Un divano a Tunisi
Film diretto e sceneggiato da Manele Labidi Labbè (2020)
Commento di
Maria Pappa
Un divano a Tunisi è un film molto avvincente, oltre che per l’acuta ironia che lo pervade, per la vasta portata dei temi trattati, che toccano ciascuno di noi in modo profondo e universale. Non a caso il film ha ottenuto il premio del pubblico alla mostra del cinema di Venezia. La commedia di Manele Labidi Labbè, esordiente regista franco-tunisina, che ha come attrice protagonista la bravissima Goldshifteh Farahani (a sua volta franco-iraniana), racconta il ritorno in patria, all’indomani della Primavera araba, di Selma Derwich, una giovane psicoanalista, che decide di lasciare Parigi per aprire un proprio studio alla periferia di Tunisi, dove è nata e ha trascorso la propria infanzia. A Tunisi Selma vuole incoraggiare le persone ad aprirsi liberamente sul suo lettino, anche con l’intento di risollevare il morale dei suoi connazionali dopo lo shock della rivoluzione e la caduta di Ben Ali, ma deve scontrarsi con la diffidenza locale, con l’amministrazione passiva e con un poliziotto che le rema contro. I personaggi con cui Selma entra in contatto sono divertenti, ma anche lacerati e la regista sceglie di addentrarsi nella loro realtà interna ed esterna segnata dal disorientamento verso le mutazioni sopraggiunte, scegliendo la via della commedia.
Questo permette di cogliere in modo più distaccato e obiettivo le assurdità di una società che ha difficoltà nel concepire il bisogno di un aiuto psicologico. Selma ha modo di conoscere, seguire e ascoltare un insieme variegato di pazienti, che oltre a tratteggiare un affresco sociale di un Paese in piena rivoluzione, sono alle prese con un tragitto esistenziale verso la verità e la conoscenza di sé. Vediamo così alternarsi sul divano un imàm che ha perso la ‘fede’ e la moglie, un’esuberante proprietaria di un salone di bellezza che ha un rapporto difficile con la madre, un paranoico che sogna presidenti e dittatori, un fornaio che ha problemi di identità sessuale. Ci sono poi un’adolescente ribelle pronta a tutto pur di lasciare la Tunisia, e un poliziotto reazionario. Selma accoglie così anche il malessere di una società combattuta tra le tradizioni religiose e la modernità, scoprendo che la gente ha bisogno e voglia di parlare, di raccontare, per ricostruirsi.
È stato molto interessante per me leggere le interviste rilasciate dalla regista del film e i suoi riferimenti autobiografici, proprio come amo leggere la biografia degli scrittori di cui leggo i romanzi, per immergermi meglio nelle atmosfere emotive narrate. La Labidi ha dichiarato che l’idea della storia è nata quando lei ha detto alla madre che sarebbe entrata in analisi. Allora la gamma allarmata delle reazioni della madre le ha ricordato quanto per una donna tunisina, musulmana e tradizionalista, questo possa essere un problema. Questo l’ha spinta a guardare con più attenzione alla società tunisina e alla parte di famiglia che vive a Tunisi. La regista ha ammesso che nella storia c’è molto di autobiografico, e che anche i suoi zii e cugini sono convinti che lei, come la protagonista del film, sia una figura stravagante e scandalosa, e che la sua scelta professionale non faccia che confermare l’idea. La Labidi ha affermato che questo film è stato un modo per esplorare il rapporto ambiguo che ha con le sue origini: è cresciuta in Francia, ma a casa sua parlavano arabo, ed è rimasto forte il legame con le radici. Ogni anno per tre mesi è tornata a Tunisi, ed è stata testimone del cambiamento dopo la rivoluzione, “quando i pensieri e le parole hanno iniziato a scorrere liberi e anche un po’ confusi, come succede a chi inizia un percorso di analisi”. La regista racconta che in Tunisia le classi più povere sono concentrate nella lotta per la sopravvivenza, mentre quelle più ricche viaggiano con due passaporti e fanno avanti e indietro con la Francia. La classe media è la più sofferente in questo momento storico, divisa tra modernità e tradizione, l’attrazione verso la libertà dell’Occidente e il bisogno di confermare la propria identità. Il velo non è spesso un segno di sottomissione, ma significa mostrare l’orgoglio per la propria appartenenza.
La regista ha detto di voler prendere le distanze da un cinema realistico, dai toni drammatici spesso usati quando si raccontano i paesi arabi. Al contrario vuole mostrare la presenza dell’ironia in questo tipo di cultura, con il suo modo di comunicare. Non a caso ad aprire il film c’è la canzone di Mina Città vuota, in omaggio al cinema italiano e alla commedia italiana, che è capace di affrontare i drammi con lo sguardo della commedia, un po’ come capita alla Labidi. Quest’ultima ha affermato che la capacità di raccontare insieme l’umorismo e la tragedia, espressa in modo esemplare da autori come Monicelli e Scola, ha rappresentato per lei la fonte di ispirazione e di formazione più importante.
Un divano a Tunisi è un film ricco di spunti riflessivi su questioni centrali, non solo da un punto di vista psicoanalitico, ma anche sociale e culturale nel senso più ampio del termine. La visione del film ha evocato in me, in maniera associativa, la lettura di un libro, altrettanto speciale, avvenuta qualche anno fa: Una psicoanalista a Teheran, scritto da Gohar Homayounpour (2013), che è psicoanalista a Teheran. Ho trovato molte analogie tra il film della Labidi e il libro della Homayounpour, prima tra tutte quella per cui entrambi sono un tentativo molto efficace di scrittura e di rappresentazione di quella che è la seduta psicoanalitica, la situazione psicoanalitica. È una situazione in cui “entrambi i soggetti dell’analisi, analista e analizzante, hanno il coraggio di affrontare il caos del proprio inconscio, di confrontarsi a viso aperto con lo straniero che portano in sé, di imparare a sostenere l’angoscia che insorge nell’incontrare l’ignoto”. Il libro della Homayounpour, così come il film della Labidi, più che dare solo un’immagine della vita quotidiana, rispettivamente in Iran e in Tunisia, mettono in scena conflitti universali: “Il dolore è dolore ovunque”, così come “Il complesso di Edipo è universale e la cultura influenza il modo in cui il nostro complesso di Edipo viene elaborato”, scrive la Homayounpour.
Ad un’analisi più approfondita, mi sembra che il film Un divano a Tunisi ruoti essenzialmente intorno ai conflitti relativi all’Alterità, all’essere Straniero, in cui la paura dell’Altro e l’inquietudine di essere straniero risultano entrambe dalla paura della differenza dell’Altro (straniero) che è in noi. Siamo spaventati da ciò che siamo e siamo spaventati dal nostro desiderio lasciato a briglia sciolta. Perciò trasferiamo la nostra paura sull’Altro, sullo straniero, che non è “noi”, sulla differenza. La sensazione di impossibilità di essere “a casa propria”, che coincide con il concetto freudiano di “inquietante estraneità”, è legata alla paura dell’Altro. È una paura che risale all’infanzia: è la paura dell’Altro sotto specie di morte, l’Altro in forma di donna, l’Altro sotto forma di pulsioni incontrollabili. È la paura dell’Altro in quanto ‘Straniero’, non conosciuto, ignoto dentro di noi. Sappiamo che Bion ( 1970) ha dedicato una particolare attenzione alla dimensione dell’ ignoto in analisi. Per lui l’analisi è una “sonda”, che apre nuovi territori della mente, per cui ogni seduta risulta essere un’esperienza nuova sia per il paziente che per l’analista, e per questo temuta. Dunque questo Altro contro cui spesso lottiamo, è il nostro inconscio, con cui facciamo fatica a convivere, o possiamo rifiutarci di convivere. Perciò affrontare l’Altro può essere paragonato alla “inquietante alterità” che Freud ci ha fatto conoscere quando ha scoperto e teorizzato l’esistenza dell’inconscio. Vivere con l’Altro equivale così a vivere con l’interrogativo: “Sono io l’Altro?”. Sappiamo che per Rimbaud e Camus “Io è un Altro”. L’uomo è “ignoto a se stesso”, scrive Camus ne Il primo uomo (1994). L’essere ignoti a se stessi è il presupposto necessario per la ricerca artistica e in generale per la scrittura, laddove si cerchi di esplorare la parte oscura di sé dandole voce e forma. L’idea dello Straniero sembra emergere a tutti i livelli della relazione uomo-mondo, sia che si tratti del mondo interno che della realtà esterna. Il rapporto con l’estraneo emerge comunque innanzitutto nella relazione con se stessi, quindi in analisi. Incontriamo l’altro “nella parte oscura di noi”, oppure ancora nell’immagine dell’altro riflessa allo specchio, o in qualsiasi altra superficie riflettente (2017). Potremmo così dire che il Cinema è uno specchio riflettente, in linea con quanto afferma Lingiardi nel suo ultimo libro ( 2020), che ci permette di incontrare l’Altro che è in noi.
Come vediamo nel film, è solamente l’occasione dell’incontro con l’altro che dà senso alle relazioni umane. Attraverso la condivisione emotiva, la compassione e lo scambio affettivo comprendiamo l’altro e lo consideriamo come un nostro simile, il nostro “prossimo” (o Nebenmensch di Freud). E questo dà avvio a dei cambiamenti importanti. Se al contrario dall’incontro umano restiamo estranei gli uni con gli altri, a livello individuale si può provare un senso di estraneità. All’interno di un incontro psicoanalitico psicoanalitico, raccontare la propria storia è di per sé curativo, come diceva Winnicott. “Le storie curano”, scrive Lingiardi (2020). Tornando alla Gohar Homayounpour, psicoanalista iraniana formatasi in Occidente, il suo libro nasce in risposta alla domanda: “È possibile praticare la psicoanalisi nella repubblica islamica dell’Iran?” La sua risposta è sì, perché tutta la cultura iraniana ruota intorno al racconto. Perché mai, se gli iraniani avvertono con tale forza la necessità di parlare, non dovrebbero essere capaci di libere associazioni? Il suo libro è una narrazione affascinante, in cui il racconto autobiografico si intreccia con le storie dei pazienti. L’autrice evoca il piacere e il dolore di ritornare nella terra natale e le angosce che assillano lei, per prima, e altri iraniani. L’esperienza analitica è raccontare la propria storia con qualcuno che ti ascolta, che ha un ascolto senza pregiudizio, un “ascolto rispettoso”, come diceva Luciana Nissim (2001), per la quale la “psicoanalisi è due persone che parlano in una stanza”(1984). Le storie curano perché, come scrive Eshkol Nevo (2017): “i tre piani dell’anima non esistono dentro di noi. Niente affatto! Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia. E se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia”.
Nel film, così come nella situazione analitica, il tema dell’Alterità corre parallelo al tema dell’Adolescenza. Così come l’adolescente Olfa accompagna Selma, fianco a fianco, nel suo lungo viaggio di scoperta e di rielaborazione delle proprie radici, della propria storia, della propria Alterità, e della storia e dell’Alterità dei suoi pazienti, ogni psicoanalista porta con sé, nel proprio lavoro clinico quotidiano, l’Adolescenza non solo come periodo di passaggio all’età adulta, ma come una funzione della mente, che proprio nel suo statu nascendi esprime la sua potenzialità più feconda (Pellizzari, 2016). Il fascino della psicoanalisi con gli adolescenti, tanto difficile e impegnativa, ha a che fare con una forma speciale di Alterità, potenzialmente e particolarmente creativa, e per questo richiede allo/a psicoanalista uno spazio necessario per un’avventura del pensiero, che è costretto a ripartire ogni volta da zero, a scoprire ogni volta, nonostante le frequenti frustrazioni a cui viene sottoposto, nuovi risvolti, nuove sfumature.
Mi sembra che nel film il rapporto tra Selma e Olfa sia centrale, e porti a un confronto e a un dialogo costante tra il mondo interno di un’adolescente (Olfa), e quello di un’adulta (Selma), nel suo ruolo di analista, capace di contenimento e di comprensione. Tale dialogo funge da catalizzatore emotivo per una serie di trasformazioni, che una volta attivate in Selma e Olfa, si ripercuotono su tutti gli altri personaggi. Qui potremmo dire che la dimensione adolescenziale resa disponibile dalla presenza viva di Olfa, attivi quella sorta di funzione enzimatica della mente, di cui hanno parlato psicoanalisti che si occupano in particolare di adolescenti (Nicolò, 2001). Si tratta di una funzione enzimatica che stimola la mente verso specifici compiti e nuovi funzionamenti. A tal proposito è molto toccante la scena vagamente onirica in cui Selma “rimane, in panne, a piedi”, in un luogo deserto con Olfa (che guarda caso poco prima l’ aveva invitata ad andare più piano, che non c’era fretta), in senso reale e metaforico, e si lascia andare in un pianto liberatorio. In tale scena è molto suggestivo il particolare della strada avvolta nel buio, su cui si staglia, illuminata, la sola striscia bianca. Questo sembra proprio corrispondere al compito dell’analisi, così come è stato concepito da Freud: “Essendo impossibile vedere con chiarezza, cerchiamo di fare luce sull’oscurità”.
Per quanto riguarda ancora l’Adolescenza e il ruolo che essa svolge nell’ambito della Psicoanalisi, molti analisti, che si occupano di adolescenti, come ad esempio Raymond Cahn, assegnano un posto fondamentale all’adolescenza nella e per la Psicoanalisi, collegando il periodo in questione con la realtà della nostra società attuale. Cahn (2014) sottolinea inoltre l’importanza di analizzare “l’adolescente nell’adulto”, insistendo sulla capacità dell’analista di prestare attenzione all’ “adolescenza congelata” (non vissuta, non elaborata), nei pazienti adulti.
Alla fine del film tutti i personaggi, oltre ad andare incontro a delle trasformazioni e a delle evoluzioni importanti, appaiono più flessibili, recettivi e soprattutto meno distanti fra loro. Sono proprio i personaggi, nel corso del film, a rendere con parole efficaci il senso dell’analisi e del metodo analitico. L’esperienza dell’analisi è quella per cui “ognuno se ne va via con qualcosa che gli appartiene”; “è come un viaggio dentro di sé”; “la psicoanalisi serve a cambiare la natura dei problemi” (e non a eliminare i problemi).
Nel film assistiamo a dei punti di svolta, evolutivi e maturativi cruciali per ciascuno dei personaggi, presi individualmente e in relazione fra loro. Uno di questi è quando la madre di Olfa, dopo l’espulsione della figlia dalla scuola, si scioglie letteralmente con Selma dicendole: “questa vita è un incubo, beata te che sei libera”. Analogamente l’imam si apre ad Olfa, arrivando a comprendere insieme a lei, di essersi tagliato la fronte per dimostrare di avere la fede (il segno sulla fronte, richiesto dalle convenzioni religiose), visto che non ha la barba (altro segno delle convenzioni religiose), ed è stato abbandonato dalla moglie. Alla fine anche l’impiegata, che prima appariva isolata in un suo mondo, dice che le piaceva parlare con Selma. Colpisce poi la trasformazione cui va incontro il personaggio dello zio Mourad, il padre di Olfa, prima assolutamente chiuso in se stesso, con atteggiamenti duri e repressivi, e dedito all’alcol. Ad un certo punto nel film, dopo aver detto malamente a Selma “sei peggio di Olfa!”, ha un incidente, per cui esce di strada, in senso reale e metaforico. Solo dopo questo “sbandamento”, anche lui si apre a parlare con Selma delle difficoltà crescenti che lo hanno spinto a bere smodatamente, e addirittura a dire “ho paura”. Questo porta a un suo cambiamento interiore, che si ripercuote nel rapporto con la moglie, e con la famiglia in modo costruttivo. Alla fine del film, un’altra bellissima canzone di Mina, Io sono quel che sono, accompagna delle scene di vita, nel senso più pieno del termine, che sono “curative per lo spettatore”, dando grande rilievo al sentimento di speranza conquistato da ciascuno dei personaggi. Vediamo Olfa che sostiene l’esame per il conseguimento del diploma; il personaggio del fornaio, tranquillo, a lavoro; l’imam in bicicletta; Selma, vestita in modo più femminile, che sorride al poliziotto, facendo la fantasia di andargli incontro. Finalmente ognuno può essere quel che è.
Concluderei dicendo che pur non ignorando l’importanza della diversità culturale che ci caratterizza, non possiamo neppure ignorare il fatto che gli esseri umani siano molto più simili gli uni agli altri di quanto non possiamo immaginare. Ogni volta che ci sentiamo diversi, dobbiamo cercare lo straniero che è in noi. Essendo questo l’unico luogo in cui troveremo un “alieno”, uno straniero. Direi che il film ci parla di estensione del metodo psicoanalitico, da un punto di vista geografico, non solo in senso reale, ma anche metaforico: un’estensione ai luoghi più impervi e più difficilmente accessibili della mente umana. E questa è tra l’altro una delle sfide più importanti della Psicoanalisi contemporanea.
Riferimenti Bibliografici
Bion W. R. (1970), Attenzione e interpretazione. Una prospettiva scientifica sulla psicoanalisi e sui gruppi, Armando, Roma, 1973.
Cahn R. (2014), L’adolescente e il suo analista. I nuovi apporti della psicoanalisi dell’adolescenza (a cura di Gianluigi Monniello), Roma, Astrolabio.
Camus A. (1994), Il primo uomo, Bompiani, Milano, 1995.
Homayounpour G. (2013), Una psicoanalista a Teheran, Raffaello Cortina, Milano, 2013.
Lingiardi V. (2020), Al cinema con lo psicoanalista, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Nevo, E. (2017), Tre piani, Tr. It. Neri Pozza, Vicenza.
Nicolò A. M. (A cura di) (2001), Analisi terminabile e interminabile in adolescenza,
Nissim Momigliano L. (1984), “Due persone che parlano in una stanza” (Una ricerca sul dialogo analitico), in Rivista di Psicoanalisi, 30/1, pp 1-17.
Nissim Momigliano L. (2001), “L’ascolto rispettoso. Scritti psicoanalitici, a cura di Robutti A., Raffaello Cortina Editore, Milano.
Pellizzari G. (2016), (Postfazione a) Ragazzi non pensati. Esperienze di cura con gli adolescenti: un contributo psicoanalitico, D. Alessi L. Bergamaschi, F. Codignola, G. Galli, A. I. Longo. A. Moroni, F. Piccinini, A. Viani.
Rosso C. (A cura di), Identità polifonica al tempo della migrazione. Verso una “clinica delle molteplicità” in psicoanalisi, Alpes, Roma.