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Meucci P.(2020) In ricordo di Franco Mori

Testo della relazione di Paolo Meucci in occasione della presentazione del libro Cronache della mia lunghissima vita, Firenze 3 ottobre 2020.

Ho conosciuto Franco ormai ottantenne tramite la moglie Gina -con cui ho fatto la mia formazione- e da allora ci siamo frequentati abbastanza regolarmente. 

A suo tempo –per l’esattezza nel 1974- era stato tra i fondatori del Centro Psicoanalitico di Firenze, negli anni ’80 ne era stato segretario scientifico e poi presidente; quindi aveva continuato a dedicarsi costantemente all’attività scientifica ed istituzionale della SPI, sia a livello locale che nazionale. Quando sono entrato al Centro, Franco  faceva parte del gruppo della consultazione. Parallelamente al suo impegno nella SPI c’era anche il suo lavoro con l’Associazione Fiorentina di Psicoterapia Psicoanalitica e fino ad un paio di anni fa ha partecipato al gruppo di studio interassociativo sulla “paternità interiore”. Fino a non molte settimane prima della morte, nonostante i suoi 97 anni, ha continuato – grazie ad internet ed alla mailing list della SPI-  a rimanere aggiornato e presente nella comunità psicoanalitica. 

Nelle nostre conversazioni avevo avuto modo di conoscere alcuni aspetti della sua vita e della sua personalità, ma con la lettura del libro  è per me emerso un altro ricco spaccato di storia personale e sociale. Sono venuto a conoscenza di un mondo molto più ampio rispetto a quello che era emerso nelle nostre conversazioni, un mondo ed un uomo che perlopiù ignoravo.

Nelle sue Cronache ci porta in un’epoca lontana, in città che oggi non sono più quelle che lui descrive, modi di vivere lontanissimi dai nostri, case –anche quelle della buona borghesia a cui apparteneva Franco- in cui non c’era il riscaldamento, ci si riscaldava con i veggi.

 Una sottile ironia pervade le cronache di quest’epoca, come quando descrive le noiose serate con gli amici dei nonni o le uscite con il padre centurione della milizia, ironizzando anche sul clima politico che si respirava a quel tempo, sul “posto al sole” che spettava all’Italia, sulla “civiltà romana portata a quei barbari selvaggi”. Parallelamente alla descrizione di quel mondo antico dei primi decenni del secolo scorso, c’è il racconto sempre attuale di un figlio diviso tra due genitori in conflitto. Emerge sia  la delusione nel realizzare che i tentativi di ricomposizione familiare fallivano, sia la solitudine di lui bambino, tra il padre alterato e la madre urlante. 

Nel prosieguo della lettura ho ritrovato la storia del grande amore con Gina e del progetto di passare insieme tutta la vita. Amore che nasce all’interno di un impegno e passione comune, per la medicina e per la politica. Mi sono immaginato con una certa partecipazione i due giovani studenti che vanno a distribuire la stampa clandestina antifascista e che poi vengono arrestati dalla banda Carità. 

E poi nel dopoguerra l’inizio della sua attività di psichiatra, le tante energie spese per tentare di umanizzare il manicomio, le battaglie all’interno dell’istituzione  e qui l’incontro con i CEMEA, su cui mi interessa soffermarmi. È Graziella Magherini che nel 1962 invita i colleghi ed operatori francesi dei CEMEA (Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva) nell’ospedale psichiatrico di Firenze, con l’intento di introdurvi i principi dell’educazione attiva. Si trattava di operatori che avevano maturato una ricca esperienza all’interno degli ospedali psichiatrici francesi, in cui -dopo la riforma che aveva portato alla psichiatria di settore- erano state inserite figure professionali e metodologie di intervento di tipo educativo ed espressivo. Franco è stato tra i fondatori della rivista dei CEMEA della Toscana “Assistenza psichiatrica e vita sociale”, che nasce nel ’65 e chiude nel ’69, faceva parte dell’equipe di direzione insieme alla Magherini, ad altri operatori psichiatrici -tra cui Franco Basaglia- e a membri del CEMEA  -tra cui  MarcelloTrentanove. 

In quegli anni Franco promuove vari incontri dei CEMEA sia in Italia che in Francia, lì conosce G.Daumézon, psichiatra francese che aveva appunto promosso nel proprio ospedale l’educazione attiva. In una relazione del 1980 Franco racconta: Georges Daumézon, come gli altri amici francesi dei CEMEA mi hanno fatto capire che alla base di un vero cambiamento è indispensabile fare l’esperienza di vivere una situazione concreta, in tutti i suoi aspetti, da persona a persona, mettendo da parte il proprio ruolo, cambiando il proprio ruolo da assistente ad assistito. È nel corso del mio primo stage, durante i lunghi colloqui con Daumézon, quando cercavo di rispondere agli interrogativi suscitati in me, e mentre egli agitava la sua pipa verso di noi, che ho fatto l’esperienza di rimettere in questione la mia persona, nell’insieme degli aspetti della mia vita professionale e personale. È possibile che la nostra comune formazione medica e la sua statura degna di fiducia mi abbiano permesso di riconoscere in lui l’immagine del padre di cui avevo desiderio. 

Mi piace allora pensare che il suo interesse per le attività espressive utilizzate nella riabilitazione psichiatrica e quindi il suo impegno poi alla Tinaia siano il frutto di una riuscita unione nell’animo di Franco tra il buon “padre-psichiatra” Daumézon e  Marisa, la madre artista che Franco ha potuto via via riabilitare dentro di sé, grazie anche al proprio lavoro di psichiatra e poi di psicoanalista.

In un articolo apparso sulla rivista nel ‘68 dice:

… l’ammalato che la società ci ha affidato è come potrebbe essere un bambino che ha avuto una mamma esigente e lontana la quale, siccome lui non mangiava con appetito la pappa che lei gli fornisce con malagrazia, lo ha cacciato via da sé, dalla casa in cui è nato, in cui c’è la culla calda, in cui dovrebbe essere il tepore dell’amore, della fiducia, della comprensione, l’essere fatti l’uno per l’altro, il sentire di essere stato generato per e da un atto di reciproco amore …  Cacciato via da lì e rinchiuso, senza che lo volesse, senza essere interpellato, in una casa diversa, enorme, fatta di stanzoni in cui stanno a decine e decine persone sconosciute una accanto all’altra, senza far niente, senza niente di proprio, fatte di tanti letti tutti uguali, tutti estranei, diversi da sera a sera

di chi sta parlando Franco? sicuramente dei pazienti di cui lui con passione si prende cura e che vuole liberare da quegli squallidi stanzoni, ma implicitamente sembra stia parlando anche di sé stesso, del bambino che lui è stato e che abbiamo conosciuto leggendo il libro. 

Franco ha avuto la fortuna di crescere in una famiglia allargata, di maturare un buon attaccamento con la nonnina –come lui la rammenta- nel suo mondo di bambino c’erano persone che gli hanno dato affetto, riconoscimento, però evidentemente in lui è rimasta una forte sensibilità al senso di solitudine, che ha favorito una spiccata capacità a capire i suoi pazienti, il loro bisogno –come lui ha scritto- di essere tollerati, cercati, aspettati, aiutati a sopportare la realtà, porgendogliela in modo interessante e piacevole. Sensibilità e capacità che ha poi trasportato anche all’interno della pratica psicoanalitica. In un intervento -fatto ad un convegno del 1993 dell’AFPP- dal titolo Quando difetta il linguaggio verbale nella coppia paziente-terapeuta dice:

L’aiuto che ciascuno di noi –io- crede di poter dare al proprio paziente si potrebbe definire come il fargli sentire il desiderio che ho di essere vicino a lui, il comunicargli che spinto da questo desiderio cerco di entrare quanto più mi è possibile nel suo mondo, “con-prendere” con il suo aiuto chi veramente lui sia,quali potrebbero essere le sue difficoltà, ed esprimerle con delle parole in maniera tale che anche lui si renda conto di come io lo veda dal mio punto di vista.

Tornando al Franco psichiatra che negli anni ’60 lavora nell’Ospedale psichiatrico di Firenze, lo vediamo essere nel 1964 uno dei fondatori e quindi lo psichiatra responsabile della Tinaia , l’atelier espressivo in cui i pazienti dell’Ospedale Psichiatrico di Firenze andavano a parlare, dipingere, creare, delirare; la Tinaia peraltro diverrà negli anni un punto di riferimento per tante altre strutture riabilitative e artistiche.  In un articolo del ’68 dice:

Ci troviamo ormai esausti e sprovveduti nei confronti della malattia in se stessa, anche perché per curarla ci vorrebbe non solo che non ci fossero strutture malate che fanno ammalare, come queste attuali, ma strutture tali da favorire la guarigione. Una di queste appunto vorrebbe essere la Tinaia. Piccola, modesta, ma tale da permettere all’uomo di ritrovare l’amore ed il rispetto per se stesso e quindi il gusto di amare e rispettare l’altro uomo, che questo e l’altro siano curanti o curati. Attraverso appunto il ritrovare il gusto nell’uso di se stesso, nell’esprimersi nell’affondare le mani nella creta, conversando, sorridendo, sbuffando.

L’impegno come psichiatra avveniva parallelamente ed in consonanza alla sua formazione di psicoanalista. 

Nel 1961 inizia la sua analisi con Egon Molinari. Avvia  quindi anche la sua attività privata come analista e la sua vita diventa estremamente impegnata, per decenni sembra veramente infaticabile, addirittura negli anni ’70 intraprende una seconda analisi con Marcelle Spirà (che comporta per anni l’andare settimanalmente da Firenze a Ginevra). Sono decenni fatti di congressi, seminari, incontri scientifici nazionali ed internazionali, in cui conosce psicoanalisti di grande spessore, prima della scuola francese e poi perlopiù inglese, visto che i suoi interessi si indirizzano verso la psicoanalisi post-kleiniana.

Il densissimo impegno lavorativo e scientifico non gli impedisce di continuare a godere della sua vita privata. Ricorre spesso questo termine nel suo libro, ad es. me li godo proprio , oppure andiamo a goderci campagna, arte e cibarie. Oltre a questo sicuramente gode della musica, così come dei tanti viaggi. E poi il grande impegno, passione e piacere che trapela riguardo alle sue varie case e sopra a tutte la sua casa delle Due Strade, la casa che era stata dei nonni, in cui aveva vissuto da bambino, in cui poi era vissuta la madre con tutti i suoi quadri, in cui lui torna per ricongiungersi al suo passato.

Lì trascorre gli ultimi decenni della sua esistenza insieme alla sua amata famiglia, oltre a Gina le figlie ed i nipoti, di cui spesso mi raccontava nelle nostre conversazioni. Lì continua a godere la sua vita –e tra le ultime soddisfazioni sicuramente quella di vedere pubblicato il suo libro- ma ne patisce anche le terribili amarezze degli ultimi anni.  Ed è alle Due strade, circondato dall’affetto dei suoi familiari, che Franco lo scorso gennaio ha concluso la sua lunghissima vita.

 

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