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Meterangelis G. (2021) Ascolto e pensiero clinico: incontro tra psicoanalisi e salute mentale

                                                                “ Possiamo  immaginare un                                 

                                                                   analista muto, ma non un

                                                                   analista sordo”

                                                                   Leopold Nosek  (cit da S. Akhtar)           

In un lavoro pubblicato sull’IJPA nel 2005, Evelyne Schwaber, l’analista che più di altri ho posto l’attenzione al tema dell’ascolto in psicoanalisi si chiede:” Che cosa ascoltiamo, le modulazioni, le allusioni, i toni, le parole, o ciò che viene dopo? Che cosa succede dopo?” ed ancora “ In che modo ascoltiamo?” La sua risposta a queste domande è che ascoltiamo con le nostre convinzioni e con ciò che abbiamo imparato a vedere. Mi sembra che questo presupposto teorico non solo sia ancora pertinente ma ci mette nella condizione di considerare che i modi con cui ascoltiamo sono in relazione agli sviluppi teorici non solo della psicoanalisi ma anche di quella che è stata l’evoluzione dell’organizzazione dei Servizi psichiatrici territoriali e dei suoi modi di rapportarsi alla sofferenza psicologica dei pazienti. Penso che uno dei maggiori contributi che la psicoanalisi ha dato al lavoro nei Servizi psichiatrici pubblici,  ampliando i suoi dispositivi teorici ,sia stato quello di “dare conto dei contesti  e delle forme nei quali la vita psichica inconscia può essere giocata nell’incontro con l’altro dotato di capacità di ascolto analitico” (Bastianini T. 2018, 6)  E al contempo ritengo che uno dei contributi che il lavoro sul territorio ha dato, indirettamente alla psicoanalisi attraverso gli analisti che in questi lavorano, sia stato quello di permettere loro di sperimentare quanto i pazienti gravi mettessero in crisi il loro consueto modo di trattare psicoanaliticamente i disturbi mentali, e di  sperimentare quanto fosse difficile avvicinare l’obiettivo di un processo di appropriazione soggettiva, essenza del lavoro psicoanalitico. Inoltre non si riusciva a capire, e forse dovrei dire non riuscivamo a capire, visto che ho lavorato per circa trenta anni in un Centro di salute mentale, con la mia soggettività di psichiatra psicoanalista, come il dispositivo analizzante potesse essere concepito e adattato in funzione delle situazioni cliniche che ci trovavamo di fronte. I Servizi ci  hanno costretto a confrontarci con un caleidoscopio di patologie che difficilmente arrivavano alla osservazione negli studi privati. Non mi riferisco solo ai pazienti psicotici o borderline, abituali fruitori dei servizi, che mettono in crisi con il loro atteggiamento di non collaborazione tutto il servizio, sia per le specifiche caratteristiche dei setting istituzionali, che per le particolari situazioni in cui si incontrano,  e per i tempi a volte molto rapidi o a volte troppo lunghi in cui si devono prendere delle decisioni per loro o con loro. Ma soprattutto perché il loro funzionamento mentale e le caratteristiche delle loro esperienze soggettive non possono essere avvicinati con i metodi per noi consueti. Ma non sono  solo questi pazienti a mettere in crisi le capacità acquisite in questi anni di lavoro istituzionale, ma anche un certo numero di pazienti, che con il tempo sono sempre di più aumentati di numero, e che pur non appartenendo all’area dei disturbi tradizionalmente considerati difficili, si presentavano e si presentano con una loro gravità da trattare, e con richieste non solo di trattamenti farmacologici ma di  aiuto psicoterapeutico.  Mi riferisco a tutte quelle patologie che ritengo abbiano a che fare con l’azione: attacchi di panico, disturbi del comportamento, disturbi alimentari, varie forme di dipendenza ed altro.  E’ nel lavoro istituzionale che abbiamo compreso che entrambe le forme di patologia hanno una base psicopatologica comune e cioè che buona parte della loro esperienza soggettiva passa per il non verbale, e che questo per essere ascoltato  passa per varie modalità di agire, di comportarsi e di interagire nelle relazioni. Siamo arrivati al riconoscimento, quindi, che l’azione veicola una comunicazione priva di parole. Questa comprensione ha spinto molti di noi operatori a mettere in atto nuove modalità di ascolto che ci hanno permesso di avvicinare non solo aree della mente non affrontabili subito con un lavoro di simbolizzazione, ma anche di considerare che in tutte le articolazioni del servizio, e non solo nella relazione duale, è importante partire dalla convinzione che solo l’instaurazione di una relazione diversa da quella da sempre vissuta dai nostri pazienti, può fare intraprendere loro un percorso di cambiamento, e che l’azione terapeutica in questi contesti si concretizza in una nuova esperienza emozionale correttiva. “Ascoltare le comunicazioni nascoste  o prive di rappresentazione, si è rivelato nel tempo uno strumento utile per comprendere la natura intersoggettiva di ogni forma di relazione e ad  impedire forme di collusione ed enactment  che spesso si manifestavano fra gli intensi bisogni psicologi dei pazienti, le richieste spesso pressanti delle famiglie di soluzioni a volte definitive dei problemi ed a volte magiche, e le percezioni dei curanti oscillanti fra impotenza e grandiosità degli operatori.”(Boccara,2019). Mettere in relazione l’agire con il pensare   ha permesso a noi psicoanalisti di avvicinare nel privato analiticamente pazienti e patologie un tempo considerati difficilmente curabili. Possiamo affermare che il lavoro nei servizi ci ha spinti a pensare che il nostro lavoro è sempre “ai confini della pensabilità”, E che l’azione ci rivela un dimensione dell’inconscio che non è quello della rappresentazione simbolica rimossa, ma di un inconscio più ampio di questo, e che è possibile sovrapporre questo inconscio alla memoria implicita la quale  contiene esperienze che non rimosse subiscono un processo difensivo dissociativo, automatico ed innato,  esperienze che permangono in una condizione di  presimbolizzazione, il cui destino è quello o di permanere in una loro rigidità e staticità, o di  manifestarsi attraverso l’azione.  Riflettere analiticamente anche su questi aspetti dissociati, privi di rappresentazione simbolica e quindi nascosti, ci ha indotti anche a considerare la partecipazione soggettiva dei curanti alle dinamiche relazionali, e a valutare entrambe le dimensioni , e a considerartle non solo utili, ma anche  ulteriori strumenti di lavoro. 

 

 L’azione, l’enactment e la dissociazione

 

 La prima considerazione da fare è che questi tre concetti sono interdipendenti l’uno dall’altro, e che non si attivano simultaneamente. . 

 La Ginot (2017), ci dice che l’azione negli individui  viene messa in atto costantemente attraverso: “mappe, abitudini, apprendimenti ben radicati che costituiscono un sistema inconscio del Sè; in altre parole esistiamo nell’azione o in una inerzia attiva”.  Questa per manifestarsi può seguire due modalità di espressione: l’acting out che è un atto compiuto per espellere sia da parte del terapeuta che del paziente , un’energia che è sia in eccesso, quindi non elaborabile dalla mente, sia senza un significato psichico, e  l’ enactment  che  già delle prime formulazioni teoriche  non fu considerato come “passo falso” all’interno dei trattamenti psicoterapici ma come una forma di comunicazione a doppia induzione, fra paziente e curante, che era inevitabile e, quando riconosciuta, opportuna all’avanzamento del processo.  L’enactment   è  stato, anche, considerato una specie di “teatro dal vivo”, il cui obiettivo è quello di riconoscere il significato dello scenario nel quale si sono sviluppate le relazioni, allo scopo di “demistificare alcune esperienze traumatiche precoci”, cariche di affetti intollerabili, che in quanto tali vengono dissociate  determinando la simbolizzazione dell’esperienza, e\o inseriti in interazioni sè-altro rigide che trovano una espressione solo  attraverso l’azione.  Sapisochin (2007) considera l’enactment come il modo “di ri-presentare, portare nel presente, un trauma con nessun ricordo verbale, registrato come un gesto psichico”. L’enactment, quindi, è una comunicazione che richiede che il terapeuta si interroghi sulla sua partecipazione per permettere il passaggio di esperienze non formulate, in quanto traumaticamente precoci, da una condizione di non simbolizzazione e di dissociazione ad una condizione di simbolizzazione e verbalizzazione. L’enactment, inoltre, nella teorizzazione data da Jacobs (1991) è uno dei modi “con cui l’analista arriva a conoscere e comprendere i conflitti infantili del paziente attraverso l’evocazione dei conflitti infantili paralleli nell’analista”, utilizzando la sua soggettività piuttosto che il suo controtransfert. L’incontro delle due soggettività ed i fenomeni psichici che si attivano all’interno della loro relazione, possono permettere alle esperienze non formulate e a quelle traumatiche precoci, difficili da riconoscere, proprio perché, non integrate e dissociate, di essere svelate e formulate. Come sostengono Borgogno e Vigna-Taglianti (cit. da Shore) “nei pazienti, per esempio, in cui la sofferenza psichica nasce da trauma preverbali…il transfert si presenta prevalentemente nel dialogo analitico ad un livello più primitivo di espressione, che coinvolge in maniera inconscia ….anche l’analista oltre che il paziente…Queste forme più arcaiche della vicenda di transfert-controtransfert, che sovente prescindono dai contenuti verbali, prendono vita nel setting analitico attraverso veri  e propri enactment reciproci”. L’enactment, pertanto, è uno strumento concettuale, messo in atto dalla coppia terapeutica, e vissuto nella stessa coppia , e  permette di ascoltare  , anche, ciò che si è co-costruito nel qui ed ora dell’interazione, è una forma di comunicazione che viene espressa in una maniera drammatizzata che ricalca un copione relazionale inconscio, che il più delle volte è del paziente, ma che in alcuni casi appartiene all’analista. L’enactment è, quindi, una rivelazione non intenzionale che non sempre riguarda la soggettività del terapeuta, e che sempre, invece, riguarda qualcosa di inconscio ed importante per il paziente. 

 Sapisochin (2021) chiama questo agire “un agire non motore“, una verbalizzazione inconscia che sta al di là delle parole che vengono dette e che già Freud aveva intuito quando nel saggio “L’Inconscio” afferma:” E’ assai interessante che l’Inc di una persona possa reagire all’Inc di un’altra eludendo la Coscienza”.  L’inconscio, da questo punto di vista, non può essere considerato solo come qualcosa che deve essere svelato, ma anche come una esperienza potenziale che non è mai stata pensata verbalmente o rappresentata simbolicamente, e che Donnel Stern (2019) considera come una “esperienza non formulata…vagamente organizzata, primitiva, globale, non ideazionale e affettivamente satura.” Una esperienza che non potendo essere pensata deve essere agita. L’impossibilità a pensare , secondo il modello relazionale, è la conseguenza di traumatismi relazionali, vissuti nel passato e nel presente,  non prodotto di fantasie inconsce, ma come causati da eventi, sicuramente inconsci, che possono essere conosciuti solo nella relazione terapeutica ed il più delle volte solo attraverso enactment. Con questo non intendo dire che ciò che viene interpretato come enactment risponde al “vero”, qualsiasi interpretazione ha in sé un valore ermeneutico, ma l’enactment coinvolgendo entrambi i partecipanti all’azione e avendo fonti inconsce sia per il paziente che per il terapeuta, ha un suo punto di partenza nel coinvolgimento di quest’ultimo e  negli schemi relazionali di entrambi.         

Il trauma impedisce la ritrascrizione della memoria e questa viene congelata, non permettendo al sé del bambino di fare esperienze di natura evolutiva. Le esperienze traumatiche quando ripetute, si andranno as inscrivere non sottoforma di eventi , ma sottoforma di una conoscenza “di caratteristiche negative del sé”:  una forma di narrazione abortita non costituita di episodi di una storia personale  ma “di fatti,” che la persona deve imparare  a proposito di sé (Mears, 2000) Non si deve dimenticare che il bambino in questa fase ha una capacità limitata di dare un senso  e un significato agli stati emotivi che sperimenta, non è in grado , ad esempio, di identificare nel genitore la fonte del traumatismo. Pertanto ciò che accade è che sposta su di sé l’origine degli eventi dolorosi attribuendosene la responsabilità. Il genitore che è la fonte di questa disregolazione non può portare aiuto e conforto, tutto questo porta a sviluppare narrazioni caratterizzate da frammentazione. In conseguenza di ciò il bambino trae conclusioni distorte sul proprio valore , rimanendo di solito inconsapevole dell’origine di queste attribuzioni  negative.  Le storie che costruiamo con i nostri pazienti ci raccontano, prevalentemente, degli effetti  delle proiezioni inconsce parentali, cariche di affetti,   sulla loro vita relazionale passata,  presente e nel transfert. 

Sapisochin chiama queste proiezioni parentali   gesti psichici che sarebbero , quindi, modi alieni di entrare in relazione con gli altri che si  strutturano  nello psichismo del bambino e ne condizionano lo sviluppo futuro. Questi  gesti psichici sono sequenze di immagini cariche di affetti dolorosi prodotto di interazioni distoniche, presenze che non subendo il processo di rimozione, invadono lo psichismo determinando un eccesso di interazioni emozionalmente cariche, che impediranno la trasformazione  ad un livello di simbolizzazione e verbalizzazione, e che, quindi,  potranno essere colte solo attraverso l’azione. Ipotesi questa che differisce da quella di altri teorici che attribuiscono al vuoto la problematicità di questa fase dello sviluppo. Particolarmente evocativa di questa ipotesi è una citazione riportata da Lipton e presa da un libro sull’Olocausto,  per cui il figlio di un sopravvissuto dice:” L’evento più importante della mia vita è accaduto prima che nascessi.” (cit da E. Schwaber 2005)   

    L’enactment, pertanto, contiene sempre aspetti di questo passato dissociato, collegando processi sensoriali con processi motori per connettere il passato con il presente (Bohleber 2007).   Nell’enactment si rivive l’esperienza traumatica dissociata, congelata nel corpo come memoria affettiva o somatica, questa, da parte del paziente, si attiva quando viene percepita una mancata sintonizzazione affettiva da parte del terapeuta. Esperienza che  in quanto molte volte non pensata non può essere  verbalizzata, ma espressa in varie forme che assumono i caratteri di risposte sintomatiche. Poichè le rotture della relazione sono inevitabili (Kohut, 1977) anche gli enactment lo sono, diventando per questo, momenti decisivi del percorso terapeutico, testimonianza, anche, del fatto che qualcosa sta cambiando all’interno della coppia al lavoro. 

La comprensione di questo aspetto può portare, attraverso la riparazione, alla verbalizzazione di aspetti transferali, che riattivano schemi relazionali inconsci soffusi di affettività negativa, che, se non riconosciuti, sarebbero rimasti chiusi all’interno di un bozzolo “non me” (Bromberg, 2011). La riparazione è un processo permesso dalla accettazione del fallimento empatico del terapeuta e dalla sua disponibilità a mettersi in discussione, superando i propri sensi di colpa e di onnipotenza, con una maggiore attenzione ad un ulteriore ascolto del paziente. Quando il processo riparativo è completato, può creativamente fornire una esperienza relazionale correttiva, attraverso l’elaborazione di quelli stessi affetti negativi proiettati sul terapeuta, e sulla riparazione reciproca co-costruita, dando, quindi, al transfert lo statuto di configurazione sia ripetitiva che evolutiva. Queste rappresentazioni presimboliche, attraverso l’azione, vengono attualizzate dal terapeuta che se riconoscerà l’enactment potrà rendere visibile al paziente il transfert e a sé stesso il controtransfert. 

Questa considerazione ha aperto la strada alla discussione sull’utilità del concetto di enactment, molti analisti hanno posto le seguenti domande: era necessario questo concetto quando nel nostro bagaglio teorico abbiamo il concetto di transfert-controtransfert?, e che questa è una diade indissolubile all’interno di un campo intersoggettivo? E che il controtransfert può permetterci di accedere a ciò che il paziente non riesce a verbalizzare?. L’ enactment acquista una sua importanza teorica solo all’interno di una visione del rapporto terapeutico inteso come incontro di due soggettività. La soggettività del terapeuta porta al controtransfert, questo seppure in maniera non facilmente decifrabile, si esprime in modi che non necessariamente sono da mettere in relazione ai temi transferali del paziente. Questo non ci porta ad escludere che, in alcuni casi, l’enactment può svelare il controtransfert, che a differenza dell’enactment, che si rivela sempre dopo che viene agito dal terapeuta, a volte viene riconosciuto ed evitato. 

Il concetto di enactment libera da una connotazione resistenziale l’azione, riportandola in un contesto teorico in cui trovano spazio le implicite collusioni che inconsciamente si organizzano fra terapeuta e paziente (Boccara, Meterangelis, Riefolo 2018).

 

La Dissociazione

 Bromberg (2009) sostiene che la nostra mente normale è composta da una molteplicità di stati del sè-altro, e ciò che rende la vita spontanea e creativa in situazioni di complessità è la relazione flessibile fra stati del sè-altro attraverso l’uso della dissociazione. Questa permette di selezionare quelle configurazioni sè-altro che abbiano una capacità adattativa “dentro le costrizioni di una coerenza di sè”. E’ la flessibilità fra le configurazioni che permette alla persona di negoziare rimanendo sè stessa pur cambiando, seguendo un principio di simultanietà. In questa modalità la dissociazione si interfaccia dialetticamente con il conflitto, in modo tale che questo possa essere eventualmente risolto. 

Ma la dissociazione si attiva anche quando la stabilità del sè è assalita da affetti caotici e traumatici, alienando configurazioni che non sono accettabili con le esperienze fatte. Nei contesti traumatici, vissuti in periodi evolutivi in cui la memoria autobiografica si è sviluppata e le rappresentazioni simboliche sono in opera, è possibile come suggerisce Ferryhoush (2013 cit. da Ginot) che la dissociazione sia un processo volontario e che il trauma rimanga all’interno della coscienza senza che venga elaborato. Inoltre la dissociazione non è solo una misura difensiva in sè ma è la conseguenza della stessa situazione traumatica che rende vana la possibilità di utilizzare altre difese.  Il riconoscimento della dissociazione, reso possibile attraverso gli enactment, dà la possibilità di rivelare vissuti relazionali ed affettivi implicitamente inconsci dei due partecipanti permettendo un’altra via di accesso all’inconscio ‘non rimosso’.

Anche gli studi sull’età evolutiva hanno messo in evidenza i modi con cui le varie fasi dello sviluppo contribuiscono alla costruzione dei processi inconsci non rimossi. Da alcuni anni, grazie agli studi sulle prime interazioni non verbali nell’infanzia, e a quelle verificate in ambito di psicologia cognitiva sulla codifica delle esperienze psichiche, è stato possibile documentare ciò che la psicoanalisi dello sviluppo aveva empiricamente teorizzato, ovvero che il bambino alla nascita ha una innata capacità a rivolgersi verso l’altro, e che la prima forma di relazione fra la madre ed il bambino avviene attraverso la comunicazione inconscia fra i due. 

Questa “comunicazione inconscia”, come sostiene D. Stern (2015), evidenzia che “il bambino può mettersi nella pelle della madre”, grazie ad una sua innata capacità imitativa che gli permette di riprodurre le espressioni facciali e motorie della madre, oltre che cogliere le emozioni legate a queste percezioni. Queste azioni imitative compiute dal bambino non sono nè un riflesso nè un’esperienza appresa, ma avvengono attraverso un innatismo che è detto “transmodale”, cioè mediante la capacità di ricevere un segnale attraverso una modalità percettiva, ad esempio quella visiva, e replicarla in un’altra modalità, ad esempio uditiva. Ciò permette al bambino di cogliere caratteristiche dell’oggetto e di astrarre categorizzazioni di esperienze prototipiche generalizzate, che vengono registrate a livello psichico, anche se in forma rudimentale, come una complessa costruzione di rappresentazioni presimboliche. Da queste ‘rappresentazioni presimboliche’, già verso la fine del primo anno di vita, il bambino sarà in grado di riconoscere le manifestazioni comportamentali dell’oggetto individuandone le congruenze e, di conseguenza, sarà anche in grado di costruirsi ‘aspettative’. Questo processo si manifesta come un dialogo co-costruito all’interno di un contesto intersoggettivo formato dalla diade madre-bambino. Nell’adulto questa modalità di continua traduzione transmodale delle percezioni e del comportamento sono alla base del concetto di Attività o processo Referenziale (AR) di Wilma Bucci, ovvero il processo di continuo collegamento bidirezionale e reciproco di ogni elemento non simbolizzato prodotto da chi parla colto in modo simbolizzato da chi ascolta.



 

Azione terapeutica e inconscio relazionale

 

 Negli ultimi 30 anni, in coincidenza con la chiusura degli Ospedali psichiatrici e l’apertura dei servizi territoriali, si è andata modificando la concezione dell’azione terapeutica. Gli operatori hanno considerato che non solo dovevano fare riferimento alla loro mente contenitiva per farsi carico del  dolore dei loro pazienti, ma hanno anche appreso che nonostante questa disposizione terapeutica oltre che umana, molti pazienti, soprattutto fra i più gravi rifiutano per paura e per diffidenza di accogliere l’aiuto che gli viene offerto, per inconsce motivazioni inerenti ad angosce di tipo transferale, cioè la convinzione che anche in un nuovo contesto sperimenteranno ciò che nel loro percorso evolutivo hanno già sperimentato. Questa dinamica ci ha spinto a pensare che al di là della nostra determinazione cosciente, sperimentiamo anche noi paura e diffidenza allo stesso modo dei nostri pazienti. Ma abbiamo anche imparato a riconoscere che queste emozioni invece che essere considerate un ostacolo, in quanto aspetti della nostra soggettività e non solo proiezioni del paziente, possono essere utilizzate come un nuovo strumento di lavoro.  Mitchell sostiene che ogni relazione terapeutica è data da  “… un’interazione tra due persone, ognuna delle quali porta con sé le sue dinamiche, le sue passioni, le sue idee e, più in generale la sua soggettività”.  Abbiamo compreso che questa interazione diventa l’interprete di “quel qualcosa in più” (Stern D., 2005) che non è possibile cogliere solo con i tradizionali strumenti di cui siamo in possesso.. Si tratta, allora, di riflettere sugli elementi strutturali che intervengono negli incontri tra un terapeuta e un paziente, soprattutto là dove il contesto di realtà pone limiti, e determina in modo netto l’organizzazione del setting nel quale si opera.  Si pone, quindi, una riflessione sul ruolo della soggettività dei terapeuti all’interno della relazione. 

Aron L. (1996) ritiene che come la teoria psicoanalitica nella sua evoluzione si è incentrata sulla madre come oggetto dei bisogni del bambino, trascurandone la soggettività, così è stata trascurata anche la soggettività dei curanti per come viene vissuta dal paziente, considerando anche il curante, solo come un oggetto. Questo nonostante il fatto che la psicoanalisi abbia riconosciuto il controtransfert come uno strumento indispensabile per conoscere meglio il paziente, trascurando, però, il ruolo dell’esperienza del terapeuta in termini non di risposta al transfert del paziente, ma come espressione della sua soggettività sollecitata dal transfert e dalle identificazioni proiettive del paziente. 

Ciò chiaramente non esclude le risposte controtransferali al comportamento del paziente, ma molte volte il termine controtransfert oscura il dato che spesso è il terapeuta ad iniziare la sequenza interattiva.  A questo proposito Th. Jacobs (2007) si chiede se “tutte le esperienze interiori dell’analista, tutti i sogni, i sogni ad occhi aperti, le fantasie e i ricordi che sorgono mentre lavoriamo siano connessi in modo significativo al paziente”. 

E pur non avendo una risposta certa riporta una interessante ricerca del collega Morton Rieser il quale, mediante l’uso di brain imaging, ha trovato che tutte le narrazioni del paziente che un terapeuta ascolta, i conflitti ed i suoi interessi sono immagazzinati nella stessa area cerebrale dei ricordi del terapeuta, delle sue fantasie ed esperienze. Questi circuiti di memoria, sostiene, si intrecciano e si sovrappongono cosicché, in particolari situazioni di ascolto, è altamente verosimile che tutto ciò che affiora nella mente dell’analista in fatto di ricordi personali, sogni ad occhi aperti e quant’altro, sia in connessione con quello che è “sul vertice della coscienza” del paziente.

Ma questa evidenza sperimentale può essere di per sé spiegata, non solo con i meccanismi lineari della identificazione proiettiva, la quale ha certo un suo ruolo in alcuni momenti della relazione, ma anche con quelli circolari di risonanza e sintonizzazione affettiva e dei continui feed back affettivi che accompagnano il moving along, il procedere insieme dell’interazione. E, inoltre, dai fondamentali processi della comprensione empatica dovuti alla immedesimazione. 

La ‘brain imaging’ nulla ci può dire riguardo alle diverse organizzazioni mentali soggettive, ai modi impliciti e simbolici di organizzare l’esperienza del paziente e del terapeuta, cioè ai loro principi organizzatori interni che possono essere più o meno congiunti o disgiunti. Il racconto del paziente di scene ed episodi della sua infanzia susciterà nel terapeuta una risonanza e ricordi della propria infanzia i quali, pur consistendo nella stessa area cerebrale, potranno essere affettivamente molto diversi da quelle del paziente. Così come il racconto di un sogno sarà tradotto in immagini molto differenti da quelle viste dal paziente che rimangono inconoscibili al terapeuta (2000, Boccara. Gaddini, Riefolo). L’ affettività del terapeuta e i suoi affetti vitali occupano un posto fondamentale sia nella comprensione che nella costruzione della duplice dimensione del transfert. 



  • Infine. Una possibile sintesi.

 

Ho cercato di segnalare come la nozione di ‘inconscio rimosso’ concerne solo una piccola parte dell’inconscio che, evolvendosi le neuroscienze e l’interesse per la dimensione relazionale e intersoggettiva della psicoanalisi e delle terapie ad essa orientate, viene a dialogare- in una dimensione processuale, con un inconscio rimosso. Non si tratta, quindi di proporre un inconscio rispetto ad un altro, ma di ampliare – come soprattutto le neuroscienze da almeno 20 anni propongono – il concetto di inconscio (Ginot, 2015). In questa linea,  ciò che viene immagazzinato nella memoria implicita, quindi ‘non rimossa’, sono tutte le rappresentazioni sè-altro, non solo quelle intollerabili vissute come esperienze traumatiche, prodotto, quindi, non di una conflittualità pulsionale, ma di una conflittualità fra il sé e l’altro, o meglio di una conflittualità fra aspetti alieni depositati dall’altro nel sé del bambino, accanto a comportamenti già di natura difensiva  che il bambino ha messo in essere per proteggersi dall’angoscia. Le rappresentazioni simboliche con quelle presimboliche, collaboreranno alla formazione dello schema del senso del sè e dell’altro.

 

 I dati, a cui ho fatto cenno  provenienti sia dalla ricerca neurobiologica che dagli studi sull’età evolutiva, non devono mai essere presi come dati che sopravanzano quelli provenienti dal lavoro clinico, ma come uno stimolo teorico per andare alla ricerca di corrispondenze delle nostre ipotesi teoriche, che avranno come definitiva base di verifica le nostre osservazioni .  




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