Introduzione al seminario Figure del Femminile del 6 2 2010 Fitrenze Accademia La Colombaria
Maria Grazia Vassallo Torrigiani
La questione del femminile in psicoanalisi: uno sguardo prospettico
Partirò da una citazione di Freud, del 1932: “Questo è tutto quello che avevo da dirvi sulla femminilità. È certo incompleto e frammentario e non sempre suona gentile […]. Se volete saperne di più, interrogate la vostra esperienza, o rivolgetevi ai poeti, oppure attendete che la scienza possa darci ragguagli più approfonditi” (Introduzione alla psicoanalisi. Lez. 33: La femminilità. p. 240-41).
Rivolgetevi ai poeti, all’esperienza e alla scienza. Permettetemi di interpretare liberamente questo invito, e di curvare l’accezione di questi tre termini al mio personale intento introduttivo alla nostra giornata. Cosa troviamo volgendoci ai poeti, ossia alla dimensione simbolica dell’arte, o in generale alle grandi narrazioni che sostanziano l’immaginario e la fantasmatica collettiva, e circolarmente da quest’ultima sono sostanziate? Per inciso vale la pena di segnalare che ci sono tesi mitopoietiche che si incentrano sul corpo,come quella di Otto,o di Gehlen, secondo il quale “la conformazione del corpo può essere trasposta nel cosmo e nello spazio abitato, così come il cosmo viene ritrovato nel microcosmo corporeo”; detto in altri termini, è come se trasformando ed elaborando l’esperienza del corpo e nel corpo, l’umanità avesse cercato di conoscere e rappresentarsi il mondo.
Volgendoci dunque a questa dimensione, lo sguardo ci restituisce comunque l’enigma, incontrando rappresentazioni del femminile contraddittorie o “poco gentili”, per dirla con Freud, con la donna invocata a rappresentare quanto di più elevato o di più infimo l’umanità possa concepire, da dono divino di salvezza e cantico sublime di beatitudine sensuale e spirituale, a vaso di Pandora di ogni nefandezza, che condanna il genere umano all’esilio dall’Eden.
La riflessione antropologica, d’altro canto, ha messo in luce come la donna abbia rappresentato l’oggetto di scambio per eccellenza, attraverso cui gli uomini hanno costruito alleanze tra loro e gettato le basi dell’organizzazione sociale e culturale. E tuttavia oggetto inquietante, la donna, segno ambivalente di vita e di morte, associata da sempre alla sfera incontrollabile e misteriosa della natura da cui l’uomo ha cercato costantemente di affrancarsi attraverso il controllo e il dominio, e ripercorrendo la storia del pensiero filosofico occidentale, da Platone a Hegel, Luce Irigaray (Speculum. L’altra donna,1974) ha lucidamente mostrato come il femminile sia sempre stato considerato nei termini di materia-madre-natura, da sottomettersi allo spirito, al logos maschile.
Di nuovo tornando a Freud, rivolgiamoci ora alla scienza. In una nota aggiunta successivamente ai Tre Saggi, si può leggere: “È indispensabile chiarire a se stessi che i concetti “maschile e femminile”, il contenuto dei quali appare così privo di ambiguità all’opinione comune, appartengono nella scienza ai concetti più confusi e debbono essere suddivisi almeno in tre direzioni. Si adoperano le parole maschile e femminile ora in senso di attività e passività, ora in senso biologico e infine in senso sociologico” (p.525).
Pur se nel prosieguo della nota Freud afferma che il più utilizzabile nella psicoanalisi è il primo significato – quello che chiama in causa la coppia attività/passività – riconosce tuttavia che:”[…] non si riscontra una virilità pura né in senso psicologico né in senso biologico”. E né in senso sociologico, aggiungiamo noi, e con maggiore enfasi rispetto a quando Freud scriveva questa nota, epoca in cui rigide norme socioculturali pretendevano di circoscrivere nettamente gli ambiti di attività propri degli uomini e delle donne. Del resto, dopo più di quarant’anni di impegno clinico e teorico, verso la fine della sua vita (Analisi terminabile e interminabile, 1937) Freud riconobbe che la femminilità rimaneva per la psicoanalisi un “continente nero”, ancora in gran parte da esplorare, dichiarandosi – lui Freud – quasi rassegnato a che gli strumenti scientifici della sua disciplina trovassero un limite invalicabile nel “rifiuto della femminilità” sia nell’uomo che nella donna, rifiuto da lui definito “la roccia basilare”, “un dato di fatto biologico”, non ulteriormente scomponibile ed analizzabile.
Nonostante alcune perplessità, e le cautele che accompagnarono Freud nel percorso di elaborazione della sua ipotesi teorica sul femminile; nonostante egli riconoscesse, nel’31, di aver preso atto con sorpresa della scoperta di “una antica era preedipica nella femmina” – di una civiltà minoico micenea precedente a quella greca – nel dibattito che intorno agli anni ’30 animò i circoli psicoanalitici, Freud rimase sostanzialmente fedele alle proprie posizioni: monismo sessuale fallico, complesso di castrazione, invidia del pene, con conseguente debolezza del Super-Io, masochismo e narcisismo. In altre parole, identica nei due sessi è la prima fase dello sviluppo psicosessuale: la bambina è in tutto e per tutto un maschietto, fino alla fatale scoperta della differenza anatomica. Fatale, sì, perché ne determinerà il destino: lo sviluppo della femminilità originerebbe da quella scoperta, e il suo dispiegarsi – in primis nella eterosessualità edipica – avverrebbe sotto il segno della mortificazione per una mancanza e dell’invidia per ciò che non si ha, sotto il segno dell’odio per chi è simile a sé, proseguendo nel permanere per tutta la vita in una condizione di infantile indipendenza dall’uomo-padre, da cui poter ricevere l’agognato figlio-pene come simbolico risarcimento. Alcune sue allieve – Lamp-de Groot, Bonaparte e Deutsch – si mostrarono “più realiste del re” e per esempio, laddove Freud descrisse il “masochismo femminile” sia negli uomini che nelle donne – riferendosi ad una particolare fantasia infantile in relazione al padre – queste analiste ne accentuarono il collegamento con la sessualità femminile, fino ad affermare, con Deutsch, che il parto rappresenterebbe per la donna l’acme di gratificazione erotica e piacere masochistico. Altri allievi contestarono le opinioni del maestro. La questione ruotava soprattutto sul considerare o meno la femminilità come una specie di formazione reattiva costruita su un fondamento maschile. I contributi critici più rilevanti furono quelli di Horney, Jones, Klein, che pur con argomentazioni diverse sostennero l’esistenza di una “femminilità primaria”, in qualche modo ancorata al biologico, una oscura precoce consapevolezza della vagina e di sensazioni vaginali destinate a subire un ripudio difensivo per le ansie che vi si connettono, con la conseguenza che l’invidia del pene – costrutto pur clinicamente utile – è da interpretarsi non tanto come organizzatore indispensabile della femminilità, quanto nei termini di operazione difensiva.
Mi pare importante sottolineare come ciò ampliasse la visione di un’esperienza femminile della propria anatomia non solo come “mancanza”, ma anche come “presenza” di qualcosa – per quanto oscuro e di difficile rappresentazione – e che il volere per sé il pene, oltre che impossessamento invidioso, potesse esprimere anche una difesa se non un desiderio libidico propriamente femminile. Inoltre, più o meno esplicitamente, il padre del complesso di castrazione lasciava posto alla civiltà minoica della primitiva relazione con la madre, che tanto spazio doveva andare ad occupare nel pensiero di Melanie Klein.
Il dibattito sul femminile si riaprì una trentina di anni dopo, tra gli anni ‘60 e ’70. La “scienza” psicoanalitica, dal monismo dottrinale iniziale, si era ormai ampiamente coniugata all’ “esperienza” dei suoi tanti ricercatori: e qui uso il termine “esperienza” come la cornice che fa da sfondo e indirizza lo sguardo, esperienza che segna in quanto esseri umani, in quanto soggetti sessuati, in quanto soggetti inseriti in determinate tradizioni culturali. La teoria freudiana sul femminile viene dunque inquadrata, declinata ed interrogata da differenti prospettive e arricchita da una molteplicità di contributi. Per esempio la Psicoanalisi Nord-Americana, e cito solo i nomi di Baker-Miller, Chodorow, Benjamin, su uno sfondo culturale attento alla dimensione sociale, alle istanze del femminismo, permeata dall’Ego-Psychology che postulava un’area dell’Io libera da conflitti, e variamente intrecciata alle teorizzazioni di Klein o di Chasseguet-Smirgel, accentuerà molto l’esistenza di una fonte originaria della femminilità che si pone come aconflittuale e precedente alla percezione della differenza sessuale. Da questa impostazione discende il nuovo concetto di Gender Identity, definito originariamente da Stoller come la consapevolezza di appartenere ad un sesso e non ad un altro, che andrebbe a costituirsi a partire da una stadio primario, aconflittuale – ce ne sarà un secondo, risultante invece dal conflitto – che è tuttavia altro rispetto alla “femminilità primaria” degli europei. In Gran Bretagna, la cui tradizione intreccia studi empirici e interesse per la dimensione evolutiva, il pensiero psicoanalitico kleiniano già prima del ‘60/’70 aveva operato un ribaltamento degli assunti freudiani sull’origine della femminilità, e dunque in quegli anni si riprendono in esame e si riconfigurano vecchi concetti-chiave, grazie alla pubblicazione di Psicoanalisi e femminismo della Mitchell, nel ’74, e della traduzione del volume di Chasseguet-Smirgel nel ’70.
Grande vitalità nel nuovo dibattito venne infatti introdotta dalla psicoanalisi francese, di tradizione più interdisciplinare, con una passione per l’approfondimento metapsicologico e vivacizzata dalla lettura lacaniana di Freud. Il volume collettaneo: Ricerche psicoanalitiche sulla sessualità femminile, curato da Chasseguet-Smirgel (1964), divenne un punto di riferimento imprescindibile. Il costrutto teorico”invidia del pene” – sulla scia di quanto già ipotizzato nel dibattito del ’30 da Jones, Horney, e Klein – viene riletto da tutti gli autori non come organizzatore della femminilità, bensì come meccanismo difensivo di cui si prospettano nuove, possibili funzioni: protezione contro un pene minaccioso o pericoloso (Luquet-Parat), salvaguardia contro la madre orale divorante o anale controllante (Chasseguet-Smirgel), o ancora come espressione del desiderio di riparare la madre e di rimanere il suo oggetto di desiderio( McDougall). Il narcisismo e il masochismo femminili vengono riposizionati da Grunberger dal vertice delle relazioni d’oggetto, nel legame pre-edipico madre-figlia. Chasseguet-Smirgel, teorizza uno “specifico senso di colpa femminile”, connesso alla più generale componente istintuale sadico-anale dello sviluppo psicosessuale nei due sessi. Nelle bambine, al momento del cambio di oggetto – quando lasciando la madre si volgono al padre come oggetto di investimento libidico – a fronte del desiderio intrinsecamente femminile di incorporare il pene paterno, la componente aggressiva risulterà più difficilmente integrabile, andando incontro a rimozione e contro investimento. Tutto ciò avrà notevoli conseguenze sul successivo sviluppo psicosessuale femminile (vedi masochismo) e influirà negativamente sulla possibilità di realizzazioni in qualunque ambito possa assumere un inconscio significato fallico.
Il pensiero francese contemporaneo complessizza e rilancia la difficoltà di definire il femminile, a partire dalla sua stessa accezione semantica. È un pensiero che interroga il femminile, e la sua trasmissione di base, nella preistoria della relazione con la madre, in quella arcaica dimensione segnata dall’onnipotenza materna e dall’impatto di questa presenza sul bambino, assumendo a fondamento della sessualità infantile il rapporto con chi “si prende cura”, in quanto l’Io-corpo si costituisce anche nell’incontro con l’oggetto di accudimento. L’orientamento teorico generale, pur con accenti diversi nei differenti contributi, è sotto il segno della “sessualizzazione dell’arcaico”, per usare un’espressione di Godfrind. È stato Laplanche con la teoria della “seduzione generalizzata” (1987), a proporre con forza una visione non desessualizzata delle cure che l’adulto presta al bambino, cure che attraverso la comunicazione corporea veicolano un messaggio sessuale e sessuato in cui la tenerezza è infiltrata dalla fantasmatica sessuale inconscia dei genitori. L’impotenza e l’immaturità psicofisiologica del bambino si incontrano con questo “messaggio enigmatico”, con questa eccedenza non contenibile e non rappresentabile, che in maniera traumatica, con una sorta di “violenza primaria” – per dirla con Aulaguer – fonderà la nascita del sessuale.
Sullo sfondo di questa concettualizzazione, Andre sostiene che l’intrusione della sessualità inconscia dell’adulto costringe il bambino ad una posizione passiva, intesa come apertura recettiva all’altro, e definisce questa condizione il “femminile” dell’origine, che può essere fonte di angoscia e di rifiuto per entrambi i sessi.
Anche Cournut (1993) propone di pensare al femminile come ad una categoria dell’umano, non specifica della donna, qualcosa di assimilabile all’oscura memoria di una passiva e totale impotenza, di una resa all’altro che fonderebbe, in entrambi i sessi, la matrice dello sviluppo psicosessuale nell’incontro originario del neonato con la rêverie materna, da cui solo successivamente evolverebbe la progressiva specificazione d’appartenenza all’uno o all’altro sesso.
La nuova prospettiva sul materno e sulla rêverie materna, non solo come contenimento e attivatore della vita psichica, ma anche come attivatore di una pulsionalità che introduce alla sessualizzazione, apre anche un altro percorso di indagine: quello sul “sessuale femminile” che, come sostiene Giuffrida è stato rimosso o oscurato in psicoanalisi dal “materno” e dalla idealizzazione del seno che nutre. C’è anche un seno erotico, con cui è necessario individuare le connessioni; c’è un erotico materno, e a questo proposito Parat parla della “l’impossibile divisione” tra il seno che nutre e il seno erotico, integrazione che ogni donna deve faticosamente elaborare per poter rispondere all’intensità pulsionale del suo bambino senza massicce rimozioni e senza derive perverse.
Si tratta di una dimensione ombra, sia nell’esperienza individuale delle donne sia nell’indagine psicoanalitica, molto probabilmente per l’inquietudine che suscitano fantasmi di derive incestuose, e fantasmi che rinviano all’eccesso pulsionale proprio della sessualità femminile. Ma di tutto questo ci parleranno i nostri ospiti, che a partire dalla ricchezza e originalità dei contributi presenti nel libro, ci mostreranno “in vivo” l’attuale stato dell’arte del pensiero psicoanalitico italiano sul femminile.