Seminari Psiconalitici – La Colombaria, 16 ottobre 2010, Firenze, Relazione presentata al seminario di Formazione Psicoanalitica
Benedetta Guerrini Degl’Innocenti
L’analista senza divano ovvero l’arte di stare con la mente
“[…] non ci siamo mai gloriati del carattere concluso e completo delle nostre conoscenze e delle nostre potenzialità; anche adesso, come sempre in passato, siamo pronti ad ammettere le imperfezioni del nostro sapere, a imparare cose nuove e a mutare il nostro modo di procedere laddove esso può essere migliorato.”
S. Freud (1918)
Credo che si possa dire che quello che avremmo in mente di fare qui oggi è parlare di questioni squisitamente psicoanalitiche.
Da una collega per me molto cara ho imparato che, prima di cominciare a parlare di un argomento, sarebbe buona cosa definirlo e delimitarlo, tanto per essere sicuri che chi parla e chi ascolta abbiano in mente la stessa cosa. Comincerei allora con il porre qualche domanda. Che cosa è psicoanalisi?
Potrei partire da una definizione minimalista, che mi piace molto, di Luciana Nissim: “due persone che parlano in una stanza”. Ma come sappiamo quando quello che succede fra due persone che parlano in una stanza può essere chiamato psicoanalisi e dove possiamo individuare la peculiarità di quel parlare per poterlo definire un processo psicoanalitico e quali sono gli ingredienti essenziali e particolari che rendono il parlare dell’analista un’interpretazione psicoanalitica?
A ognuno di noi possono venire in mente molte possibili risposte; diciamo che guardando nella stanza di analisi, ormai diventata metafora del processo analitico, per rispondere alla domanda “cosa ci dice che in quella stanza si stia svolgendo un’analisi?”, ciascuno cercherebbe degli oggetti in qualche modo significativi e specifici.
E’ probabile che se chiedessimo a dieci persone di nominarne uno soltanto, più della metà direbbe “il divano” o lettino, come lo vogliamo chiamare.
Non a caso, perché dal 1913, anno in cui Freud lo introdusse come elemento fondante della terapia psicoanalitica, al contrario di altri oggetti della stanza di analisi che hanno subito traslochi, restauri o ridimensionamenti, il lettino è rimasto, almeno ufficialmente, al suo posto. Da questo punto di vista, come suggerisce Lingiardi (2008), il lettino sembrerebbe la più durevole fra le eredità freudiane; il marchio di fabbrica della psicoanalisi.
Nei nuovi consigli sulla tecnica Freud da, della raccomandazione a usare il lettino, almeno tre motivazioni: il significato storico (è quel che resta del metodo ipnotico), una ragione personale (non sopportava di esser guardato per otto ore di seguito) e, infine, una ragione tecnica, ma assai legata al tipo di patologia, quella isterica, di cui Freud si stava occupando e sulla quale stava gettando le fondamenta dell’edificio teorico della psicoanalisi (cioè di inibire la scarica motoria per facilitare la canalizzazione dell’energia psichica in parole) (Freud, 1899). Lo scopo di Freud era quello di dare alcuni consigli al medico e all’analista, chiarendo che essi traevano origine dalla sua esperienza personale, e che erano, come tali, passibili di variazioni e non necessariamente validi per tutti. Rapidamente però, come fa osservare Etchegoyen (1986), quello che Freud introduce come una peculiarità del suo stile, assume il valore di “norma tecnica universale”, oggetto fondativo del metodo psicoanalitico.
Possiamo scegliere il nostro stile, ma le norme tecniche sono parte di uno strumentario che non può che essere condiviso con la nostra comunità scientifica e quindi che ci deriva direttamente dalla comunità psicoanalitica.
E’ allora ragionevole pensare che l’elevare il lettino (come altri fattori “estrinseci” del setting spazio-temporale) a elemento tecnico fondativo del metodo psicoanalitico senza una riflessione che ne ristabilisca il corretto rapporto con la teoria (anche tenendo conto dell’enorme sviluppo applicativo della psicoanalisi in ambito clinico) possa in qualche modo incrinare lo statuto scientifico della nostra disciplina.
Si può pensare che l’avvento delle nuove forme d’intervento psicoterapeutico e la frammentazione teorica all’interno della psicoanalisi abbiano in qualche modo contribuito a rendere vacillante il polo teorico di riferimento psicoanalitico, spingendo così, forse eccessivamente, nella direzione di un irrigidimento del polo tecnico (frequenza delle sedute, uso del lettino, etc.).
In un modello in cui la tecnica assurge al rango di teoria, il rischio però può diventare quello di sviluppare una modalità di pensiero circolare, in cui ogni spiegazione è in realtà una pseudo-spiegazione (Filippini, 2005). In un tale modello il livello descrittivo e quello esplicativo di un fenomeno possono sovrapporsi e confondersi al punto tale da scivolare in quella “euristica della rappresentatività” così cara a Woody Allen, per cui la presenza di un lettino in una stanza sarebbe, di per sé, sinonimo di psicoanalisi.
Ma allora, se proviamo ad andare oltre il divano, se proviamo, parafrasando Roussilion, a mettere il lettino in latenza, come possiamo capire cos’è psicoanalisi?
Da un formidabile progetto di ricerca della FEP, promosso da David Tuckett, arriva un suggerimento metodologico, un paio di occhiali “speciali” per mettere meglio a fuoco quello che stiamo cercando: lo sforzo di definire che cosa sia psicoanalisi, ci suggeriscono i conduttori del progetto, per essere significativo, non dovrebbe osservare il problema da un’angolatura teorica o da quella del setting (lettino vs. poltrona, frequenza delle sedute), ma da un versante empirico. In altre parole dovremmo cominciare come con l’osservare che cosa succede nella pratica, quando uno psicoanalista “sta facendo psicoanalisi”.
Quello che vorrei fare oggi,( come introduzione alle relazioni dei colleghi che entreranno più nello specifico del tema ?), molto brevemente, non è testare un’ipotesi, cosa sia per me o per altri la psicoanalisi o cosa sia e cosa si debba intendere per interpretazione psicoanalitica, ma provare a “guardare” questo problema con un approccio investigativo a finale aperto, “open-ended”, in modo tale da sviluppare una lente per osservare i fenomeni di cui ci stiamo occupando. Più semplicemente, vorrei riflettere su come riflettere, piuttosto che definire l’oggetto della mia riflessione.
In realtà il mio non è un atteggiamento investigativo completamente a-teoretico; semplicemente scelgo di privilegiare, all’oggetto da osservare, il modo di osservarlo. Questo perché, a mio avviso, una delle specificità della psicoanalisi sta proprio nel fatto che il modo di cercare è di per sé un fattore terapeutico tanto quanto la possibilità di trovare quello che si stava cercando.
Come suggerisce Ferro (2010), utilizzando uno dei suoi paradossi verbali, Psicoanalisi è una parola composta da tre sillabe: psicoanalista, paziente e setting ed è, nella sua visione minimalista che io mi sento di condividere, un metodo di cura della sofferenza mentale. E come cura la psicoanalisi? Ovvero, per seguire il mio paradigma investigativo, quale metodo usa la psicoanalisi per trovare quello che cerca?
Sempre per restare nel minimalismo, potremmo dire che il paziente, parla, l’analista ascolta e il setting riduce al minimo il rumore di fondo prodotto dalla realtà esterna e, auspicabilmente, anche quello prodotto dalla realtà interna dell’analista.
E che cosa differenzia l’ascolto dell’analista da quello di una qualunque altra conversazione? Reik definì l’ascolto analitico come un ascoltare con il “terzo orecchio”, (“Das dritte Ohr”: essere dotati di una fine sensibilità e discriminazione), cioè ascoltare ciò che il paziente dice, ma anche ascoltare la propria voce interna, di solito sommersa dal rumore dei nostri pensieri. Ascoltare con il terzo orecchio, ascoltare empaticamente, ascoltare senza memoria e senza desiderio vuole dire ascoltare quello che ci dice il paziente senza immediatamente filtrarlo attraverso lenti teoriche prestabilite e senza correre con il pensiero all’interpretare quello che una teoria o un’altra potrebbero frettolosamente suggerire. In altre parole, come ci insegna Stefania Manfredi, è la mente dell’analista piena di teorie che si pone come un ricettacolo per le esperienze del paziente e non l’analista con una teoria che cerca un paziente in cui metterla.
Lo stare in questo stato di latenza preconscia permette alla percezione di maturare, lasciando fluttuare l’attenzione e tollerando anche molto a lungo l’incertezza e la confusione, fino a quando, poco a poco, emerga, nella mente dell’analista, una formulazione, (che potrebbe certo essere identificata come il “fatto scelto” di Poincaré e di Bion, o come quel “now moment” di cui parla Stern), un evento che si risignifica in quel momento della relazione per certi nuovi collegamenti. Fino a quando, appunto, non si trova quello che si stava cercando.
Questo peculiare assetto mentale, comunque lo si voglia definire, “Mettere la mente a maggese” (Masud Khan), “Ascoltare senza memoria e senza desiderio” (Bion), esercitare la capacità negativa (Bion), “tenere a capa fresca” (Manfredi), crea una sorta di torpore metodologico da cui uscirà un qualche tipo di “fatto scelto” o comunque la pensiamo teoricamente, un qualche tipo di “intervento” dell’analista che modificherà il campo. Per esempio, ad un certo punto, l’analista darà un’interpretazione, che lei stessa ascolterà perché come dice Stefania Manfredi: come faccio, io analista, a sapere quello che penso se non ascolto quello che dico? E dopo avere ascoltato me stessa, mi metterò di nuovo ad ascoltare il paziente che con la sua reazione mi offrirà di nuovo un contesto, aprirà altri spazi nella mia memoria che saranno ancora spazi di risignificazione.
In analisi, come in qualunque psicoterapia, ascoltare è più importante che parlare. In realtà molto di quello che diciamo in seduta è teso proprio a dimostrare che stiamo ascoltando.
I suoni si possono sentire, i significati si devono ascoltare e ascoltare implica un’attività estremamente complessa; in analisi non si ascolta con le orecchie, ma con la mente. Quello che distingue immediatamente l’ascolto analitico da quello di una qualunque altra conversazione sta, soprattutto, nella attenzione alla molteplicità dei livelli del discorso che si ascolta.
In una conversazione analitica si ascoltano le parole, si ascolta il primo, immediato e manifesto significato che le parole del paziente veicolano, il loro significato condiviso, ma mentre si ascolta questo, già sentiamo che quelle parole possono contenere sfumature di significato più personale e idiosincratico. Ascoltare analiticamente significa distinguere voci diverse, alcune distinguibili, se si sa cosa ascoltare, altre appena udibili, altre ancora mute, talvolta prigioniere nel corpo. Per questo abbiamo un setting, perché, come il buio in sala (felice metafora di Flegheneimer), ci permette di dimenticarci della realtà esterna, che sia giorno o che sia notte, sia d’estate o sia d’inverno, e di immergerci nella trama. Other times, other realities, dice Modell.
Questa condizione di ricettività attentiva, (ricettività per raccogliere i dati e attenzione per selezionarli) corrispondente ad un particolare stato di coscienza, rappresenta una speciale combinazione fra un profondo rilassamento e una notevole capacità di concentrazione (Casement, 1985; Freud, 1912; Ogden, 1997).
Bolognini, nella relazione di apertura del nostro ultimo congresso nazionale, riporta una sequenza tratta dal libro “Lo zen ed il tiro con l’arco” nella quale il filosofo tedesco Professor Herringel impiega molto tempo per comprendere che per tendere lo strumento e far partire la freccia non si deve impiegare una tecnica intenzionale. Il maestro giapponese non può spiegarglielo con efficacia in termini filosofici, se conta di produrre in lui una vera trasformazione.
Può soltanto assisterlo per mesi e mesi e accompagnarlo per come può, più o meno stancamente e pazientemente; salvo risvegliarsi di botto, e con emozione, allorché ad Herringel parte un colpo sul più bello, quasi per sbaglio.
Allora il maestro scatta in piedi, fa un inchino e dichiara: “Oggi si è tirato!”.
Herringel, che per mesi aveva fatto il furbo tentando – senza dare troppo a parere – varie tecniche di tensione volontaria di quel dannato arco, era stato preso in contropiede da se stesso, da qualcosa di sé che lo aveva preceduto, eludendo il controllo della sua intenzione cosciente. Cosa era accaduto? Difficile da spiegare, dice Bolognini. E comunque il maestro non si era inchinato a lui, ma con lui: “si” era tirato.
Nella pratica zen, come in quella psicoanalitica, non c’è niente di magico; c’è una lunga e paziente coabitazione psichica, un cercare senza intenzione, e più ancora del cercare, c’è l’acquisire un modo di stare, fisicamente e mentalmente. Molta della nostra formazione implicita (nel senso che non sono previsti seminari o supervisioni su questo) ha a che fare con lo sviluppo della capacità di conciliare la necessità di mantenere, al tempo stesso, relativamente immobile il corpo ed estremamente mobile la mente. L’immobilità del corpo e la mobilità della mente sono due condizioni necessarie a favorire, sia nel paziente, che nell’analista, la possibilità di sviluppare un pensiero associativo/riflessivo. E la possibilità di cogliere quello che è del paziente, senza rischiare di confonderlo con il nostro rumore interno, è vincolata dalla nostra capacità di operare, come un maestro zen, un continuo e faticoso esercizio di attesa, un far posto a quel che viene, un esercitare continuamente il non sapere e il non capire.
E quali sono le caratteristiche di questa modalità di pensiero? Che cosa rende il pensiero associativo/riflessivo in analisi diverso da quel flusso di pensieri che ciascuno di noi, analizzato o meno, può sperimentare continuamente quando pensa fra sé e sé?
Fred Busch, in un recente lavoro sull’International Journal, riflettendo su quale sia la specificità di una terapia analitica, rispetto al campo più vasto delle psicoterapie, suggerisce che questa stia nella modalità di conoscenza che si sviluppa nel corso di un trattamento analitico. Vale a dire, come dicevo prima, che la peculiarità sta nel come si impara a cercare e non tanto, o soltanto in quello che si può effettivamente trovare. “Si è tirato”.
Si potrebbe dire che spesso si entra in analisi trattando i pensieri alla stregua di eventi reali, quel tipo di funzionamento mentale che Fonagy e Target chiamano “equivalenza psichica”, per cui le idee non sono rappresentazioni della realtà, ma sono la realtà. La peculiarità dell’ascolto analitico con quel dare peso e spessore alle parole, quel trattare i pensieri come oggetti sempre nuovi e misteriosi, quel lasciarli scorrere e passare, a tratti, o trattenerli e maneggiarli, questa modalità analitica di “stare con la mente”, può sviluppare nel paziente la capacità di osservare e riflettere sui propri pensieri come eventi mentali. E in fondo, quello che fa la differenza, forse non è il contenuto di quel singolo, magari importantissimo pensiero che ad un certo punto potrà essere pensato; quello che fa la differenza sarà l’aver acquisito il modo di poterlo pensare. Parafrasando un detto cinese, non sarà ricevere un pesce che placherà l’ansia di non avere da mangiare, ma l’avere imparato a pescare.
Dunque per concludere senza avere in mente niente di conclusivo: si può riflettere su cosa sia psicoanalitico senza restare subito impastoiati nelle insidiose melme delle dispute teorico/tecniche (lettino vs. poltrona, psicoanalisi vs. psicoterapia, espressivo vs. supportivo, pulsionale vs. relazionale, interpretazione vs. contenimento etc.)? Forse si se si tratta la psicoanalisi come la psicoanalisi ci insegna a trattare i nostri pensieri: come un modo di cercare senza cercare, di osservare senza concludere. Intenti al come si pesca, più che al pescato. Un’arte di stare con la mente.
“Rassegnati comunque – e concludo con le parole di Bolognini – al non sapere nulla in anticipo, e al fatto che “psicoanalisti” non lo si è una volta per tutte a seguito di un diploma ministeriale, ma lo si è giorno per giorno, seduta dopo seduta, se si mantiene vivo il contatto interno con noi stessi, con i pazienti, con i colleghi e con gli oggetti significativi della nostra vita personale e scientifica.”