“L’interpretazione” – Seminario di Formazione Psicoanalitica Firenze, La Colombaria, 20 febbraio 2010
Thanopulos S. (2010)
INTERROGARE LA REVERIE
Nella sua accezione più comune la reverie è il sognare dello stato di veglia, che riguarda tutti gli esseri umani in tutte le fasi della loro vita, a partire dal loro accesso all’esperienza onirica. Essa è particolarmente attiva nella relazione analitica, se questa funziona bene. Secondo il mio punto di vista è di natura isterica: il suo prototipo, che è anche la matrice del sogno vero e proprio, è l’identificazione isterica tra il bambino e la madre. Il prospettiva di Bion sulla reverie è diversa. Per lui reverie è la capacità della madre di sognare le emozioni del figlio quando quest’ultimo è in grado di allucinare l’esperienza dell’appagamento, ma non è ancora in grado di sognare, in una fase che precede l’identificazione isterica.
Dunque ci sono due prospettive sulla reverie, anche se, come si vedrà in seguito, sono collegate tra di loro. Tra gli psicoanalisti la differenza non è sempre chiara. Spesso la concezione Bioniana della reverie tende a offuscare la reverie associata allo stato onirico di veglia e il suo importante valore terapeutico.
L’identificazione isterica
In Fantasie isteriche e la relazione con la bisessualità (1908 a, p. 394), Freud discutendo del significato bisessuale dei sintomi isterici (il loro essere espressione, al tempo stesso, sia di una fantasia inconscia maschile sia di una femminile) parla del caso, da lui osservato, di una paziente che una mano si stringe le vesti (nella parte di donna) e con l’altra se le strappa ( nella parte dell’uomo). Riferendosi allo stesso caso in un suo scritto di poco successivo, Osservazioni generali sull’attacco isterico (1908 b, p. 442), lo cita come esempio di identificazione multipla , esprimente la tendenza del soggetto a “svolgere l’attività delle due persone che compaiono nella fantasia”.
Tra gli psicoanalisti c’è solitamente una certa difficoltà a riconoscere nell’identificazione isterica una validità che vada oltre i confini della patologia. La cosa desta una certa perplessità, perché se è vero che Freud ne ha parlato quasi sempre in associazione con i sintomi isterici, è altrettanto vero che ciò che ha descritto parlando dell’isteria è ugualmente applicabile ai sogni di tutti noi. Del resto, nelle sue interpretazioni del materiale onirico (a partire da quello dei propri sogni), egli si mostra particolarmente attento a cogliere le identificazioni del sognatore con i personaggi onirici. Il sogno è il regno di una nostra identificazione con l’altro che è al tempo stesso una relazione con lui, esattamente come accade nella paziente isterica descritta da Freud. Non è necessario essere psicoanalisti, per rendersi conto che nei nostri sogni recitiamo contemporaneamente il nostro ruolo e quello degli altri, rappresentando “tutte le parti della commedia”. ( )L’attività onirica (nei suoi aspetti accessibili alla psicoanalisi) è il prodotto dell’attivazione della componente isterica della personalità del sognatore.
Fulcro della dimensione onirica, l’identificazione isterica penetra costantemente insieme al sogno nella vita del giorno, seppure in forme sfuggenti e fluide la cui presenza è vagamente percepibile (soprattutto nei momenti di rilassamento o di stanchezza), ma la cui messa a fuoco è impossibile perché se uno le inseguisse riuscirebbe solo a farle svanire. L’identificazione isterica è la colonna portante di quello stato di reverie, che sfumando i confini tra desiderio di sé e desiderio dell’altro e tra il pensiero del sogno e il pensiero vigile, rende la nostra percezione del mondo più sensibile e intuitiva. Questa reverie si attiva in modo particolarmente efficace in alcune esperienze della vita. Penso al teatro, al cinema, alla musica (e all’arte e alla letteratura, dove si manifesta in modo più sfumato e indiretto), ma anche alla relazione erotica e alla seduta analitica stessa.
L’identificazione isterica nasce quando nel bambino ha già preso forma il desiderio nei confronti di un oggetto di cui inizia a riconoscere la l’alterità, senza ancora accettarla emotivamente. La separazione dalla madre mette il bambino in una posizione precaria. Il bambino, che precedentemente percepiva la madre come parte di sé, non solo deve far fronte all’esteriorizzazione della fonte del suo appagamento (che segna la fine della sua illusione di autarchia) ma si sente soprattutto mutilato, perché perde ciò che fino a quel momento si è illuso di essere, attribuendosi qualità della madre nell’ambito della loro identificazione. La separazione è quindi mutilazione di madre, perdita dell’altro come perdita di una parte di sé, mutilazione originaria che anticipa le perdite successive.
La ferita della mutilazione è in primo luogo riparata con l’identificazione narcisistica. Il bambino inizialmente persiste nell’identificazione: se non può più essere tutt’uno con la madre si illude, nondimeno, di essere del tutto simile a lei. Questa posizione, centrata ancora sul desiderio di sé, è molto vulnerabile: la progressiva separazione della madre non potrebbe che travolgerla. Freud (1915) ha indicato nella “fissazione” all’identificazione narcisistica un punto di grande vulnerabilità alla deriva melanconica. L’amore oggettuale, che trasforma il desiderio di essere (desiderio di sé) in desiderio di avere (desiderio dell’altro come soggetto separato, diverso da sé), è la posizione da raggiungere, ma questo esito felice non è scontato né automatico. L’identificazione narcisistica non può reggere il peso di un investimento compiuto dell’alterità (troppo ampia la distanza da colmare). La sua funzione è quella di preparare il terreno per l’identificazione isterica. Il bambino scopre la possibilità di entrare in relazione con l’altro continuando al tempo stesso a identificarsi con lui. Attraverso questo tipo di identificazione che è insieme relazione il bambino estende i confini della sua esistenza rendendola eccentrica al nucleo originario, indifferenziato rispetto all’altro, della propria soggettività.
L’identificazione isterica occupa una posizione intermedia tra desiderio di sé e desiderio dell’altro e si costituisce come desiderio di aversi (impossessarsi dell’altro come parte di sé), spazio di transizione verso il recupero in termini di avere di quello che il soggetto non può più aspirare ad essere. Qui l’oggetto è trattato sia come parte di sé sia come altro da sé, e cioè come altro di sé. L’esperienza isterica del rapporto con l’altro di sé coincide temporalmente con l’esperienza del rapporto con l’oggetto transizionale. Si tratta di due esperienze strettamente intrecciate e complementari. Da una parte l’identificazione isterica usufruisce dell’oggetto transizionale come oggetto intermedio che sospende la differenza tra sé e l’altro; dall’altra parte l’investimento dell’oggetto transizionale, oggetto non ancora soggetto, non approderebbe all’investimento di un oggetto-soggetto compiutamente differenziato da sé, senza la spinta in questa direzione che viene dall’identificazione isterica.
L’altro di sé è un oggetto che è insieme interno è esterno, è la madre come soggetto al tempo stesso simile e diverso dal bambino. L’oggetto transizionale è un oggetto intermedio, né interno né esterno. Come afferma Winnicott, di norma non “va dentro”. Può stare per la madre, ma non è la madre. La relazione complementare tra oggetto transizionale e l’altro di sé crea un’area di transizione, che è contemporaneamente: transizione tra oggetto indifferenziato (oggetto soggettivo secondo Winnicott) e oggetto differenziato (oggetto soggettivo); transizione tra sé e l’altro. In quest’area di transizione i processi proiettivi (l’altro come sé), che prevalgono nell’investimento dell’oggetto transizionale si incrociano e si integrano con quelli introiettivi (il sé come altro), che prevalgono nell’identificazione isterica.
L’altro conosciuto come parte di noi, senza perdere la sua distinta esistenza, è il punto di partenza per un processo di conoscenza della diversità via, via più emancipato da una sua rappresentazione autoreferenziale da parte nostra. L’incontro del soggetto con la diversità, attiva sempre il conflitto tra desiderio di sé e desiderio dell’altro. La costante presenza di questo conflitto, che è non è mai risolvibile una volta per tutte, costituisce l’essenza della dimensione tragica nell’essere umano. Nei suoi momenti topici il conflitto segnala che l’integrazione del soggetto ha raggiunto un punto di chiusura indesiderabile, che ha superato il livello di guardia di una giusta regolazione del rapporto con ciò che gli diverso. In questi momenti la riattivazione dello spazio interno isterico nel soggetto apre spazi di non integrazione precedentemente chiusi, rimescola i confini tra il sé e l’alterità e rimette in movimento un processo di configurazione di un nuovo ordine interno, che allarga la prospettiva della relazione con l’oggetto del desiderio nel punto in cui questa relazione rischiava di diventare improponibile.
La reverie materna
La descrizione più precisa e chiara della reverie materna, coerentemente articolata con la funzione alfa, Bion la fa in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico (1967):
Mi è sembrato utile introdurre l’ipotesi di una funzione alfa avente il compito di convertire i dati sensoriali in elementi alfa per provvedere in tal modo la psiche del materiale che le necessita per fabbricare i pensieri del sogno; svolgendo questo ruolo la funzione alfa renderebbe anche possibile il costituirsi dei due stati, di veglia e di sonno, e delle due situazioni, di coscienza e di incoscienza. (…) Se, tra madre e bambino, viene a mancare la possibilità che si stabilisca una relazione basata su un’identificazione proiettiva normale, verrà pure meno lo svilupparsi di una funzione alfa, vale a dire della possibilità di differenziare gli elementi in coscienti e incoscienti.
Le difficoltà inerenti all’esposizione possono essere evitate se usiamo il termine “coscienza” secondo la definizione datane da Freud. Attenendoci al significato delimitativo che ne dà Freud, ci è lecito supporre che una coscienza così intesa produca “dati sensoriali” del Sé senza che vi sia però una funzione alfa che convertendo questi dati in elementi alfa, fornisca la possibilità di essere consapevoli o inconsapevoli del Sé. Per la sua immaturità il neonato non è capace di elaborare i dati sensoriali: può solo evacuarli nella madre conferendo a lei la possibilità di eseguire quelle operazioni necessarie a convertire i dati in una forma utilizzabile per essere impiegati dal neonato come elementi alfa.
La coscienza intesa nel ristretto senso datole da Freud e nella quale si designa in questa sede la rudimentale coscienza del neonato, non ha ancora il suo complemento inconscio; vale a dire che tutte le impressioni sensoriali riferite al Sé rientrano nella stessa categoria: tutte sono coscienti. L’organo recettore di questa massa di dati sensoriali sul Sé raccolti dal neonato per mezzo del suo conscio è costituito dalla facoltà di “reverie” della madre.
(…)
Se la relazione seno-bambino permette al neonato di proiettare una sensazione, per es. quella di stare per morire, dentro la madre, e di reintroiettarla dopo che il suo soggiorno nel seno l’ha resa assimilabile per la sua psiche, allora si avrà uno sviluppo normale. Se invece la madre non raccoglie dentro di sé la proiezione, l’impressione che il neonato avverte è che la sua sensazione di stare per morire è stata spogliata di senso: ciò che reintroietterà non sarà più una paura di morire resa tollerabile, ma un terrore senza nome. (Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico 1967 p.178 i corsivi sono miei)
L’idea che la madre elabori i vissuti le ansie del bambino dentro di sé per restituirgliele in modo assimilabile è un’intuizione importante di Bion, che ha aperto una prospettiva nuova alla teoria psicoanalitica. Essa non è stata, tuttavia, connessa adeguatamente al corpo delle conoscenze psicoanalitiche e il suo uso esita spesso a indebite semplificazioni. Inoltre, riguardo il materiale da elaborare da parte della madre c’è una sovrapposizione, presente in tutta l’opera di Bion e dei suoi successori, tra le impressioni (dati sensoriali) del Sé, le sensazioni più specificamente connesse alla paura di morire1 e il terrore senza nome.
E’ evidente che nelle intenzioni di Bion la reverie materna agisce su tutte le sensazioni del bambino. Tuttavia, separando dalla massa dei dati sensoriali prima la paura della morte e successivamente il terrore senza nome Bion stabilisce l’esistenza di tre livelli concatenati ma differenziati tra di loro. Curiosamente non ne tiene conto. Così la sua definizione della reverie come “organo recettore” non chiarisce il nesso tra le impressioni sensoriali nella loro totalità e le sensazioni più specificamente collegate a situazioni angoscia. Bion di fatto le equipara quando afferma che la reverie materna si esercita allo stesso modo su tutti i dati sensoriali attraverso i quali il bambino ha coscienza del Sé (e sulle emozioni di ogni genere, come egli aggiungerà in altre circostanze), perché a causa della sua immaturità questi dati sono per lui, nel loro insieme e a priori, non elaborabili, se non vengono evacuati nella madre e resi assimilabili da lei. Questa prospettiva mi sembra insostenibile perché tende a configurare ogni esperienza sensoriale del bambino come possibile fonte di ansia rendendo impossibile la distinzione tra le esperienze di soddisfazione e le esperienze di frustrazione del desiderio.
Qui il discorso di Bion, che da solo non è sufficiente, può essere proficuamente integrato con un discorso ispirato al pensiero di Winnicott. Per prima cosa le impressioni sensoriali, andrebbero più adeguatamente considerate come unità sensomotorie, tenendo conto della loro stretta associazione con i movimenti del corpo (non solo degli arti e del tronco, ma anche degli occhi, delle dita, della bocca, della mimica) attraverso i quali il bambino si relaziona con gli oggetti sensibili. Se la relazione tra madre e bambino funziona bene (cioé se la madre interviene nel tempo e nel modo giusto per soddisfare i suoi desideri e bisogni) l’esperienza sensomotoria del bambino si sviluppa in modo continuo, in accordo con un suo modo naturale di essere, e dà origine al primo nucleo del Sé. Questo nucleo sfocia periodicamente, ma con costanza, nei gesti spontanei, manifestazioni corporee che danno forma a impulsi associati a un’esistenza spontanea non compiacente del bambino. Sono i gesti spontanei, espressioni di stati sensomotori impregnati di desiderio (Freud) e di emozione (Bion), l’intermediario attraverso il quale la madre riesce a riflettere l’emergente senso di sé del bambino.
Nel riflettere il fluire dell’esistenza del bambino verso la costituzione di un Sé spontaneo, confermandone la continuità e la coesione, la madre da una parte “rappresenta il vissuto del figlio come se fosse suo, con rispecchiamento diretto, e dall’altro lo trascrive, riflettendolo indirettamente, nel suo più complesso modo di essere, creando un proprio corrispondente stato mentale ed emotivo” (Thanopulos 2009 p.164)). Lo stato d’animo della madre che riflette quello del bambino è più complesso di quest’ultimo, ma riproduce l’essenziale della sua configurazione. La differenza tra lo stato d’animo della madre e lo stato d’animo del figlio sta nella capacità di metaforizzazione dell’esperienza della prima, capacità di cui il secondo non dispone ancora. La riflessione da parte della madre dell’esperienza del bambino stabilisce un legame metaforico tra i loro vissuti perché la madre restituisce al bambino l’essenziale del suo vissuto, dopo averlo trasportato e trascritto dentro di sé in un modo più ricco e complesso. Il bambino si vede riflesso dalla madre nella sua essenza, sentendosi confermato e sorretto nella sua esistenza e, al tempo stesso, si trova immerso in un’espansione del suo vissuto, che lo rassicura, perché non contraddice la sua esperienza e testimonia (senza che il bambino ne abbia consapevolezza) una capacità della madre di prendere cura del figlio secondo parametri aderenti al principio di realtà (capacità i cui effetti il bambino percepisce indirettamente come senso stabilità). Il contatto del bambino con la capacità di metaforizzazione della madre, che egli non è al momento in grado di riconoscere o di imitare, crea, nondimeno, in lui la potenzialità di questa capacità. La riflessione della sua esistenza da parte della madre costituisce per il bambino la prima forma-matrice di metaforizzazione della sua esperienza.
Ciò che Bion non chiarisce quando parla di pensieri egualmente disponibili per la veglia e il sonno è che questo tipo di pensieri sorge insieme alla costituzione dello spazio onirico (posteriormente all’ allucinazione dell’appagamento, quando l’allucinazione resta confinata nel sonno), cioè in una fase in cui la rappresentazione (forma) si differenzia dal rappresentato (contenuto) e il pensiero è metaforizzato e comunicabile intenzionalmente. E’ la metaforizzazione dell’incontro con la madre, durante la fase dell’identificazione isterica, che fornisce al bambino il materiale necessario per i pensieri della veglia e del sonno. Tuttavia, questo non sarebbe possibile se la madre non avesse preparato il bambino, nella fase precedente, a questo evento. La reverie materna consiste nella capacità della madre di riflettere l’esperienza spontanea del bambino in un modo più complesso rispetto a quanto pensava Winnicott, cioè metaforizzandola (capacità di cui il bambino è ancora sprovvisto). Metaforizzare l’esperienza del bambino nel mentre la si riflette, significa di fatto sognarla, perché è nel pensiero onirico, della veglia come del sonno, che la madre può trascrivere la sua identificazione profonda con il figlio nella sua rappresentazione più complessa della realtà. La reverie della madre crea nel bambino la precondizione interna di un accesso nel campo della comunicazione metaforica con lei. Questa precondizione è la funzione alfa, nel mio modo di interpretare il discorso di Bion.
E’ nell’esperienza di riflessione del bambino da parte della madre che bisogna inserire la “paura di morire” di cui parla Bion. La madre non può riflettere senza soluzioni di continuità i vissuti del figlio, nel senso che non può aderire perfettamente ai tempi e alle esigenze di lui nella realizzazione comune del loro incontro. L’angoscia che la discontinuità determina può essere correttamente associata alla paura di morte, perché le discontinuità della funzione materna vengono percepite dal bambino come interruzioni della sua esistenza. Qui la riflessione infranta esige un lavoro di riparazione dello specchio materno (che urge dopo il superamento del tempo di durata dell’autoriparazione allucinatoria). Questa riparazione da una parte consiste nella capacità della madre di contenere le sue “distrazioni” e di riprendere a tessere la trama del rispecchiamento in termini di reverie; dall’altra parte deve fare i conti con l’ansia del bambino (l’incertezza che ha aperto un varco nella sua esistenza) che egli non può elaborare da solo. La madre fa sua l’ansia del figlio e la elabora come esperienza di separazione e di perdita, che ella può affrontare in modo più efficace dell’allucinazione dell’appagamento, “sognando” (metaforizzando) la morte come incontro mancato, esperienza di perdita.2 La madre elaborando l’ansia che il figlio le trasmette, e lei accetta, mantiene il proprio equilibrio emotivo e in questo modo l’ansia, condivisa nell’ambito di una reazione, trova il suo argine. A contatto con la madre il bambino sente che lo smottamento nel suo psichismo trova un contenimento sicuro in lei e ritrova la fiducia nella continuità della sua esistenza, in una forma nuova: la continuità dell’esistenza psichica non è intaccata, interrotta, dalla discontinuità dell’esperienza. La discontinuità può cominciare ad essere accettata ed in questo spazio psichico nuovo, in cui troveranno, successivamente, alloggio il sogno e l’incontro con l’alterità. La riparazione delle infrazioni inevitabili del primo livello della reverie materna, che si costituisce come suo secondo livello, rinforza la funzione alfa preparando ulteriormente il bambino al suo ingresso nell’area del pensiero metaforico (onirico).
La capacità di sognare, nello stato di veglia come nel sonno, richiede l’acquisizione stabile di un senso di continuità dell’esistenza psichica e di un primo nucleo di Sé sufficientemente integrato. Questo Sé consente al bambino di contenere nel suo spazio psichico le angosce, che le discontinuità della sua esperienza causano, nonché il desiderio inappagato che esse racchiudono, senza evacuarli (entro certi limiti è ovvio). Il desiderio può essere allora emancipato dalla sua soddisfazione immediata e la sua realizzazione può essere spostata sul piano della potenzialità acquistando significato personale e profondità emotiva. Questa è la condizione prima per la costituzione del versante onirico dell’esperienza, che richiede perché possa essere realizzata altre due condizioni: un linguaggio adatto di espressione e il riconoscimento dell’alterità.
La madre che non si sente minacciata nella sua integrità psichica dall’ ansia del bambino di morire, può contenere questa ansia nel proprio spazio onirico (dello stato di veglia come del sonno), che sospende la sua effettività e fa riemergere il desiderio in essa imprigionato. Sognare di morire (come la madre è in grado di fare) è molto diverso dal sentire di poter morire (il vissuto del bambino). Sognare di morire riporta sulla scena il desiderio, dà forma alla preoccupazione di smarrire l’oggetto desiderato, di perdere, in questo o in quest’altro luogo, lo stato di soggetto desiderante; sentire la paura della morte sospende il desiderio, lo congela. Ma come fa la madre a sognare l’ansia del suo bambino e non la propria? Per dare risposta a questa domanda occorre considerare la posizione della madre nei confronti del figlio centrando la nostra attenzione sul suo desiderio. Esso è articolato in questo modo: un desiderio che ignora la differenza del figlio (nell’ambito di una relazione che è la riattivazione del rapporto fusionale con la propria madre); un desiderio che riconosce questa differenza e la rispetta (una madre pienamente inserita nella relazione triangolare); un desiderio passionale, che riconosce e non riconosce, al tempo stesso, la differenza. Quest’ultimo, prodotto dell’identificazione isterica della madre con il bambino, se adeguatamente responsabilizzato fa da cerniera tra i primi due, creando le condizioni di una loro reciproca modulazione nella gestione della maternità. A un primo livello a madre si immedesima con l’ansia del figlio ma non è in grado di sognarla perché sta in una dimensione psichica indifferenziata, pre-sogno. A un altro livello la madre conosce l’ansia del bambino come cosa non sua e può usare oggettivamente le tecniche a sua disposizione per calmarlo (l’ansia è contenuta, ma il desiderio rimane sospeso). Qui anche la madre non sogna: sognare disturberebbe il suo rapporto oggettivo con la realtà. E’ l’identificazione isterica della madre con il bambino che le conferisce una capacità di reverie nei sui confronti quando lui non è ancora in grado di sognare. Tuttavia, questa reverie non sarebbe stata possibile se la madre non avesse, al tempo stesso, una relazione fusionale con il figlio ( che le consente di sentire sia l’esperienza sensomotoria sia l’ansia di lui come cose sue), né se lei non avesse un rapporto con la vita sufficientemente ancorato al principio di realtà per poter valutare la reale portata del perturbamento psichico del figlio e le reali possibilità di un recupero. L’attivazione contemporanea di tre stati psichici consente alla madre di sognare l’ansia del figlio (identificazione isterica) come sua (relazione fusionale) contenendola in modo realisticamente compiuto (ancoraggio nello spazio della realtà differenziata).3
L’identificazione isterica raggiunge una sua configurazione stabile (diventando una dimensione permanente dello psichismo) solo a differenziazione stabilmente raggiunta. Esattamente come l’area transizionale, che non si costituzione pienamente che alla fine della transizione, anche l’identificazione isterica è un ponte, che può funzionare pienamente solo quando raggiunge l’altra sponda. Se la capacità di identificazione isterica della madre è variamente incompiuta (se in lei l’identificazione prevale sulla relazione) la paura della morte del bambino non è compiutamente contenibile, perché mancando un compiuto riconoscimento e uso dell’alterità, la ferita della separazione, intesa come mutilazione, non è adeguatamente rimarginata. La paura di morire è contenuta ma resta un’incertezza, (che si costituisce come pre-tempo del trauma).
***
Se la madre fallisce nella sua funzione di reverie la paura di morte si trasforma in terrore senza nome: qui si verifica un’interruzione effettiva della continuità dell’esistenza del bambino. Come è stato detto in precedenza Bion mentre descrive in modo esemplare la differenza tra paura della morte e terrore senza nome non è altrettanto chiaro nel indicare la natura del materiale sul quale dovrebbe esercitare la sua reverie. Una delle cose da chiarire è questa: gli elementi beta sono il prodotto del fallimento della reverie materna che inibisce lo sviluppo della funzione alfa o il materiale da elaborare per creare gli elementi alfa?
Bion oscilla tra le due prospettive e a un certo punto le sovrappone:
La funzione alfa esegue le sue operazioni su tutte le impressioni sensoriali, quali che siano, e su tutte le emozioni, di qualsiasi genere, che vengono alla coscienza del paziente. Se l’attività della funzione alfa è stata espletata, si producono elementi alfa: essi vengono immagazzinati e rispondono ai requisiti richiesti dai pensieri del sogno. Se invece la funzione alfa è alterata, e quindi inefficiente, le impressioni sensoriali coscienti e le emozioni provate dal paziente restano immodificate: chiamerò queste elementi beta. Mentre gli elementi alfa sono avvertiti come fenomeni gli elementi beta sono avvertiti come cose in sé, con la conseguenza che anche le emozioni assumono i caratteri di oggetti sensibili.”(Apprendere dall’ esperienza p.27)
Se vogliamo difendere l’essenziale della proposta di Bion, evitando di farla cadere in una contraddizione irrisolvibile, dobbiamo distinguere due tipi di fallimento della reverie: un fallimento parziale, collegato a un contenimento insufficiente, incompiuto della “paura di morte”, (l’interruzione occasionale del primo livello di reverie materna, che crea questa paura, non è un fallimento ma una cosa fisiologica) e un fallimento totale, che trasforma questa paura in “terrore senza nome”. Il primo esita in una funzione alfa non adeguatamente funzionante, il secondo produce elementi beta, dati sensoriali e emotivi che, essendo intollerabili per la psiche e impensabili, sono destinati ad essere evacuati.
Nella prima situazione l’analista può usare la propria capacità di reverie per ripristinare una funzione alfa adeguata; nella seconda, che esita in una condizione psicotica, si trova a fronteggiare un angoscia impensabile, minaccia indefinibile e insondabile di distruzione del mondo psichico del suo paziente, che nessuna reverie può contenere ed elaborare direttamente. Quando il fallimento della reverie materna è tanto grave da produrre elementi beta, la reverie dell’analista, che dovrebbe supplire all’antica carenza, è rivolta verso manifestazioni spontanee di esistenza che sono sopravissute alla catastrofe sotto forma di potenzialità. La cosa originariamente preclusa nel soggetto psicotico è una parte significativa della sua esperienza sensomotoria che si è dissolta mentre stava prendendo senso e forma. Questa esperienza, se non è colpita alle sue radici può, in condizioni favorevoli, rimanere iscritta nella psiche allo stato potenziale (Thanopulos).
I residui della esperienza spontanea interrotta, che restano nella psiche come potenzialità, sono sospesi nella paura della morte (contenuta in modo molto precario) e mescolati a frammenti di angoscia pura che tendono a sfociare nel terrore senza nome. L’insieme costituisce gli elementi beta che in sé non sono elaborabili.4 E’ la presenza dentro gli elementi beta di pezzi di esistenza vera sopravissuta al crollo, che conferisce loro un potenziale emotivo, dotato di scopo, che ha un valore terapeutico, seppure povero:
L’induzione di un coinvolgimento emotivo, tipica dello schermo beta, sta a indicare, se raggiunge il suo scopo, che il paziente ha una carenza di materiale terapeutico genuino, cioè di verità, e che perciò i suoi impulsi a sopravvivere stanno lavorando al massimo per potere estrarre una guarigione di un materiale terapeutico povero.” (Bion Attenzione interpretazione nota a p. 55)
Lo scopo racchiuso nello schermo beta corrisponde alla tendenza naturale del Sè del paziente a riespandersi. Se le potenzialità congelate di esistenza spontanea, messe in movimento da questa tendenza riescono a farsi strada verso una loro realizzazione e compiersi, la funzione alfa è ripristinata e gli elementi beta si dissolvono.
Le possibilità di una cura del paziente psicotico, che vada al di là del lavoro con la parte relativamente sana della sua personalità, derivano da un esigenza naturale ed insopprimibile del Sé deformato del paziente. Questo Sé tende spontaneamente ad espandersi per colmare il vuoto di senso che ha condizionato pesantemente la sua esistenza e superare la deformazione subita. Questa tendenza è, al tempo stesso, fortemente temuta e inibita, perché mette in discussione un equilibrio precario faticosamente raggiunto. Essa comporta, infatti, il rischio di una ripetizione dell’esperienza fallita, che il paziente percepisce come pericolo di una catastrofe definitiva. Non c’è nulla che può esporre di più alla morte psichica un soggetto psicotico che la vita che scorre nelle sue vene.
Tutto quanto rende affidabile l’analista (la sensibilità, la comprensione, un dialogo buono con la parte relativamente sana del suo analizzando, i suoi fallimenti e soprattutto la capacità di renderli prevedibili, riconoscibili e leggibili) incoraggia il paziente a lasciar via libera al riemergere spontaneo di potenzialità d’esistenza sospese nel suo spazio psichico. Nel fare questo il paziente si colloca in un luogo intermedio tra la regressione verso una situazione di dipendenza (Winnicott 1954) dentro la relazione analitica, che potrebbe offrire l’accoglienza mancata nel rapporto con la madre, il ritiro dalla relazione, nel quale il paziente sostiene da sé le potenzialità di forme spontanee della sua esistenza, che pur altamente incompiute e precarie, mantengono in lui la speranza segreta della sopravvivenza di un suo personale modo di essere. Con il paziente in una posizione di incertezza (che comporta una certa tensione) e pronto a un immediato retrocedere l’analista si sente chiamato a compito difficile:
Se in quel momento l’analista riesce a «tenere» il paziente, riflettendo nella propria mente e nel proprio assetto emotivo una dimensione soggettiva che risorge, come se emergesse per la prima volta, ancora incerta e esitante nel suo incedere, può determinare l’inizio di una nuova esperienza d’incontro. Diversamente, se fallisce, favorisce la conferma di un ritiro, che d’altra parte è sempre lì, sul punto di manifestarsi. L’analista deve tener presente che in quest’area della relazione analitica il paziente (che necessita di una gradualità) procede passo per passo in termini di prova e risposta e l’esperienza dell’incontro è in ogni caso percorsa entro i limiti stabiliti dalla sua tendenza permanente a ritirarsi di fronte ad ogni incomprensione diventata possibile. L’alternanza tra ritiro e affidamento alla relazione (tra successo e fallimento dell’analista) si ripete più volte nel tempo con prospettive incerte, prima che una dimensione soggettiva che cerca di esistere per la prima volta possa trovare una forma riconoscibile e acquisire significato.
[…]Se questa tendenza [la tendenza spontanea del Sé del paziente a espandersi] è adeguatamente accolta e sostenuta … le forme della psicosi possono gradualmente cedere in parte il loro posto alla possibilità di far esistere dimensioni di sé prima precluse. Queste dimensioni, tuttavia, non si realizzano (nella misura in cui è possibile che si realizzino) come modalità precise di espressione, ma sorgono, piuttosto, come modalità non del tutto definite che alimentano un nuovo campo d’esperienza, il quale potrà essere disponibile da quel punto in poi per pensieri e vissuti consci e inconsci. (Thanopulos)
***
Bion parla indifferentemente di reverie materna e di reverie dell’analista. Qui sorgono delle difficoltà. L’analista non può sviluppare con i suoi pazienti una relazione di empatia fusionale simile a quella della madre con il suo bambino (egli manca della “preoccupazione materna primaria”). E, a dire il vero, egli non può sviluppare neppure un’identificazione isterica della stessa intensità di quella materna. Inoltre, l’analista ha un carico di lavoro aggiuntivo dal momento che deve fronteggiare un pregresso fallimento della reverie materna.
Ciò nonostante Bion è convinto che l’analista possa sviluppare una reverie particolarmente efficace, in grado di supplire alla carenza di reverie materna, se riesce a collocarsi in O, posizione descritta in questo modo:
“L’analista deve centrare la propria attenzione su O, l’ignoto è l’inconoscibile. Il successo di una psicoanalisi dipende dal fatto che, nel suo corso venga conservato un punto di vista analitico. Il punto di vista è il vertice psicoanalitico; il vertice psicoanalitico è O. L’analista non può essere identificato con questo vertice; egli deve essere questo vertice.
(…)
Nella misura in cui diventa O, l’analista può conoscere gli eventi che sono O. (p.40-1 Attenzione e Interpretazione)
Ciò che colloca l’analista in O dipende è un “atto di fede” (F): “fede nell’esistenza di una realtà ed una verità ultime: l’ignoto, l’inconoscibile, l'”infinito senza forma” (ibidem p.46). L’atto di fede richiede uno sforzo consapevole di negazione della memoria e del desiderio. Su questo Bion insiste più volte:
Come prima cosa l’analista deve imporsi una disciplina positiva di astensione dal ricordo e dal desiderio. Con ciò non intendo dire che basti “dimenticare”: ciò che è necessario è piuttosto un atto positivo di trattenersi dalla memoria e dal desiderio. (ibidem p. 46)
Gli esercizi intesi a scartare la memoria e il desiderio devono essere considerati come preparatori rispetto a una condizione psichica in cui O possa evolvere. (ibidem p.49)
L'”atto di fede” (F) dipende da una disciplinata negazione della memoria e del desiderio. Una cattiva memoria non è sufficiente a produrla: ciò che comunemente viene chiamato dimenticare è cattivo tanto quanto il ricordare. E’ necessario inibirsi il sostare sulle memorie e sui desideri. (p.59)
Bion fa riferimento a una lettera di Freud a Lou Andreas-Salome in cui il primo parla di un suo accecarsi artificialmente per raggiungere la condizione mentale giusta, quando l’oggetto dell’investigazione risultava particolarmente oscuro. Bion amplia la prospettiva:
Io ho indicato l’importanza dell’astenersi dalla memoria e dal desiderio come metodo per ottenere questo accecamento artificiale. Ampliando il discorso sempre nell’ambito di questa finalità, aggiungo ora l’esigenza di astenersi dal comprendere e dalla percezione sensoriale. (p.59)
La difficoltà del compito non fa indietreggiare Bion:
E’ possibile sopprimere una o tutte le funzioni menzionate (memoria, desiderio, comprensione e sensi) o insieme o alternativamente. (p.59-63)
Possiamo, tuttavia, interrogarci: come fa l’analista a mantenersi vivo psichicamente se sopprime memoria e desiderio? A quale tipo di desiderio si riferisce Bion alla fin fine?
Credo che l’analista non possa accecarsi artificialmente e per propria volontà nella sua relazione con la persona viva e desiderante che è il suo paziente (anche se a volte lo è in modo precario e insufficiente). Egli tuttavia, è costretto a chiudere gli occhi tutte le volte che il suo sguardo non gli restituisce il paziente vivo. L’analista rinuncia al proprio desiderio tutte le volte che esso gira a vuoto. In questo caso la sua memoria non fa che metterlo di fronte a un doloroso senso di mancanza: se egli ricorda la presenza fasulla dell’altro, che esiste in modo fittizio, grazie al suo modo precostituito di vederlo, egli dimentica la sua assenza come persona spontanea e vera. Quindi la memoria cui l’analista rinuncia è la memoria legata a un desiderio che ha smarrito l’oggetto desiderato vero. Egli si trova a desiderare il desiderio dell’altro abbandonando, temporaneamente, il proprio, perché questa è la condizione che lo mette in contatto con un altro vivo e desiderabile, e lo allontana dall’odore della morte. Trovare la vita all’interno della morte psichica, che gli consente di rimettere in movimento il suo desiderio, frustrato dall’inerzia del suo oggetto, è la grande compensazione dell’analista per il suo lavoro difficile e faticoso con il pazienti psicotici. E’ questa compensazione verso la quale egli tende spontaneamente (senza alcun bisogno di disciplina e soppressione attiva memoria, desiderio,comprensione, sensi che lo induce ad accettare una destabilizzazione del suo assetto emotivo e mentale e di consente di accogliere l’impronta dell’altro nel suo mondo interno. Questa impronta che trasforma il modo di desiderare,sentire e pensare dell’analista fa riflettere il paziente nella relazione analitica e lo fa anche esistere in modo spontaneo e autentico all’interno di essa.
L’analista accetta la destabilizzazione del suo mondo interno, rinunciando al suo desiderio precostituito e al suo sguardo “sapiente” (costruito gradualmente su comprensione e memoria), perché solo così può recuperare uno sguardo “vergine” e ritrovare l’oggetto altrimenti smarrito del suo desiderio. La destabilizzazione non è opera programmata dell’analista, che può solo accettarla o respingerla, ma porta il segno del paziente, il quale usa l’assetto interiore dell’analista come materiale da trasformare per dare forma e espressione a un suo modo vero di esistere. La reverie dell’analista è il prodotto congiunto della disponibilità e della sensibilità dell’analista (guidate dal suo desiderio di un paziente vivo) e dell’uso che il paziente fa di lui.
Un uso particolare dell’analista, che implica l’uso più definito dell’identificazione proiettiva, riguarda i pazienti che hanno esperito un fallimento parziale della reverie materna, esitato in un contenimento incompiuto della loro paura di morire. Questi pazienti provati da un vissuto di incertezza, che sorge drammaticamente in loro tutte le volte che si trovano a fronteggiare emozioni molto forti, non si limitano a proiettare la loro esperienza nell’analista. Sono capaci di monitorare anche il minimo segno di un isomorfismo possibile tra i loro vissuti e quelli dell’analista e di individuare tutti punti di relativa vulnerabilità e incertezza emotiva in lui, per relazionarsi in modo selettivo con essi esaltandoli. Così l’emozione del paziente che si fa strada nell’analista, diventa emozione problematica di quest’ultimo che deve contenerla ed elaborarla dentro di sé come cosa sua. Ciò significa mettere in funzione la sua capacità di sognarla, sospendere la sua effettività nello spazio potenziale, sperimentale della rappresentazione onirica. Il movimento emotivo che originando nel paziente si estende, alla ricerca di un contenimento, nell’analista, si trasforma in questo modo in reverie dell’esperienza che originando nell’analista si estende nel paziente coinvolgendolo nel processo di elaborazione .
La reverie isterica
La differenza tra desiderio e memoria non ha uno sfondo di impressioni sensoriali e non può essere adeguatamente trattata adeguatamente in termini dotati di tale sfondo. Cionondimeno, è possibile nel corso del lavoro psicoanalitico decidere quando il paziente ha l’esperienza di una memoria e quando di un desiderio: l’uno è il “passato”, l’altro il “futuro”. La decisione dipende dal fatto che l’esperienza che l’analista ha dell’esperienza del paziente è diversa dall’esperienza del paziente. L’indagine relativa ai problemi impliciti in ciò dipende da F. Questo significa che la comprensione del paziente e l’identificazione con lui, le quali fino ad oggi sono state considerate sufficienti, debbono ora essere sostituite da qualcosa di completamente diverso. La trasformazione in K deve essere sostituita dalla trasformazione in O, e K deve essere sostituito da F.” (p.65)
Vediamo qui una posizione di Bion applicabile, non senza difficoltà, ai pazienti destrutturati (quelli con buchi considerevoli nella trama di O), che è stata inopinatamente estesa a tutti i pazienti, servendo come argomento improprio contro l’interpretazione intesa come dispiegamento del significato del fantasma. Vista da questa angolazione, l’interpretazione del fantasma produrrebbe una trasformazione in K, cioè una trasformazione puramente conoscitiva, priva di valore terapeutico adeguato.
In realtà le cose stanno diversamente. Bisognerebbe in primo luogo intendersi sull’interpretazione del fantasma. Il fantasma è il prodotto (instabile) di un conflitto tra il ritorno di un desiderio rimosso e l’istanza rimovente che persiste nella sua rimozione. Si configura come propaggine dell’inconscio nel preconscio: una rappresentazione che ha accesso alla coscienza sul piano formale ma è indecifrabile in modo diretto sul piano del significato. La configurazione del fantasma indica la presenza di una situazione traumatica che non ha alterato in modo significativo la trama di O. Qui stiamo in una dimensione in cui il trauma è sempre a due tempi. Un primo tempo è situato in epoca preedipica, nella fase del linguaggio preverbale (linguaggio corporeo squisitamente isterico): l’esperienza traumatica rimane sospesa sia perché lo psichismo non è ancora maturo per registrarla adeguatamente sia perché essendo in vigore il processo primario, che non rispetta il principio della non contraddizione, la sospensione è consentita.
Il secondo tempo del trauma appartiene a un epoca successiva (collocata in prossimità o in corrispondenza della triangolazione edipica) a linguaggio verbale acquisito. In circostanze (non necessariamente in sé traumatiche) che riattivano l’esperienza traumatica pregressa, il trauma è finalmente registrato, sia perché lo psichismo è sufficientemente maturo per accoglierlo sia perché il progressivo dominio del processo secondario, che introduce il principio della non contraddizione, rende impraticabile il prolungamento della sua sospensione. Il trauma registrato contiene un desiderio inaccettabile, perché portatore di un conflitto irrisolto. La soluzione consiste nella rimozione di questo desiderio, che abolisce il conflitto e la tensione psichica che esso comporta. Nell’area del desiderio in cui si verifica il trauma e la rimozione si rompe l’equilibrio tra investimento inconscio e investimento conscio delle rappresentazioni del desiderio, con uno spostamento deciso a favore del primo (ricordo che la rimozione dinamica è un eccesso di rimozione). Ciò significa che il desiderio resta sottorappresentato sul piano della coscienza e la sua soddisfazione, non adeguatamente rapportata alle condizioni oggettive della sua realizzazione, rimane largamente inevasa sul piano della realtà (trovando una compensazione impropria sul piano della fantasia).
L’intervento sul piano terapeutico si basa sul fatto che essendo il paziente sufficientemente vivo sul piano psichico, dal momento che la trama dell’esperienza in O ha retto, il desiderio rimosso tende a ritornare. Lo scontro tra ritorno del rimosso e istanza rimovente produce il fantasma come deformazione della rappresentazione del desiderio sul piano della coscienza. Dispiegare il significato del fantasma equivale annullare la deformazione e rendere il conflitto sufficientemente conscio per restituire ai paziente i parametri necessari per la comprensione adeguata (non deficitaria) delle forze in campo dentro di sé e nel rapporto con l’altro. Questa comprensione (che è uno strumento terapeutico) favorisce il recupero di potenzialità sospese o accantonate e il riposizionamento del paziente nello spazio della sua esistenza (il processo terapeutico vero e proprio).
Una cosa importante da tener presente è il fatto che l’avvento del processo secondario è graduale. Per un periodo, che va dall’acquisizione della parola (poco meno di due anni) fino al superamento del complesso edipico e l’inizio della latenza (5-6 anni), e andrà poi incontro all’amnesia infantile, processo primario e processo secondario coesistono finché il dominio di quest’ultimo non diventi un fatto definitivo e stabile (anche se mai del tutto). In effetti la registrazione del trauma (che stabilisce il suo secondo tempo) accade non immediatamente dopo l’acquisizione della parola, quando il processo primario è ancora molto presente, bensì in una seconda fase quando il processo secondario inizia a prevalere.
Il fantasma prende per la prima volta forma nell’ambito di questa seconda fase della compenetrazione tra processo primario e processo secondario come compromesso tra la rimozione del desiderio conflittuale finalmente registrato, il cui carattere traumatizzante risulta evidente a causa del progressivo affermarsi del principio della non contraddizione, e la spinta residua a realizzarlo che è sostenuta dall’ignoranza di questo principio ancora parzialmente persistente5. Questa prima configurazione del fantasma, che rappresenta la confluenza sul piano della coscienza di due funzionamenti psichici del bambino opposti tra di loro, resta incompiuta nella sua definizione assumendo forme piuttosto fluide, perché finché la coesistenza del processo e primario con quello secondario non viene superata e rimossa il rapporto tra ritorno del rimosso e rimozione rimane poco definito e incerto.6 E’ nella relazione analitica che il fantasma configurato nella prima infanzia e successivamente rimosso e confinato nel sogno (della veglia e del sonno) può trovare una forma sufficientemente compiuta nella sua definizione ed essere i interpretato.
L’attivazione della componente onirica, isterica nel paziente durante la seduta analitica facilita sia l’emergere di una parziale compenetrazione tra processo primario e secondario sia il ritorno del rimosso e la ri-configurazione del fantasma. L’identificazione isterica dell’analista con il paziente facilita in questo contesto un processo di interfantasmatizzazione perché attiva per “simpatia” nell’analista fantasmi analoghi a (o in relazione con) quelli del paziente. Ciò significa che l’analista nel dare configurazione al fantasma del paziente dà, al tempo stesso, configurazione indiretta al proprio, consente alla parte inconscia del suo desiderio di ispirare e arricchire il suo modo di rappresentare e vivere la realtà sul piano della coscienza. Se l’identificazione isterica funziona adeguatamente l’interpretazione analitica affonda le sue radici nel desiderio dell’analista e non è affatto un’operazione intellettuale e arida ma consente all’analista di immedesimarsi con cose che normalmente non fanno parte della sua vita (o non può permettersi che ne facciano) e di estendere la sua esperienza in aree in cui può essere diverso da se stesso. Quando le cose vanno bene e tra i due si stabilisce un identificazione reciprocamente isterica, l’analista formula l’interpretazione da una posizione eccentrica rispetto al suo modo abituale di vedere e di pensare e il paziente la ascolta da una posizione altrettanto eccentrica rispetto al suo modo costituito di essere e di vedersi.
La direzione della trasformazione nel campo dell’interpretazione del fantasma non è K verso O, cioè un processo di trasformazione in K che consente l’ appropriazione conoscitiva di O, ma un ripristino dell’identificazione isterica che ristabilisce un’’articolazione funzionante tra O e K.
Tra O e K esiste normalmente una doppia articolazione: l’oggetto transizionale (articolazione tra oggetto soggettivo e oggetto oggettivamente percepito) e l’identificazione isterica (articolazione tra la propria soggettività e la soggettività dell’altro). Se la trama di O regge il problema terapeutico è l’articolazione tra il desiderio di sé (posizione in O) e il desiderio dell’altro (posizione in K), cioè il funzionamento non adeguato dell’identificazione isterica e dell’area transizionale.7
L’’identificazione isterica è lo stato sognante: essere e, al tempo stesso, non essere l’altro, essere seprati e insieme in unione con l’ambiente circostante. Al di qua di essa c’è l’indifferenziazione, la rappresentazione originaria, la posizione in O. Al di là di essa c’è la realtà differenziata che si può conoscere oggettivamente (entro certi limiti), la posizione in K. L’avvento dell’identificazione isterica rende impensabile, inconoscibile la posizione in O. e istituisce il sogno vero e proprio (oltre la ripetizione nel sonno dell’appagamento allucinatorio di veglia che garantisce l’integrità narcisistica del lattante dormiente, proteggendo il suo dormire). Lo stato sognante è il luogo psichico intermedio tra indifferenziazione e differenziazione, tra identificazione con l’altro e relazione con lui, regno del processo primario. E’ uno spazio intermedio interno mentre l’oggetto transizionale è un oggetto intermedio tra sé e l’altro.8
Definirlo “sognante” sottolinea il fatto che, raggiunto stabilmente lo spazio delle relazioni differenziate, esso assume una chiara visibilità e concretezza solo durante il sogno. Ciò non significa che lo stato sognante resti confinato nel testo onirico. Esso è parimenti presente nella vita del giorno come penombra, nell’area di confine che unisce e differenzia pensieri del sonno e e pensieri di veglia.
Lo stato onirico di veglia, che sorregge l’identificazione isterica, come componente permanente dello psichismo, durante il giorno, è la barriera di contatto e di separazione tra l’inconscio e la coscienza. Il pensiero che lo caratterizza, appena intuibile e sfuggente ad ogni tentativo di una sua messa a fuoco,è un pensiero visivo, gestuale, analogico. Questo pensiero, che protrae l’esistenza dell’antica la compenetrazione tra il processo primario e quello secondario, ha come sua materia prima gli elementi alfa che sono egualmente disponibili per lo sviluppo sia del pensiero figurativo del sogno9 sia del pensiero razionale compiutamente aderente al principio di realtà
Bion dà la seguente definizione degli elementi alfa:
Difatti la funzione alfa trasforma le impressioni sensoriali in elementi alfa i quali hanno somiglianza – se addirittura non sono la stessa cosa – con le immagini visive che ci sono familiari nei sogni – quegli elementi cioè che svelano il loro contenuto latente quando l’analista li abbia interpretati. (Apprendere dall’ esperienza p.28)
Il concetto di elemento alfa è di straordinaria importanza per la comprensione dell’articolazione tra l’inconscio e la coscienza e tra il sogno e la realtà, che sostiene costantemente il pensiero logico integrandolo con il pensiero onirico. Tuttavia, Bion opera una sovrapposizione di livelli: le immagini visive che ci sono familiari nei sogni, il cui contenuto latente è svelato dall’interpretazione psicoanalitica sono già immagini altamente simboliche (simboli designanti, differenziati dall’oggetto rappresentato, coniugati tra di loro in modo complesso), che rappresentano il secondo livello di un processo di metaforizzazione che conduce alla parola. Esse non possono essere il prodotto diretto di una trasformazione di impressioni sensoriali (impregnate di emozione e di desiderio); la loro produzione passa attraverso la mediazione del gesto corporeo intenzionale, che è gesto isterico, proto-simbolico, rivolto, al tempo stesso, a sé e all’altro.
Il contenimento della paura di morire, che anticipa nel bambino il momento di separazione dalla madre e lo prepara al vissuto di mutilazione che esso provoca, consente di accettare la discontinuità dell’esperienza senza l’angoscia di smarrire il senso della propria esistenza. Questa è una delle due premesse necessarie (l’altra è la capacità della madre di metaforizzare i vissuti del bambino mentre li riflette) perché nel bambino si costituisca la funzione alfa: la capacità di trasformare il gesto spontaneo in gesto intenzionale, isterico che lo unisce e lo separa dalla madre. Questo gesto è l’elemento alfa, particella elementare del pensiero e del linguaggio metaforico, l’ossatura delle immagini del sogno sulla quale cresce successivamente l’intero corpo della complessa simbolizzazione che caraterizza il lavoro onirico. Lo spazio delle discontinuità inevitabili dell’esperienza iniziale di vita, divenuto successivamente spazio altrimenti inevitabile del vissuto di mutilazione (perdita dell’altro come parte di sé) è colmato dall’oggetto transizionale e dall’identificazione isterica diventando sede dell’esperienza onirica (del sonno e della veglia).
1 Nel passo citato Bion parla della paura della morte come un esempio di emozione angosciosa, ma il riferimento alla paura di morire è costante nella sua opera, non senza ragione come vedremo, mentre non si fa cenno ad altri esempi d’angoscia.
2 Il venir meno della sponda materna è vissuta dal bambino come perdita irreparabile di sé. La madre, che ha raggiunto uno stato integrato e coeso di esistenza, avverte la discontinuità avvenuta nel suo rapporto con il figlio come perdita di contatto, che non annulla la sua vita ed è riparabile.
3 L’attivazione contemporanea dei tre stati psichici (nel senso di una attivazione intensa e pressappoco egualmente distribuita, perché questi stati sono sempre attivi seppure con netta dominanza abituale dello stato differenziato) accade, in maniera prolungata solo nelle madri nel periodo della “preoccupazione materna primaria”(Winnicott).
4 Restano iscritti nella psiche come tracce mnestiche grezze a-significanti (Racalbuto).
5 Mentre in epoca di assoluto dominio del processo primario il desiderio conflittuale, è sospeso, e con esso è sospesa anche la significazione psichica degli eventi che hanno determinato il suo carattere traumatico, durante la compresenza tra processo primario e processo la sospensione viene meno. A questo punto il funzionamento dell’apparato psichico sulla base del secondo registro tende a rimuovere il desiderio risultato traumatizzante, mentre il funzionamento secondo il primo registro tende, una volta che il desiderio è rientrato in gioco, a sostenere il suo appagamento rifiutando il suo carattere traumatico evidente sul piano del registro più maturo.
6 Bisogna dunque distinguere tra il fantasma nella sua forma primaria, in cui due meccanismi di pensiero coesistono come due forme di forme di coscienza e al tempo stesso si differenziano come conscio e inconscio, e il fantasma nel campo di una definitiva differenziazione tra inconscio e coscienza quando la sua configurazione resta confinata nel pensiero onirico (della veglia e del giorno).
7 L’identificazione isterica e l’area transizionale corrispondono al funzionamento mentale secondo il processo primario (dove l’altro è e insieme non è differenziato da sé) che fa da cerniera tra processo originario (l’altro non è differenziato da sé) e processo secondario (l’altro è differenziato da sé).
8 Che sostiene lo stato sognante ed è sostenuto da esso.
9 Sul quale opera l’allucinazione del desiderio, confinata nel sonno dopo l’emergere dell’alterità dell’oggetto.