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Ponsi M. (2010). Pensiero clinico e dati neurobiologici

Intervento al seminario di S. Merciai e B. Cannella “Neuroscienze e Psicoanalisi: cavarsela alla meno peggio”

Firenze – La Colombaria – 13 marzo 2010

Ci troviamo in un contesto scientifico in cui la psicoanalisi non è più la disciplina cui compete per eccellenza il titolo di specialista del mondo inconscio. Non ne ha più la prerogativa, o il copyright, perché altre discipline oggi concorrono a ridisegnare la mappa della mente inconscia.
Sono in molti nella comunità psicoanalitica a guardare questo nuovo scenario con l’ovvio interesse di trovare nelle acquisizioni delle discipline limitrofe elementi utili per meglio comprendere i processi psichi inconsci.
Al medesimo scenario però molti altri guardano con cautela, o addirittura con diffidenza. Non vi colgono l’opportunità di un arricchimento delle nostre conoscenze; vi vedono soprattutto il rischio di snaturare la specificità dell’oggetto e del metodo della psicoanalisi.
Questa differente reazione è da ricondurre all’annosa disputa che si è riaccesa intorno all’interesse per le neuroscienze – la disputa che contrappone coloro che considerano la psicoanalisi una scienza a sé stante, libera alle regole praticate dalle altre discipline scientifiche, e coloro che ritengono che essa debba adottare più rigorose forme di verifica dei propri asserti. Sono soprattutto questi ultimi che hanno guardato con interesse al dialogo con le neuroscienze, animati dalla speranza che il confronto interdisciplinare possa aiutare la psicoanalisi a uscire dal suo isolamento auto-referenziale e a rinunciare alla pretesa di essere una scienza a statuto speciale.
Al di là delle dispute, c’è molto materiale ad alimentare il confronto fra psicoanalisi e discipline neurobiologiche e neurocognitive. Personalmente ritengo che parallelamente prenderanno più forza, diventando più solidi e condivisi, quegli aspetti delle teorie psicoanalitiche che sono compatibili con i dati neurobiologici e che al contempo perderanno peso le costruzioni teoriche più autoctone – in altre parole, la metapsicologia.
In questo mio intervento non intendo soffermarmi sull’influenza che le neuroscienze hanno avuto (o avranno nel futuro) sulla psicoanalisi; limiterò la mia riflessione all’ambito del pensiero e dell’agire clinico.
Parto da una constatazione: per quanto riguarda il pensiero psicoanalitico in generale (… e con questo intendo i concetti, le teorie, i modelli della mente prodotti nella riflessione psicoanalitica) il confronto con i dati delle neuroscienze ha già messo in moto dei cambiamenti significativi. Basti pensare a cosa oggi, in epoca post-neuroscientifica, intendiamo per inconscio: l’area inconscia della mente si configura oggi come un’entità assai più complessa e diversificata rispetto a come era rappresentata nelle formulazioni
freudiane. Su alcuni temi specifici poi – come ad esempio gli studi sullo sviluppo infantile o quelli sull’area traumatica – il pensiero psicoanalitico fa ampio uso di termini e concetti provenienti da aree extra-psicoanalitiche, come è anche testimoniato da certe ibridazioni linguistiche (v. ad esempio l’’inconscio procedurale’ o la riorganizzazione della ‘conoscenza relazionale implicita’).
Ma se invece che al pensiero psicoanalitico in generale (e cioè ai concetti e ai modelli) guardiamo alla clinica (e cioè a quello che concretamente si fa con i pazienti) sorge una domanda: il confronto con le neuroscienze stimola dei cambiamenti anche nell’attività clinica?
Questo interrogativo potrebbe suonare superfluo, o strano, a un osservatore esterno al mondo psicoanalitico, al quale la teoria e la clinica della psicoanalisi appaiono come un tutt’uno omogeneo. In realtà non è così, e chi svolge attività clinica sa bene che la pratica non ha un rapporto lineare con la teoria (… sarebbe meglio dire con le teorie).
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Chi svolge la sua pratica nel terreno della psicoanalisi, ed è al tempo stesso interessato a spingersi nelle ‘terre di confine’, si chiede “Che me ne faccio di tutto questo materiale interdisciplinare?”. Si domanda in altre parole in che modo la propria attività clinica venga condizionata dalle acquisizioni delle neuroscienze, quale possa essere la ricaduta clinica dello scambio interdisciplinare.
Alcuni anni fa uno psicoanalista americano, S.Pulver, ha affrontato proprio questo tipo di interrogativi.
1 Dopo aver affermato di ritenere che la psicoanalisi non possa non tenere conto di ciò che le neuroscienze vanno scoprendo sul funzionamento mentale, e quindi dopo aver riconosciuto l’impatto positivo che esse hanno sulle nostre conoscenze, si è domandato se queste nuove acquisizioni siano altrettanto rilevanti per l’operare clinico. Ha anche condotto una mini-inchiesta fra i colleghi che più si erano spesi per costruire un ponte fra la psicoanalisi e le neuroscienze, e è giunto alla conclusione – che è poi la tesi del suo articolo – che le implicazioni di tutto ciò per la clinica erano nulle. La sua tesi è ben riassunta dal titolo del suo articolo: “Sulla sorprendente irrilevanza clinica della neuroscienza”.
Certamente Pulver ha ragione quando constata che le acquisizioni delle neuroscienze non hanno un’influenza diretta sul modo con cui viene condotto un trattamento psicoanalitico così come invece esse influiscono sul modo in cui viene compreso il funzionamento e lo sviluppo mentale.
Questa divaricazione fra piano teorico e piano clinico si spiega con il fatto che teoria e metodo clinico non sono così direttamente interconnessi come si potrebbe pensare. Ciò che accomuna gli psicoanalisti non è tanto la teoria che professano, ma il metodo clinico che praticano. Insomma, teoria e clinica in psicoanalisi sono relativamente indipendenti – non del tutto indipendenti, ma abbastanza indipendenti.
E’ una tesi, questa, sostenuta più di venti anni fa R.Wallerstein, quando introdusse il Congresso dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale con una relazione diventata poi famosa e citatissima sul Common Ground, cioè sulla base comune alle molte psicoanalisi. 2 E’ noto che due psicoanalisti possono avere forti divergenze sul piano teorico ma poi si muovono nella situazione clinica in modo simile. Il metodo clinico è insomma abbastanza svincolato, o relativamente autonomo, rispetto alla teoria. In questo senso non c’è da sorprendersi per la constatazione di Pulver: i dati delle neuroscienze possano avere
un’influenza sulla teoria (cioè sui modi di concepire i fatti psichici) ma non sul modo in cui la
psicoanalisi viene praticata nel contesto clinico.
Detto questo – e quindi dopo essermi trovata d’accordo con l’affermazione di Pulver che le
neuroscienze sono irrilevanti per la clinica – voglio precisare che questo a mio parere è vero solo a grandi linee, e cioè in un senso molto lato e macroscopico. A una considerazione più ravvicinata arriverei a un’affermazione meno netta, e cioè che le neuroscienze sono meno rilevanti per la clinica rispetto a quanto non lo siano per la teoria. Le acquisizioni delle discipline affini sono rilevanti – ma non nel senso di suggerire specifici orientamenti nel trattamento, bensì nel senso di condizionare, in modo più o meno ndiretto e mediato, il pensiero e l’agire clinico. Questo condizionamento passa attraverso l’influenza esercitata dall’ambiente scientifico e culturale che ci circonda sul modo con cui ci rappresentiamo le funzioni mentali.
Per descrivere questo condizionamento prendo a prestito da Merciai e Cannella la metafora sulle zone di confine della psicoanalisi. Anche nel pensiero clinico ci sono delle zone di confine, o periferiche: sono quelle in cui abitano idee sparse, spesso dissonanti rispetto ai modelli concettuali noti e ufficiali; idee che si insinuano qua e là nel pensiero e nell’agire clinico e che solo col tempo prendono una forma più organizzata e definita. J.Sandler quasi 30 anni fa (1983), in un articolo diventato poi molto famoso e molto citato sul rapporto fra i concetti e la pratica della psicoanalisi 3, rappresentava la teoria

1 Pulver, S.E. (2003). On the astonishing clinical irrelevance of neuroscience. J.Amer.Psychoanal Assn., 51: 755-772.
2 Wallerstein, R. S. (1990). Psychoanalysis: The Common Ground. Int.J.Psycho-Anal., 71:3-20.
3 Sandler, J. (1983). Reflections on some relations between psychoanalytic concepts and psychoanalytic practice. Int.J.Psycho-
Anal., 64:35-45.
3 psicoanalitica come un corpo vivo, in continuo mutamento, dentro il quale possono a lungo convivere, senza entrare fra loro in contrasto, le teorie esplicite, (quelle ufficiali, consacrate dalla tradizione) e le teorie implicite – e cioè quelle forme di concettualizzazione più private e personali, che soggiornano al livello preconscio nella mente dell’analista al lavoro e che poi eventualmente entrano nel bagaglio teorico condiviso.
Farò un esempio di come diverse prospettive concettuali, e anche diversi linguaggi, si possono incontrare per dare una rappresentazione integrata di un evento.
L’esempio riguarda l’area traumatica, che sappiamo essere significativamente coinvolta nei disturbi di personalità. La compromissione della capacità di simbolizzare e l’estensione di aree psichiche prerappresentazionali riscontrate in pazienti nei quali si presume che un evento traumatico precoce abbia avuto un ruolo patogenetico, ha trovato un supporto esplicativo convincente negli studi sui tipi di memoria (esplicita, implicita, dichiarativa, procedurale e associativa) e sulle funzioni dell’ippocampo e dell’amigdala.
L’assenza di ricordi nell’area traumatica non è rimediabile; quei ricordi non possono essere recuperati con il trattamento analitico, che può invece individuare le tracce lasciate dal trauma nei comportamenti e negli stati emozionali. La nozione di aree inconsce non simbolizzate ha comportato modificazioni della tecnica analitica: se l’area traumatica è inaccessibile allo strumento interpretativo classico, non è
impermeabile alla possibilità di entrarvi in contatto e di modificarla potenziando il repertorio degli strumenti non-interpretativi.
La situazione traumatica è stata messa in rapporto con la mancata iscrizione dell’evento nella memoria episodica autobiografica, la quale viene a sua volta riferita all’incompleto sviluppo dell’ippocampo indotto dall’eccesso di ormoni surrenalici liberati nel corso dell’evento traumatico medesimo. Lo stress
massivo agirebbe sui processi di integrazione emisferica e sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con la conseguenza che i circuiti neuronali, corrispondenti agli schemi emozionali costituitisi in epoche precoci e rimasti codificati solo nella memoria implicita, rimarrebbero esclusi dall’elaborazione corticale, e dunque dalla possibilità di venire ricordati.
La nozione di aree inconsce non simbolizzate ha dunque trovato un corrispettivo e un completamento nella nozione di memorie procedurali e associative. la cui elaborazione non può venire portata a termine per un danneggiamento dell’ippocampo nel corso dell’evento traumatico. La comprensione psicodinamica della condizione psichica di chi ha subito un trauma viene in altre parole rappresentata facendo ampio uso del linguaggio e dei concetti delle neuroscienze. La psicoanalisi in questo caso non ha semplicemente preso a prestito un linguaggio, ma ha utilizzato dei dati che potevano confermare e completare le
osservazioni cliniche emerse nel trattamento dei disturbi di personalità, nei quali gli elementi patogenetici riferibili a traumi sono significativi.
Questo non è che uno degli esempi in cui si può vedere come si realizzi la fecondazione del pensiero clinico da parte di dati neurocognitivi e neurobiologici. Certamente è un’operazione che si realizza in tempi lunghi: non con una modificazione della tecnica indotta direttamente, ma attraverso una serie di
impercettibili modificazioni, e cioè – come dice D.Olds (p.872) – “integrando le informazioni [provenienti
dalle altre discipline] nelle nostre memorie inconsce procedurali”. 4
D.Olds è uno psicoanalista americano che ha dato dei contributi importanti sul tema psicoanalisineuroscienze
e che è stato per vari anni co-editor della rivista Neuropsychoanalysis. In un articolo
dedicato all’influenza degli studi interdisciplinari sulla pratica clinica, dà una risposta un po’ diversa da
quella di Pulver. Egli ritiene che quanto viene prodotto nelle discipline affini sia penetrato nel lavoro
clinico – e lo illustra prendendo in esame sei esempi di nuove conoscenze che hanno influenzato l’attività
clinica: i neuroni specchio, la memoria procedurale, i processi e le capacità cognitive, i sistemi affettivi e i
relativi disturbi, il trauma, e le teorie della complessità applicate ai sistemi dinamici.
4 Olds, D.D. (2006). Interdisciplinary Studies and Our Practice. J.Amer.Psychoanal.Assn., 54:857-876.
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Nei dibattiti sul tema dei rapporti fra psicoanalisi e neuroscienze spesso si discute se sia legittimo che la psicoanalisi incorpori nel suo bagaglio concettuale dati prodotti con metodi diversi dal proprio. Non si tratta tanto di decidere se questi dati debbano o meno contaminare il pensiero psicoanalitico; la contaminazione è già avvenuta. Cito di nuovo Olds, che afferma: “Ciò che è più importante in questa discussione è che il cumulo di informazione proveniente dalle altre scienze ha già avuto un effetto profondo sul modo in cui pensiamo la mente e il cervello. Sta cambiando noi e le nostre menti. Sta cambiando il contesto in cui noi comprendiamo che cosa significhi essere un’entità vivente, un mammifero, un essere umano. Penso che la pratica psicoanalitica evolverà lentamente e sottilmente come parte di questo processo”. (ib. p.858).
Condivido pienamente queste considerazioni, alle quali vorrei aggiungere una notazione personale.
Se quando lavoro con un paziente ho in mente qualche aspetto del suo funzionamento mentale che posso anche collocare in una prospettiva neurocognitiva o neurobiologica, la mia capacità di comprensione psicodinamica può venirne compromessa? Tenderò a ridurre le sue attività psichiche a meccanismi biologici? Avere in mente la dimensione neuro-biologica e neuro-cognitiva può portarmi a trascurare di stare in relazione con una persona, con un soggetto?
Lo dico in modo più conciso: che succede se nel lavoro clinico ho in mente il cervello? 5
Certamente il contatto ravvicinato con le discipline neurobiologiche e neuropsicologiche espone al rischio di sostituire sbrigativi riduzionismi al ricco patrimonio di conoscenze accumulate attraverso la pratica e la riflessione clinica.
Tuttavia a mio parere la prospettiva delle neuroscienze può anche essere utilizzata in maniera diversa: può anche arricchire la comprensione della dinamica psichica nella misura in cui venga usata come modo di accesso all’alterità, come presa d’atto dei vincoli cognitivi e affettivi dentro cui si realizza l’esperienza soggettiva.
Se le neuroscienze contaminano il pensiero clinico non è inevitabile che l’ascolto e la comprensione dell’altro perdano di profondità e di spessore. E’ possibile, al contrario, che per questa via si possa arrivare a comprendere meglio la peculiarità dell’esperienza soggettiva dell’altro così come viene espressa dalla sua struttura neurobiologica.
Se poi questo conduca verso a una perdita di specificità della psicoanalisi, come molti temono, non è una mia preoccupazione, perché sono convinta che ne arricchisca comunque la capacità terapeutica.

5 Ponsi M. (2007). Avere in mente il cervello. L’influenza delle neuroscienze nella psicoanalisi clinica.  Seminario tenuto presso il Centro di Psicologia Clinica e Psicoterapia Psicoanalitica ‘Ellisse’ (Brescia, 24 nov 2007).
Ponsi M. (2008). Avere in mente il cervello. Le neuroscienze nella stanza d’analisi. Relazione presentata al Centro Psicoanalitico di Firenze (24 gennaio 2008).

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