Relazione presentata al seminario di Formazione Psicoanalitica – Cinema Auditorium Stensen, Viale Don Minzoni 25/c, 4 Dicembre 2010
FIRENZE 4 DICEMBRE 2010
Mi sono chiesta perché da un po’ di tempo si svolgono convegni e incontri su temi che mettano in discussione, in modo un po’ subdolo, i principi fondamentali della psicoanalisi. Certamente non possiamo immobilizzarci in un sapere di tempi passati, ma scusate, non si è sempre detto che l’inconscio è atemporale? “Inconscio”, si è dovuto organizzare un congresso, per altro ottimo, per ribadirne l’esistenza, si discuterà prima o poi della metapsicologia, o forse è già stata accantonata. Personalmente mi sento molte volte orgogliosamente retrò poiché parlo di eccitazioni e di pulsioni, di principio di piacere e di realtà, di prima e seconda topica e non solo di relazioni oggettuali, di interpsichico, ma di intrapsichico.
Dopo questa breve premessa cercherò di essere altrettanto breve nel differenziare la psicoanalisi dalla psicoterapia. Per questo è indispensabile fare riferimento al quadro, cioè alla scena che permette di immaginare il gioco, il rapporto intersoggettivo, le forze e la produzione dei registri rappresentativi che appartengono al corpo, al linguaggio, all’Altro, al lavoro del pensiero e dell’astrazione.
Nell’analisi ( non uso il termine “classica” che ora va di moda poiché ritengo che, nel rispetto di teorizzazioni differenti ,Freudiana-Kleiniana-Bioniana, la psicoanalisi sia solo quella che ha radici Freudiane) il quadro permette di esprimere, di mettere in scena, attraverso la parola la propria “follia privata”, di svelare i sistemi di investimento, di disinvestimento, di manifestazioni momentanee di aspetti del Sé che sfuggono all’Io, di promuovere il desiderio di conoscere ciò che è inconoscibile attraverso la relazione con l’Altro. Per giungere a questo processo occorre rispettare la regola fondamentale: le associazioni libere che solo in assenza-presenza dell’Analista possono veramente concatenarsi. E’ evidente che ci troviamo confrontati a una teoria del “Non-Io”. In Analisi il quadro rimane costante e permette di osservare gli effetti dell’incontro e non- incontro di transfert e controtransfert; il Paziente sul lettino può mettere l’Analista tra parentesi, permettendo a quest’ultimo di essere un oggetto paradossale, di essere là e non esserci, di essere oggetto di desiderio, ma di sottrarsi ai desideri del Paziente. La Psicoanalisi mira a creare un mutamento strutturale di fondo, a creare l’integrazione nell’Io cosciente del conflitto inconscio rimosso e dissociato.
Nella Psicoterapia Psicoanalitica (PP) si mira soprattutto al mutamento sintomatico e, come afferma Kemberg, suo scopo principale è di evitare il pericolo di passaggi all’atto che sono specifici delle personalità “al limite” (IJ,70,563 -1989), ha finalità terapeutica e/o riparatrice. Importante è la sua funzione di riparazione narcisistica che può trovare nel vis à vis un mezzo di holding, di mirroring, di containing.
Perché al termine psicoterapia si possa accostare l’aggettivo psicoanalitica, occorre che il quadro generale resti quello della psicoanalisi: neutralità benevola,astinenza di tutte le gratificazioni reali,utilizzo prevalente della parola, elaborazione del controtransfert fissità dell’orario, e durata della seduta che deve permettere al Paziente un senso temporale collegato ai rapporti abituali con la realtà esterna e alla comunicazione sociale.
Lo psicoterapeuta psicoanalitico, però, deve evitare l’eccesso delle interpretazioni che in questi casi possono provocare decompensazioni, disorganizzazioni, depressioni, acting out e somatizzazioni, sino all’interruzione della psicoterapia. Il rischio è che il Terapeuta, dandosi un rigore minore rispetto al metodo che a volte è più adattativo, pedagogico, in funzione di una finalità più curativa, da risposte anche per quello che riguarda la vita reale, privando il Paziente di approfondire e appropriarsi delle sue attività psichiche inconsce e quindi di una maggiore emancipazione che abbia meno ricadute possibili e quindi meno ricorsi, nel tempo, all’aiuto terapeutico.
Quello che più distingue la Psicoanalisi dalla PP sono il numero delle sedute settimanali. Perché il processo psicoanalitico possa svilupparsi , perché le difese o l’agito o la realtà del quotidiano non faccia da barriera all’indagine e alla scoperta dell’inconscio, ritengo che le sedute debbano essere almeno tre settimanali. Nella PP, invece, anche due, possono permettere un buon lavoro curativo.
Green mette in evidenza come l’attualità nella PP sia il processo di internalizzazione che avviene in seduta, mentre in analisi il lavoro è centrato su qualche cosa che è già stato internalizzato. Credo si debba comunque prendere in considerazione la realtà psicopatologica del Paziente. Come possiamo lasciare lunghe pause a chi soffre di crisi abbandoniche? A chi nega l’esistenza dell’oggetto se non lo percepisce? A chi, come difesa, usa la maniacalità e l’agire? Come afferma Palacio Espasa, le due sedute hanno una ritmicità cadenzata con intervalli continui regolari a differenza dell’analisi a tre o quattro sedute, dove vi sono sedute vicine e un intervallo più lungo. Questo permette al paziente, durante le sedute ravvicinate, di ri-vivere una forma di “possesso e controllo del terapeuta”, e, come afferma Bleger (citato da Palacio (p.20, in “La pratique psychothérapique avec l’enfant” ed .Bayard, Paris) di sviluppare il fantasma di tipo simbiotico-narcisista che si mantiene in modo silente grazie al quadro esterno. Inoltre la sospensione più lunga del week end crea angosce, conflitti nei fantasmi di onnipotenza. Si arriva a un vissuto di tipo depressivo che permetterà al paziente di mettere in evidenza, e comprendere, i propri meccanismi di difesa. Al contrario, se il paziente viene solo due volte si crea una scansione temporale più omogenea che non permette ai fantasmi narcisistici o fusionali “silenti” di emergere e di conseguenza anche il vissuto depressivo avrà meno consistenza. Solo le lunghe vacanze possono sopperire allo sviluppo del processo che aiuta il paziente a vivere le sue mute angosce abbandoniche.
Come ho sopra sottolineato, il quadro fra i due approcci presi in esame cambia di poco, anche se le finalità e l’approccio a patologie di tipo narcisistico o psicosomatico impongono una scelta precisa, almeno come primo intervento. In questo senso credo che il termine di “psicoanalisi transizionale” utilizzata da Anzieu e da Kaes per la PP vis à vis abbia un senso. “ Il Paziente ha bisogno di cogliere in modo globale-sensoriale il suo analista, di capirlo…ma anche di vederlo, di ripetere le sue mimiche, i suoi comportamenti….in qualche modo di toccare il suo corpo attraverso lo sguardo e l’imitazione posturale..” Certo questa “analisi transizionale” ritengo possa essere così definita perché traghetta la capacità psichica da una sponda dove l’analisi risulta impossibile ad una organizzazione psichica in grado di avvicinarsi ad un lavoro tipicamente analitico.
Esistono alcune psicoterapie relazionali che, secondo me, hanno ben poco di psicoanalitico dal momento che il fattore mutativo avviene attraverso le azioni e non la parola. In esse si afferma che”non c’è nulla che sia da interpretare” ma che “l’evento mutativo è quello che succede qui ed ora e non ha nessun bisogno di essere spiegato con le parole”(D.Stern, citato da Riolo RFP, 2004, n.5) Molti sono gli autori americani fautori del relazionale che concordano con Van Spruiell che ad una assoc. Psicoanal sbandiera la “passione per l’uguaglianza” fra Analista e Paziente. Questo ha portato Merton Gill a dichiarare di aver messo in atto analisi reciproche Analista Paziente. In questa linea Stolorow e Atwood criticano Kouth che aveva definito l’empatia “neutra e obiettiva” e il Sé dotato di forze interne (Psych.Quarterly 66, p.431-449). Stephen Mitchell respingendo la meta psicologia respinge il tentativo di Freud di creare una terapia per fornire “una mappa della struttura della mente.” E ancora, “la teoria è solo un ostacolo affermava Schwaber nell’International Journal (71,p229-240), solo per citarne alcuni.
Ora mi chiedo perché coloro che hanno aderito a questo modello ci tengano tanto a definirsi psicoanalisti? Quale aggressività hanno nei confronti della psicoterapia relazionale? Qui non c’entrano il numero delle sedute, in questa passione per l’uguaglianza basta anche una seduta settimanale, ma l’eliminazione del quadro psicoanalitico e dell’identità dell’analista. Ritengo che questa identità dipenda dalla capacità mentale di andare e venire fra il dentro e il fuori, fra il reale e il fantasmatico, dall’ aver bene internalizzato il quadro al fine di poterlo adattare all’attualità del Paziente. Tutto questo può avvenire se l’Analista ha fatto una lunga e approfondita analisi su se stesso. Solo con queste caratteristiche l’analista può definirsi tale sia per una analisi a tre o più sedute che per una psicoterapia psicoanalitica o “analisi transizionale” a due sedute.
Rita Anna Manfredi
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