Alice Munro (1974), La cerimonia del commiato, in “Una cosa che volevo dirti da un po’”, Torino, Einaudi, 2016.
Recensione a cura di Vincenza Quattrocchi
Non fa sconti la nostra Autrice, armata con pugno di ferro e guanto di velluto, come le sue parole. In questo racconto si ritrovano due sorelle e nelle poche pagine è messo a vivo il loro rapporto, l’una la maggiore Eileen e l’altra la minore June. Dopo aver condiviso la morte precoce del padre, si sono trovate a sopportare e supportare una madre sconclusionata e psichicamente fragile.
Per entrambe la frequenza all’Università Statale era stata possibile grazie alle meritate borse di studio.
La maggiore aveva, senza saperlo, condiviso con la madre, la prima sera della morte in guerra del padre, notizia poi rivelata a entrambe la mattina seguente, al risveglio. Eileen, se pure ignara, aveva avuto un piccolo privilegio da primogenita, bere thè e mangiare biscotti, e soprattutto spezzare la solitudine della madre in quella veglia di dolore. Crescendo, la smania di June, nel ricalcare il modello della sorella maggiore si stempera, cambia direzione e le due finiscono con l’essere l’una, l’opposto dell’altra. June, attraversa la Psicologia e ne fa uso per sublimare, idealizzare ma anche ridicolizzare la malattia della madre quando la “mostra” agli altri. “Lascio il senso di colpa tutto a mia sorella Eileen, la primogenita”.
Il suo impegno, è quello di contrapporsi alla madre e di organizzare una vita perfetta: controlla le sue scelte, sposa un uomo ricco e plasmabile con il quale ha cinque figli, più due bambine indiane adottate, “una coccarda da esibire” come ha modo di dire Eileen. June ed Ewart ostentano la loro perfezione psicologica, ecologica e sociale. Eileen trova la sua strada nella letteratura, ha una vita sentimentale un po’ discontinua, dopo il matrimonio, molti partner si succedono e la sua unica figlia, vive a molti chilometri di distanza da lei. Quando raramente incontra la sorella, regge male il suo confronto e ogni azione per lei diventa problematica, cade in uno stato depressivo conseguente al senso di inadeguatezza che le reca il confronto con l’impeccabile sorella che invidia, ma che non esita a dileggiare quando torna dai suoi amici, una squalifica fatta alle sue spalle, un modo per operare una vendetta. La morte è presente sin dall’inizio del racconto. Le due s’incontrano per un funerale, la tragica morte del primogenito di June, ma esiste già molto freddo tra loro, una mancanza di comunicazione che ci dice che da molto tempo non c’è vitalità tra le due sorelle. Eileen ancora una volta si stupisce, la sorella è perfetta, è appena morto Duglas ma lei domina anche questo dolore generalmente per tutti insostenibile. Organizza il rinfresco, il funerale, il viaggio dei vari amici che interverranno, non perde un pelo, la sua perfezione è sconcertante; ma dove stanno il dolore, la disperazione? Se lo chiede inorridita, ipercritica, Eileen si sarebbe aspettata il crollo e così tiene in gabbia anche la propria emozione. Un’emozione contrastata perché essendosi immedesimata nell’atroce dolore di chi perde un figlio, ha pensato come spesso avviene, che fortunatamente, non era toccato a lei.
A
Nel corso della cerimonia del commiato si ubriaca e in questo stato di debolezza cede alle avance del cognato. Da poche parole, nel testo, sembra non essere la prima volta. Azioni avverse che parlano da sole. Anche Ewart è ubriaco e ossessivamente intento a innaffiare, persino sotto la pioggia, le piante del giardino giapponese, che aveva seminato con il figlio. Quest’uomo per quanto diretto dalla mano di June, sembra più autentico. Il rito dell’innaffiatura è un disperato tentativo di far sopravvivere il ragazzo perduto. “ Tu hai, pianto grazie Eilleen” ed è come se volesse dire: “Tu hai pianto anche per noi, con il tuo pianto vero”. Vengono in mente le prefiche, donne pagate per piangere ai funerali nei tempi antichi. “unica speranza che abbiamo, pensa Eileen, è di scivolare ogni tanto nella realtà, e mentre lo pensa, si addormenta per una manciata di secondi e si risveglia con le dita strette attorno al bicchiere.”
Dopo il funerale, le sorelle si salutano, June è mesta e racconta che il figlio è morto per uno scontro sopraggiunto all’incidente dal quale era rimasto incolume; una fatalità orrenda. Per un istante la situazione si capovolge, June sembra inerme, Eileen abbozza con fatica una carezza ed ecco che allungare la mano diventa per lei molto faticoso, un gesto estremo … “ un gesto senza fede può restituirci la fede?”?In quel saluto entrambe perdono l’occasione di scambiarsi di ruolo, di essere per un momento l’una al posto dell’altra come invece riescono a fare Marianne terrorista e Julienne insegnante, sorelle nel film di M. Von Trotta Anni di Piombo 1981.
Nel film l’incontro in prigione è fatto di scambi profondi e discussioni accese tra le due sorelle che hanno intrapreso strade differenti, ma è fatto anche di amore, di empatia e di desiderio dell’una di stare nell’altra ed è cosi che con un gesto spontaneo si scambiano la maglia, ognuna indossa quella dell’altra, una metafora che rende concreto il desiderio reciproco di immedesimarsi/identificarsi e di stare nei panni dell’altro.
I ruoli di Eilleen e di Jane sono pietrificati, resi inamovibili dalla distanza, irrigidimenti che non permettono scambi di ruolo, condivisioni o riappropriazioni di parti dell’altra che sono anche proprie. L’una ha bisogno di trionfare sopra ogni emozione e di controllarla, un uso protesico della sua formazione psicologica che invece dovrebbe portare a coltivare sensibilità e ascolto delle proprie e delle altrui emozioni e, come si dice, aprire un terzo occhio. L’altra, nella sua vita approssimata, si differenzia e deride dentro di sé, una sorella che invidia sì, ma che l’ha costretta a vivere dolorosi momenti di scarsa stima si sé e a interpretare continuamente il risentimento e il livore . “l’unica speranza che abbiamo, pensa Eileen, è di scivolare ogni tanto nella realtà, e mentre lo pensa, si addormenta per una manciata di secondi e si risveglia con le dita strette attorno al bicchiere”
Alice Munro ci sorprende per i suoi racconti densi e ricchi come romanzi, per le sue parole acute e misurate, per il suo modo di dirle al momento giusto ma nello stesso tempo di non dirle per lasciare immaginare chi legge e attivare la riflessione del lettore.
Nel nostro caso è una lettura che ci mette davanti a come spesso le relazioni non si modificano a causa di una, reciproca ostinata attribuzione di ruolo.
Colloco così questa breve recensione: le nostre parole dette e scritte nel tentativo di restituire quel pathos che c’è, anche se non è apparente e di svelare ciò che è sotterraneo ed ermetico nelle relazioni che Alice Munro descrive.
Ognuno sta solo sul cuore della terra,
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Salvatore Quasimodo