritario e reciprocamente attivo oppure asimmetrico; e, se è asimmetrico, in che senso lo è.
È noto ormai da tempo che sia il bambino che la bambina cominciano ad avere sensazioni genitali fin dalla prima infanzia. Scrive Lichtenberg (1989, 283): “A partire dalla prima infanzia, la comparsa di erezioni e di vascolarizzazione vaginale durante il sonno REM e in stati di veglia indica che l’esperienza vissuta che contribuisce al senso del Sé emergente include una sensazione genitale che innesca un qualche livello di piacere sensuale”. Tali eccitamenti sono i più arcaici precursori di quella che Irene Ruggiero (2009) ha definito la “montata pulsionale” della pubertà.
Come nota uno degli autori di questo libro, Gianluigi Monniello, al tempo della pubertà si pone un’esigenza di elaborazione psichica (definita il “pubertario”), affinché il fascio emergente di sensazioni ed emozioni non risulti traumatico. “Il pubertario è per la psiche l’equivalente di ciò che la pubertà è per il corpo” (146).
Penso che tale elaborazione inizi fin dall’infanzia, e che – in condizioni ottimali – essa si appoggi in particolare su due fattori: 1) in primo luogo la presenza di una madre rispecchiante che dà un nome al genitale femminile favorendone la trascrizione psichica (Micati, 1999); 2) in secondo luogo – a partire dal momento in cui si è ormai formata la rappresentazione mentale del padre – il vissuto percettivo interiorizzato dei due partner genitoriali che rappresentano un legame affettuoso, uno scenario relazionale sullo sfondo del quale assumono senso le sensazioni genitali emergenti. Questo abbinamento corpo+relazione che conferisce senso, non può avvenire se i due genitori sono percepiti come presenze fra loro separate, ciascuna nel suo compartimento stagno.
Se da un lato la percezione del vitale legame di coppia dei genitori ingenera dolorose fantasie di esclusione, dall’altro essa innesca fantasie evolutive, riguardo agli scenari della crescita. Non solo, ma essa costituisce anche un fattore di sicurezza nella vita affettiva della bambina, nel senso che l’oggetto coppia, anche se attaccato, dimostra di sopravvivere. Come afferma Winnicott ne “L’uso dell’oggetto” (1969), la sopravvivenza dell’oggetto agli attacchi che contro di esso vengono attuati permette un non invischiamento nel senso di colpa e costituisce un passo decisivo verso l’individuazione.
Al contrario, la percezione della separatezza stagnante fra i genitori conferma la fantasia onnipotente di separarli (favorendo con ciò un’infiltrazione di sensi di colpa paralizzanti). Inoltre, tale percezione (come ho mostrato nel mio contributo al libro) fomenta nella bambina il fantasma di un “legame mancante” tra i genitori (Britton, 1989), con connesso diniego della coppia generativa: il che ostacolerà nella bambina la proiezione nel proprio futuro della realizzazione di un legame generativo.
A una tale configurazione (reale e di fantasia), si accompagna spesso lo sviluppo di un legame incestuale (Racamier, 1995) fra la bambina e uno dei due genitori: ossia vi è un incesto senza agito, anzi con la condivisione di un patto denegativo (Kaës, 1994) secondo cui i genitali non esistono. Tale configurazione attiva nella bambina il diniego del corpo erotico.
Come nota Monniello nel suo contributo (149), “se il rapporto madre lattante è stato particolarmente difficile, la relazionalità simbiotica sarà più cospicua fra la bambina e il padre”.
La madre che sia impigliata in un difetto di contatto con sé, inevitabilmente fornisce alla bambina un rispecchiamento difettoso, con conseguenti carenze di trascrizione psichica delle sensazioni ed emozioni del suo Sé emergente. Perciò il diniego del corpo erotico spesso avviene in due tempi: prima per mancato riconoscimento del genitale femminile da parte della madre, poi perché il corpo erotico deve essere denegato nel rapporto simbiotico/incestuale col padre, destinando la bambina a continuare a percepirsi e ad essere percepita come bambina.
Accade anche spesso che la bambina che ha avuto carenze nella relazione primaria rispecchiante con la madre, non trovi un padre a cui appoggiarsi in simbiosi, e si ritrovi invischiata in un rapporto pseudo-simbiotico con la madre, dai forti tratti intrusivi: una intrusività materna a cui la bambina si adatta per un certo tempo a mo’ di surrogato, ma a cui presto si opporrà: scenario fantasmatico intersoggettivo che ad esempio è spesso alla radice dell’anoressia. L’intrusività materna, poi spostata sul maschile, dà poi spesso luogo a quella che un nostro collega (Cotrufo, 2005) ha chiamato l’“anoressia del sessuale femminile”.
Prima accennavo alla attuale preziosa opportunità di un legame di coppia paritario e reciprocamente attivo. Una modalità di relazione in cui il genere maschile non è depositario dell’essere attivo, e in cui il genere femminile non è depositario della drammatizzazione psicoculturale della passività, con annessa inibizione della capacità di pensiero e di azione.
Ciò nel tempo di oggi, e nello spazio dell’Occidente, è possibile. Questa è una delle opportunità offerte dalla realtà psicostorica attuale. Anche se entrambi i generi sessuali sono di fondo capaci di piena attività, e possono reciprocamente riconoscerselo, tuttavia (e ciò è da leggersi in chiave di coazione a ripetere, in chiave di inerzia dei modelli psichici nonostante i cambiamenti della realtà storica) molto spesso il genere sessuale femminile si trova incanalato in uno di questi due vissuti e comportamenti: 1) Il primo sembra essere segnato dalla trasmissione transgenerazionale di un modello tradizionale del femminile, in cui alla repressione e alla non trascrizione psichica del genitale femminile si accompagna un’inibizione intellettuale. Gilda De Simone (116) ci ricorda – nel suo contributo al libro – un noto passo di Freud (in “La morale sessuale ‘civile’ e il nervosismo moderno”, 1908): “Ritengo – dice Freud – che l’indubbia inferiorità intellettuale di tante donne sia da imputarsi all’inibizione di pensare, necessaria alla repressione sessuale”. In questo tipo di configurazione psicosessuale, il femminile è bloccato in una posizione di attesa passiva: io donna sono la bella addormentata nel bosco, che sempre aspetta il suo principe che la sveglierà, e prediligo più di tutti il gioco del nascondino. Mi nascondo e mi rendo invisibile perché voglio essere trovata (Schaeffer, 2007, 21). Ma tale gioco erotico – inibendo la ricerca attiva dell’altro – determina anche una inibizione sociale e intellettuale – perché non viene attivamente ricercata l’articolazione del proprio sentire nel dialogo.
2) La seconda configurazione fantasmatica e comportamentale in cui la donna rischia di incanalarsi costituisce una reazione meccanica oppositiva alla precedente: io donna mi vendico senza fine su di Lui, mettendolo sotto, scegliendo dei “lui” che me lo permettano e che siano degni di un tale trattamento, oppure scegliendo una persona uomo degna della parità e reciprocità ma ignorando questa opportunità. Questa modalità sembra costituire una reazione di superficie rispetto a paure profonde di resa passiva, che emergono dalle memorie e dalle immagini transgenerazionali. Spesso un corollario ne è un prolungato o definitivo rifiuto della maternità, la quale, se da un lato è desiderata, dall’altro è fantasticata come una trappola che provocherà il trionfo del ruolo del femminile come mero involucro, contenitore delle presenze identitarie altrui.
CARENZE DELLE MADRI
Nel breve corso di due (forse tre) generazioni, vi è stato un enorme aumento di donne che, pur inserite nella struttura della famiglia, con marito e (a decrescere) con figli, non provano alcun appassionato piacere né nel rapporto di coppia, né nella maternità.
Molto spesso questa carenza dei piaceri affettivi relazionali di base viene giustificata come conseguenza dell’eccessivo impegno nel lavoro, nel quale viene investito ogni proprio pensiero, come per farne un guscio respingente, che difenda da ogni altro bisogno.
La madre dunque si è sposata, ha avuto rapporti sessuali, ha partorito, è nata una figlia, ma al contempo essa ha mantenuto un’anestesia emotiva rispetto a questi eventi (sia la coppia che la genitorialità), rapportandosi a loro in maniera concreta, estranea al contatto profondo. Tipiche le madri che dicono “ti ho dato tutto”, e con ciò non possono rappresentarsi altro che l’accudimento concreto.
La figlia, poi, è cresciuta basandosi sullo zoccolo duro di una tale identificazione primaria, e ne è segnata: può apparire sessualmente emancipata rispetto alla madre, ma nella mente ha un buco laddove potrebbe esservi la rappresentazione di un rapporto di coppia stabile, affettuoso, generativo. Riguardo al desiderio di maternità, esso è impossibilitato ad emergere poiché sono carenti le fantasie di maternità interiore.
E qui vi è uno dei luoghi di convergenza del libro: il rifiuto (o l’impensabilità) della maternità.
Inserendosi in questa descrizione delle patologie del rispecchiamento materno, Malde Vigneri (“Essere donna oggi: l’attacco alla maternità”) racconta un sogno della paziente Sara, 35 anni, “una ‘ragazza’ sempre alle soglie della vita, immersa in un’aura adolescenziale”. Il sogno: “vedevo mia madre salire su una scala e la vedevo vacillare, la vedevo perdere l’equilibrio. Io non mi muovevo e la vedevo cadere e farsi un male terribile. Mi avvicinavo a lei e le sussurravo astiosamente: scusami se non ti ho aiutato. Lei si trasformava in un forno a microonde che vomitava e divorava dei topini piccoli come embrioni rosa e senza pelle” (14).
La madre è odiata perché non ha saputo essere madre: potremmo dire scusati se non mi hai aiutato, se mi hai lasciato cadere e farmi molto male; e se mi hai vomitato come un embrione rosa e senza pelle.
La madre è inconsciamente odiata sia perché non ha svolto il suo ruolo di contenitore, di madre-ambiente, sia perché non ha dato modo alla figlia di interiorizzare la rappresentazione di uno spazio interno femminile procreativo. Ma inoltre, infine, da questa madre “forno a microonde” è difficile distaccarsi, perché è difficile la separazione quando essa è pesantemente gravata dal senso di colpa. Tale senso di colpa taglia le gambe a un’individuazione diversa e schiaccia la figlia su un destino simile a quello della madre, ma se possibile (vendicativamente?) più radicalmente sterile.
Maria Teresa Palladino (“Antichi dilemmi e nuove declinazioni del femminile”) ci parla di due generazioni di pazienti: le vecchie madri che hanno avuto “difficoltà nell’espressione di sé nell’area sessuale […] [ma alle quali] è sembrata invece accessibile l’area legata alla maternità”; e le giovani donne, che appaiono “più libere tanto nell’espressione del loro desiderio sessuale, quanto nel permesso che si accordano di realizzarsi in ambito lavorativo, perseguendo anche obiettivi di alto profilo” (25).
La diffusione dei mezzi anticoncezionali ha permesso una distinzione fra sessualità e maternità, nel senso che quest’ultima può essere una scelta, volontaria e responsabile. Se da un lato questo nuovo scenario storico rappresenta ovviamente un dato positivo, dall’altro ad esso possono aggrapparsi parassitariamente delle problematiche fantasmatiche per cui la maternità non è distinta, bensì scissa dalla sessualità. Spesso il rapporto di coppia viene vissuto non come affettuoso spazio creativo e procreativo, ma come “storie brevi”.
CARENZE DEI PADRI
Manuela Fraire, nel suo contributo, mostra come vi sia stato un progressivo scollamento fra quella che sarebbe funzione del padre (terzo edipico desiderato dalla madre, portatore di autorità e di immissione nell’ordine culturale) e l’attuale realtà concreta di padri depotenziati, deboli.
Una parte di responsabilità di tale problema sta sulle spalle delle madri: infatti il padre a cui primariamente accede il figlio è quello che gli è presentato dalla madre, con le connotazioni che lo caratterizzano nella mente di lei. La svalutazione del rapporto di coppia da parte della madre fa sì che per il bambino sia difficile interiorizzare l’immagine di un legame che gli preesiste e da cui egli è stato generato.
Fatta questa premessa, i padri deboli esistono sempre più nella realtà, a prescindere dalla rappresentazione che ne hanno le rispettive mogli. Padri deboli, che si fanno facilmente mettere in disparte, depressivamente demotivati e deresponsabilizzati.
Come scrive Fraire (173): “Una funzione paterna che possa raggiungere un’efficacia simbolica ha bisogno di una riserva libidica a cui attingere per mantenere la forza e la vitalità dello slancio che gli consente di intro-mettersi tra madre e figlio”.
Nell’esperienza clinica si ascoltano molti pazienti che parlano con angoscia e rabbia della debolezza del padre come genitore e come uomo.
Una prima ragion d’essere di tale rabbia, in ambo i sessi, è che un padre debole, simbolicamente già morto, non può essere simbolicamente ucciso. Si assiste cioè, come nota Monniello (148) – alla “pervasiva difficoltà di elaborare appieno la fantasia di parricidio, lavoro psichico irrinunciabile nell’adolescenza, vista l’eccessiva debolezza della vittima designata, il padre edipico”.
Un secondo motivo di risentimento riguarda la figlia, nella misura in cui essa, nel periodo dell’elaborazione psichica della propria pubertà (il “pubertario”), non si sia sentita accompagnata dallo sguardo del padre, che la riconoscesse come donna così come prima l’aveva riconosciuta come bambina. Le è allora mancata quella “scintilla negli occhi del padre” (Piccioli, 2007) che le avrebbe permesso di interiorizzare la prefigurazione di un futuro che la attende e l’accoglie.
BIBLIOGRAFIA
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Racamier P.-C. (1995). Incesto e incestuale. Milano, Franco Angeli, 2003
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